giovedì 29 ottobre 2015

"TRAversi" e Pordenonelegge per una festa di poesia in due tempi a Ca' dei Ricchi a Treviso


Ca' dei Ricchi
via Barberia 25, Treviso
Rassegna di poesia "TRAversi" / Festa di Poesia
a cura di Marco Scarpa
con la collaborazione di "TRA - Treviso Ricerca Arte" e Pordenonelegge

Giovedì 5 novembre - ore 20:45
Alberto Cellotto, Roberto Cescon, Igor De Marchi, Fabio Franzin, Sebastiano Gatto, Maddalena Lotter, Giulia Rusconi, Silvia Salvagnini, Gian Mario Villalta.

Giovedì 12 novembre - ore 20:45
Nicoletta Bidoia, Luciano Cecchinel, Roberta Durante, Andrea Longega, Piero Simon Ostan, Francesco Targhetta, Francesco Tomada, Antonio Turolo, Giovanni Turra.


Ricordo che dalla prima edizione della rassegna è nata l'antologia intitolata
Traversi a cura di Marco Scarpa (Edizioni Prufrock spa, 2013). 

Il volume contiene testi di Cristina Alziati, Antonella Bukovaz, Alessandra Carnaroli, Alberto Cellotto, Roberto Cescon, Mario De Santis, Roberta Durante, Giovanna Frene, Stefano Guglielmin, Laura Liberale, Franca Mancinelli, Fabio Orecchini, Luca Rizzatello, Flavio Santi, Mary Barbara Tolusso, Ida Travi, Giovanni Tuzet, Gian Mario Villalta.

[Qui il booktrailer e qui per informazioni e acquisti]

mercoledì 28 ottobre 2015

Renato Serra tra le nuvole e la luna fresca

Leggere una grande guerra #17

"Leggere una grande guerra" intende essere il breve spazio in cui segnalo dei libri sulla Prima guerra mondiale. Il quinquennio 2014-18 coincide con un lungo periodo di celebrazioni, commemorazioni ed eventi a livello internazionale. Segnalare semplicemente dei titoli di libri, brevi o meno brevi, passati o attuali, reperibili o non reperibili, italiani o stranieri, può essere un buon antidoto contro le fanfare e i tromboni che stanno pericolosamente giungendo un po' da ogni parte. Le segnalazioni saranno sintetiche, poco più di una scheda bibliografica. (In coordinamento con World War I Bridges).

Non propriamente un libro sulla Grande Guerra è questo Tra le nuvole e la luna fresca che l'editore Nino Aragno dedica a Renato Serra (euro 12, a cura di Luigi Bonanate). Tuttavia si sa che la pallottola che colpì il direttore della Biblioteca Malatestiana in fronte, il 20 luglio di cent'anni fa sul monte Podgora, durante la Seconda battaglia dell'Isonzo, ha indissolubilmente legato il suo nome a quel conflitto per il quale aveva espresso il proprio peculiare favore. Se scorriamo l'indice del volume, capiamo comunque che si tratta anche di un libro utile per provare a leggere quella guerra. Vi troviamo l'approfondita prefazione di Bonanate, nella quale avviene anche una sommaria ricomposizione della vita del critico romagnolo, con qualche concessione ai dettagli (dal Serra sciupafemmine al patito del gioco d'azzardo), una ricognizione sulle opere e sulle tantissime lettere (Serra si muoveva poco da Cesena e la sua opera più affascinante resta forse l'epistolario), l'affastellarsi dei ricordi di amici e di Giuseppe De Robertis in particolare modo. Dopo la prefazione, il libro prende due strade. Una prima parte raggruppa le Lettere in pace e in guerra già pubblicate dallo stesso editore, il celebre Esame di coscienza di un letterato e il puntiforme Diario di trincea (6-20 luglio 1915); una seconda sezione è invece tutta dedicata a De Robertis, con gli scritti La realtà e la sua ombra, quella sorta di necrologio impossibile che fu Per la morte di Serra e infine Conversazione sulla vita e sulla morte. Una selezione di lettere di Serra è recentemente comparsa anche nella bella collana "Maestri" curata da Antonio Debenedetti per Elliot con il titolo Lettere dal fronte (pp. 96, euro 9,50, con una prefazione di Massimo Onofri). Su questa collana dovremmo prima o poi ritornare. Ma è bene tornare ogni tanto anche sul "mito Serra", dentro e fuori l'aria viziata e perniciosa del centenario. Ecco quindi due segnalazioni di libri, come due finestre aperte a salutare spiffero.

domenica 25 ottobre 2015

Poesie, prose e traduzioni di Clemente Rebora. Un'intervista ad Adele Dei, curatrice del Meridiano

Librobreve intervista #62


Ospito qui di seguito un'intervista ad Adele Dei, docente di letteratura italiana all'Università di Firenze e curatrice assieme a Paolo Maccari di Poesie, prose e traduzioni (Mondadori, pp. CXXXIII-1338, euro 80), Meridiano che finalmente restituisce alle librerie Clemente Rebora in ogni sfaccettatura della sua controversa opera. Sappiamo in realtà che Rebora non ha mai smesso di essere un termine di confronto per molti, tanto che Pasolini sancì a suo tempo questa carsica presenza con la celebre definizione di "maestro in ombra". Con l'intervista che segue, si prova a restituire almeno parte delle antinomie che attraversano questa fondamentale figura del Novecento letterario italiano. Per un discorso davvero approfondito, il rinvio è a Sul filo della spada, ovvero l'introduzione che Adele Dei ha scritto per quest'opera.

LB: Quando si inizia a profilare l'idea di un Meridiano dedicato a Rebora e quali sono le prime direttrici su cui si indirizza la discussione sulla curatela e sulla costituzione dell'opera, nella quale prende parte attiva anche Paolo Maccari?
R: 
Il problema preliminare è stato quello di come organizzare e costruire il libro, ripensarlo completamente mettendo in discussione i criteri e la stessa consistenza dell’edizione Garzanti delle Poesie, che mi sembrava per molti aspetti insoddisfacente. L’idea di accludere tutte le prose pubblicate fino al 1930 e le traduzioni è venuta in un secondo tempo, per rendere il volume più completo e utile. Ne ho parlato più volte con Paolo Maccari e, alla fine, con Renata Colorni ed Elisabetta Risari della Direzione Classici di Mondadori.  

LB: La sua prefazione si apre giustamente con un monito a fare attenzione alle tante mitizzazioni cui Rebora è stato sottoposto e con un chiaro invito a fare attenzione alle antinomie molteplici della sua opera. Potrebbe da un lato sintetizzare le principali mitizzazioni (la sua "incrostazione" critica, diciamo) e dall'altro i principali nuclei di contraddizioni di questo poeta?
R: Rebora è da tempo imprigionato in una visione prevalentemente agiografica ed apologetica, volta a farne un esempio monolitico di carità e di spiritualità, se non addirittura di santità. Molti degli scritti di critici e biografi (con le dovute evidenti eccezioni) puntano a questa interpretazione, spesso nella totale noncuranza di qualunque cautela filologica e in assenza di qualunque vera ricerca. Ne risulta un appiattimento che non rende giustizia al poeta e all’intellettuale che Rebora è  stato – a cui invece è dedicato il Meridiano - né alle varie, tormentate fasi della sua vita. Il discorso sulle antinomie e sulle contraddizioni sarebbe molto lungo e complesso e non riesco a riassumerlo in poche parole. Accennerei soltanto al perenne conflitto fra singolare e plurale (fra l’io e il noi) che anima tutta la sua poesia, conducendo infine alle scelte irreversibili della conversione e del sacerdozio, o al conflitto fra corpo e spirito, risolto talvolta con slanci quasi autopunitivi. Ma una sorta di complesso manicheismo è onnipresente fino agli anni ’30 in tutti i suoi scritti, lettere comprese.    


LB: In quel libro straordinario di recensioni che è Plausi e botte Giovanni Boine sancisce in qualche modo la "fortuna" dei Frammenti lirici con la celebre chiusa ("GRANDE"). In realtà si trattò di un bel ripensamento! Libro emblematicamente collocato un anno prima della catastrofe della guerra che condusse Rebora nei territori attigui alla pazzia, opera a dir poco complessa eppure presenza costante, Frammenti lirici rappresenta una sorta di enigma vitale della nostra poesia. Da studiosa di letteratura, qual è la sua personale visione dell'attraversata di secolo compiuta da questo libro, che fra l'altro fu dedicato ai primi anni del secolo scorso?
R: Proprio la difficoltà dei Frammenti lirici ne ha da un lato limitato la diffusione e quindi l’influenza, ma dall’altro si è rivelata una sfida, e ha attirato lettori di grande sensibilità poetica che ne hanno tratto notevole frutto. Credo che abbiano ragione sia Pasolini, che riconosceva in Rebora una presenza sotterranea ma viva (un maestro in ombra), sia Caproni, che indicava nella sua poesia  una possibile strada non percorsa, un’occasione mancata (un rimorso) per il novecento italiano. Ed entrambi pensavano soprattutto ai Frammenti lirici, così ancorati storicamente, come dimostra la loro famosa dedica, e insieme così intempestivi, così spiazzanti già allora, forse respingenti. Un libro anomalo e unico, che guarda insieme indietro e avanti, che richiede ancora oggi a chi lo avvicina un impegno e un’applicazione che non tutti si sentono di offrire.     


LB: Tra i vari saggi di Rebora ripresi da questo Meridiano qual è a suo avviso il più innovativo nell'impostazione e quale il più ingiustamente negletto dalla nostra storia letteraria?
R: 
Uno dei più impegnativi e significativi – quasi del tutto trascurato fino a tempi recenti - è sicuramente quello giovanile su Leopardi e la musica (Per un Leopardi mal noto), derivante da una tesina che Rebora aveva preparato prima della laurea. Oltre ad osservazioni di notevole rilievo su un tema allora pressoché ignoto, contiene moltissimi spunti utili per l’interpretazione di Rebora stesso, che era anche un appassionato di musica,  e componeva improvvisando al piano, a lungo oscillante fra la strada della musica e quella della poesia.

Leonid Nikolaevič Andreev
LB: Mi pare si parli poco del Rebora traduttore. L'opera appena uscita per Mondadori invece dedica ampio spazio alle traduzioni di Rebora. Potrebbe illustrarci il rapporto e le tappe principali del capitolo "Rebora traduttore" confluito nel Meridiano?
R: 
Le traduzioni di Rebora appartengono ad un periodo abbastanza ristretto ma cruciale, dal 1916 al 1922, e si intersecano continuamente con la parallela attività di scrittura poetica. Quella dei racconti di Andreev, oltre ad essere davvero notevole, è imprescindibile per la comprensione delle contemporanee poesie e prose del 1916-1917. E ancor più Il cappotto di Gogol e la lunga novella di ispirazione indiana Gianardana, corredate dagli impegnativi commenti del traduttore, costituiscono un vero e proprio trittico con la plaquette di poesie reboriane Canti anonimi, uscita nel 1922.

LB: A lungo lei si è occupata di un altro fondamentale poeta del Novecento: Giorgio Caproni. Su quali linee articolerebbe un discorso che vada a toccare le convergenze tra queste due importanti voci della poesia italiana?
R: 
Si potrebbe senza dubbio impostare un discorso proprio sul principio di contraddizione, o almeno sulle dicotomie che, sia pure diversamente, sono alla base delle loro poesie. Sul piano del linguaggio noterei la compresenza di spunti filosofici e meditativi, per non dire metafisici, con la concretezza degli oggetti, con una evidente e perfino ‘bassa’ fisicità. Ma anche qui bisognerebbe distinguere e approfondire assai meglio di come sia possibile in poche righe. 

LB: Come spesso faccio giunto alla fine di un'intervista, le chiedo di scegliere una poesia di Rebora come congedo. Grazie.
R: 
Sceglierei una straordinaria poesia scritta nel 1914, con la guerra incombente, Notte a bandoliera.

NOTTE A BANDOLIERA


Alghe di tènebra
sull’umida terra
in romba di piena;
scaglie di vetro
dal ràpido cielo
che stelle nel vento
librato riassorbe;
gesto falcato di forme
uscite a capirsi nell’ombre;
fissa follia dell’aria
su nero abbaglio di lampo;
sordo scavare tenace
in eco di màdida pace:
– Balzerà, chi ci spia,
a schiacciar la lumaca
che invischia molliccia la via? –

Per la nerezza sinuosa
prèmono tìnnuli urti,
s’incàrnano stocchi di gelo,
scuri di brìvidi rìgano: –
 Scatterà, l’insidia feroce,
a scovarci nel sangue la vita
che doviziosa s’incrosta
e imbarbarita zampilla?  

Voci osannanti in soffio di sibilla,
e frenesia di muscoli ondanti
per la cupezza emanata;
ossessïone d’attesa,
truce allegria sospesa,
fischi strisciati in domanda,
drappello che annusa
frusciando carponi
in una ràffica chiusa,
chiostra di denti a lame di luce,
intenti occhi a dorso di coltello…
– È giunta la razza assassina!
Son giunti i violenti e gli eroi
che svelan momenti
dell’impossibile eterno:
i buoni di prima,
e i buoni di poi. –


Marzo, 1914

venerdì 23 ottobre 2015

Poesie inedite di Franco Baldasso



"al cor gentil ratto s'apprende" è il titolo dello spazio che Librobreve dedica alle poesie inedite. Qui si ospitano testi che probabilmente andranno a costruire nuovi libri di poesia. Si propone come rubrica di solo testo, priva di foto glamour degli autori. L'unica immagine rimarrà quella del ratto qui sopra, identificativa di ogni post, un portafortuna che dedico agli ospiti. La pubblicazione avviene su invito e pertanto non ha senso inviare i propri testi all'autore del blog se non vi è stato prima un dialogo e accordo tra Alberto e chi ha scritto le poesie. Non ho previsto commenti o preamboli ai testi. I lettori invece possono commentare. 


Tre poesie inedite e un'autotraduzione di Franco Baldasso (Treviso, 1978)

*  

Ti brillava la pioggia
tra le guance. E ben poco
riuscivo ad opporre
se con me non volevi guardare
su tra le nuvole, tra i limoni e i mandarini.
Ma se questo l’ho lasciato
a metà, al caffè dove vado
a lamentarmi, tutto fradicio,
dove tu venire non vuoi,
mi ricredo poi, quando torno
a casa, e con giusto le tue mani
con forbice e carta
hai messo insieme
un ombrello tanto grande
dove tutte le tempeste
sono cesto e frutta.


- -

Rain—was shining
in your cheeks.
And oh, I had nothing
to put forward, if you did not
want to stare up at the clouds
with me, among tangerines
and lemons. I left this unfinished,
At the coffee shop where, alone
And deeply soaked, I always go to complain
that you don’t want to come along.
But as I return home all the concerns
are gone, where with scissors and silk
and the savvy of your hands
you put together such a wide
umbrella, in which all the storms
are nest and fruit.


*

Épater la bourgeoisie


Partono via la sera le vecchie bolle di sapone,
e tra nuvole di cenere è tutto un soffiare su certe braci
che ancora sul caminetto bruciano. Ma non è bastata
una bugia bianca a spegnere queste fiamme
che s’involano senza mai fine e finiscono poi
— come Rina — per schernirsi senza approvarsi.
Proprio lei — la cara Rina — così educata
da grande-dame della Cacania, nata sopra petali
lasciati troppo a lungo al sole, sugli scalini decrepiti di Fiume.
E’ lei che mi ha insegnato la nevrosi, tra ajvar e cevapcici
E quali forchette a tavola e l’etichetta a Bologna.
E con quale mano chiudere i cassetti, e come strizzare
il dentifricio dal verso giusto, da sotto in su. E io
ci provo ancora, dopo anni, ad allenarmi, fare
palestra di queste buone e non innocenti abitudini.
A farmi i muscoli.
E tra le nubi della sera dimentico il resto.
 

*

Il rancore dei vecchi


Sono entrato anche stasera nella sala vuota
del cinema, insieme al velluto rosso
delle poltrone che aspettano la proiezione.
Erano rimasti Daniele e le vecchie tiraossi
ambasciatrici smagate dei circoli italiani,
a cercare quale nostalgia barattare la sera.
Cos’era poi quella luce arancione stasera
che il cinema sembra sempre ricordare meglio
di me, che ho la memoria corta,
e sento sempre tanto freddo nella sala vuota.
Quella luce, tra i rami la sera remota
che la vecchia sala del cinema serba ancora.

giovedì 22 ottobre 2015

Tradurre in italiano Lester Bangs, Douglas Coupland, Tom McCarthy, Jon McGregor e altri. Un'intervista con Anna Mioni

Librobreve intervista #61

Prosegue la serie di interviste ai traduttori, che fra l'altro sono fra i post più letti di Librobreve, quasi a segnalare un beffardo distacco tra l'interesse che l'argomento suscita e il disinteresse con il quale la voce "traduttori" è trattata da un certo universo di editori. Oggi è Anna Mioni a rispondere alle domande. Padovana, laureata in italianistica, traduce principalmente dall'inglese e dallo spagnolo. La traduzione tuttavia non è il solo versante del lavoro editoriale che la vede o l'ha vista impegnata, dal momento che si è occupata anche di diritti, revisioni e scouting.  Insegna traduzione al "Master Tradurre la Letteratura" di Misano (RN) e alla "Scuola Superiore per Mediatori Linguistici" di Vicenza, e ha tenuto inoltre seminari per l’Associazione "Griò" e online per la "European School of Translation". Questo il suo sito personale mentre questo è il sito di AC² Literary Agency, agenzia che ha fondato e che rappresenta.

LB: Qual è l'ultimo libro su cui ha lavorato? Ce lo può brevemente raccontare?
R: In occasione dei 60 anni della casa editrice Feltrinelli, mi è stata assegnata la traduzione di La dolce luce del crepuscolo di Richard Seaver, l'autobiografia di una figura cardine del mondo editoriale che dovrebbe essere una lettura obbligatoria per chi lavora nell’editoria. Si parla dei protagonisti principali della letteratura del Novecento in Francia e negli USA, tutti transitati per le varie sigle editoriali curate da Seaver.

LB: Il suo tavolo di lavoro è abbastanza ordinato quando traduce o preferisce un "normale disordine"? Potrebbe descrivere il "posto del traduttore"? Sente il corpo rilassato o in tensione quando è alle prese con un lavoro di traduzione?
R: Il mio tavolo di lavoro è il computer, dato che uso dizionari online e su CD, e a volte anche un programma di dettatura. Il posto del traduttore è ovunque si possa posare un computer, a casa e in giro. Grazie a una serie di accorgimenti ergonomici di solito quando lavoro a casa il mio corpo è rilassato, ma a volte si tende quando la ricerca di una soluzione traduttiva è più difficile del solito.

LB: Passa qualche differenza (o è necessaria qualche precauzione) quando si traduce un libro che si ama rispetto a quando si traduce un libro con il quale si è meno in sintonia?
R: La precauzione necessaria è quella di comportarsi in maniera professionale, e quindi non fare alcuna differenza tra libri che si amano o no, se dobbiamo occuparci di tradurli.

LB: Anche il mondo della traduzione ha ormai i suoi "topos", ovvero quegli argomenti immancabili che sempre saltano fuori quando se ne parla. C'è però a suo avviso un tema o un problema che quasi mai emerge? Se sì, quale? E perché non se ne parla a sufficienza?
R: Il problema più taciuto secondo me è quello delle traduzioni che non funzionano e vengono pesantemente riaggiustate in redazione: capita perché, per diversi motivi, tra i quali anche l'urgenza o logiche economiche, si finisce con l'affidare il lavoro ad un traduttore non adatto a quel libro.
Spesso all'esterno nessuno viene a saperlo, e può capitare che qualcuno lavori su certi testi per i quali è inadatto, grazie alle "pezze" che gli mettono i redattori e i revisori, con la logica conseguenza di escludere traduttori che sarebbero più capaci su quel testo.
Per questo sarebbe essenziale fare sempre una prova di traduzione per ogni libro, perché nessun traduttore è in grado di tradurre tutto. Io non mi offendo mai quando me la chiedono, anzi spesso la sollecito.
E quindi si dovrebbe parlare di più della qualità delle traduzioni, anche confrontandole con l'originale, specie nelle recensioni. Non basta il solo giudizio sulla scorrevolezza dell'italiano, se magari è stato travisato il significato del testo originale.

LB: Può comportare qualche differenza il modo di lavorare e tradurre per conto di un editore rispetto a quello per conto di un altro editore (al di là di differenti norme e consuetudini redazionali)?
R: Se l'editore instaura un dialogo costruttivo con il traduttore, lo mette in contatto con l'autore e il revisore, discute serenamente le varie scelte, il nostro lavoro è più sereno e rilassato.  Invece, se siamo pagati poco o non sappiamo se la retribuzione arriverà puntuale, la tensione che si genera influisce negativamente sulla qualità del lavoro. Ma è ovvio che la qualità del lavoro sia legata non solo ai rapporti umani, ma anche a quelli contrattuali.

LB: Propone lei dei titoli agli editori talvolta oppure le vengono sempre commissionate delle traduzioni?

R: Traduco soprattutto dall'inglese, quindi è molto difficile scoprire libri che non siano già stati proposti agli editori da scout o agenti letterari.

LB: E per finire vorrei sapere cosa vorrebbe tradurre, adesso, se le venissero lasciati cinque secondi per scegliere e buttare un titolo (la prima opera che le viene in mente)? Grazie.
R: How to build a girl,  di Caitilin Moran  (ma ho contattato il suo editore precedente per propormi, non sapendo che era stato acquistato da un altro, e la traduzione era già stata assegnata).

lunedì 19 ottobre 2015

"L'airone" di Giorgio Bassani: le allucinazioni della tassidermia trascinate per la bassa ferrarese

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #28


Non c'entra nulla la copertina dell'edizione Universale Economica Feltrinelli, è fuorviante, scentrata e in fondo assai brutta. Bisognerebbe suggerire a chi si occupa di grafica editoriale di farsi almeno raccontare il libro su cui lavora o di cercare qualche stralcio di trama in rete, a maggior ragione se veste i libri di una casa editrice che a suo tempo, come altre, fece scuola anche nella grafica editoriale. Poi si sa che le banche dati di immagini usate per la grafica sono simpatiche e comode: si digita una parola-chiave, "airone" ad esempio, e il motore di ricerca restituisce un'infinità di immagini di aironi, in ogni salsa. L'airone, animale cacciato, simbolo e titolo di questo romanzo, deve finire imbalsamato. Una statuina su un piedistallo non ci azzecca per niente e qualcuno avrebbe potuto fermare questa copertina, dal momento che nelle case editrici maggiori dovrebbero ancora funzionare dei meccanismi di ridondanza ciclica e controllo, in un processo che si crede ancora "di squadra" (o forse non lo è più?). Nel romanzo, bellissimo, troviamo quest'uccello dentro la descrizione di un volo strano, stanco, e certo non fermo con il becco verticale. L'airone appare al centro della narrazione, poco prima di essere abbattuto nelle valli della bassa ferrarese, e poi lo immaginiamo nel bagagliaio di un'automobile, in attesa di essere sottoposto a tassidermia ("Veniva avanti con fatica evidente, arrancando. Il collo lungo a esse, stretto fra le scapole; le vaste ali marrone, di una pesantezza da stoffa, aperte a tirarsi sotto la pancia il maggior volume di aria possibile: sembrava non farcela a tagliare di traverso il vento, e anzi in procinto ad ogni istante di venire travolto, d'essere spazzato via come uno straccio"). Insomma, non ci siamo proprio con quest'immagine che illustra l'edizione economica de L'airone di Giorgio Bassani (pp. 134, euro 7), quinto libro del secondo ciclo de Il romanzo di Ferrara. Ci tenevo a dirlo, perché è un libro importante.

Succede che si possano tirar fuori le cose migliori insistendo con una storia tutta tesa nell'arco di una giornata. Come scrivevo un anno fa circa, il Calvino più interessante resta a mio avviso quello inquieto e destabilizzato de La giornata d'uno scrutatore. D'accordo, mi diranno i più accorti, prima c'era stata la giornata dell'Ulisse joyciano, ma vorrei evitare di risalire a tanto e mi tengo i casi in cui il romanzo breve (o il racconto lungo e la novella, come in Pirandello) si sforza di dare tutto in un giorno. Così accade anche nella storia di Edgardo Limentani, proprietario terriero ferrarese che si sveglia prestissimo in una domenica d'inverno del 1947 per riprendere un'abitudine da tempo tralasciata: la caccia in botte nelle valli del Po. Assistiamo, attraverso il solito ralenti notomizzante bassaniano, ai gesti che seguono una precoce sveglia, veniamo a conoscenza delle sue difficoltà di liberare l'intestino (e sarà una costante per tutta la fastidiosa giornata che lo attende, che ha per contrappeso l'abbuffata nauseata e annaffiata dal molto vino del pomeriggio). E - solo per completare il tratteggio della trama - lo seguiamo lasciare presto la casa dove abitano la moglie ormai distaccata, la figlia e la vecchia madre e dirigersi verso le valli della bassa ferrarese. La tenuta denominata "Montina", Codigoro, Pomposa e Volano: l'azione si svolge circa in questo poligono. La caccia in valle in compagnia di una guida messa a disposizione da un cugino recentemente riallacciato inizia tardi, molto più tardi rispetto a quanto previsto da una decente tabella di marcia di cacciatore in valle. Già in questo indugiare della prima parte del romanzo si profila il senso di malessere e disgusto acuto che porterà il protagonista al suicidio, gesto in realtà non narrato ma descritto meticolosamente nella preparazione (il libro si tronca infatti con un abituale colloquio a tarda sera tra il protagonista e la madre e, a conti fatti, il suicidio vero e proprio non è narrato). La caccia termina nel primo pomeriggio, quando il protagonista si dirige con molta fame verso un ristorante gestito da un ex fascista, mangia e beve e si corica a letto, al piano di sopra, per dormire in realtà pochissimo, disturbato da un sogno in cui entra la prostituta intravista durante il pasto. Di qui il ritorno all'aperto, la parte più bella e decisiva del libro, il guadagno di una felicità nella risolutezza di compiere un gesto. Spicca la stupenda scena della vetrina del negozio dell'imbalsamatore, e il lento, buio ritorno alla casa, quando Edgardo salterà la cena.


L'airone è naturalmente il termine di similitudine col protagonista. La "famosa vita" (stupenda quest'espressione usata da Bassani, a maggior ragione per il punto del soliloquio in cui la gioca) è assimilabile al volo di quell'uccello intravisto in valle. Romanzo del paesaggio depresso e bonificato accorciato dalla scarsa luce, in cui la geografia della bassa ferrarese e delle valli del Po si trasforma in un'ossessione e in uno specchio, ora concavo ora convesso, in grado di avvicinare alla morte allontanando dalla vita (eppure, proprio in virtù di questa detta lentezza, di compiere quasi il miracolo del viceversa), L'airone assomma in sé alcuni tratti salienti della prosa del Novecento, da Pirandello a Camus, iniettando nell'Italia della fine dei Sessanta - con questo libro Bassani vinse il Campiello nel 1969 - un ripensamento di quella membrana d'anni tra la fine della guerra e l'avvio repubblicano. La lenta e straziante scena dell'airone abbattuto dalla guida Gavino, ex partigiano, narra dell'incrocio di quattro occhi animali malati e resta un frangente alto, in volo, nella prosa del secolo scorso. Ciò che Bassani ha saputo colpire e centrare davvero con questo romanzo è il sentimento che può scaturire dal vero incontro di occhi umani e animali a tiro, ma anche dall'incrocio con gli occhi di animali sottoposti a tassidermia, in un processo progressivamente allucinatorio. Inoltre - e non è poco - Bassani ha saputo porre, con questo romanzo tutto incentrato sul morire, sulla purezza-bellezza-durezza delle ossa dei morti, una nuova domanda davvero animale alla "famosa vita".

domenica 18 ottobre 2015

Pink Floyd. The lunatic: testi commentati da Alessandro Besselva Averame

Musicali pretesti #8

Di tanto in tanto, una notizia su un libro e un brano da ascoltare, al libro collegato.

Quand'ero piccolo mi divertivo ad assistere alla diatribe accesissime tra i chitarristi più grandi di me, cose tipo "Meglio i Queen!", "Neanche da mettere, mooolto ma mooolto meglio i Pink Floyd!". Mi divertivano. E mi divertivo anche a compulsare volumi del genere, simili a questo Pink Floyd. The Lunatic. Testi commentati (pp. 512, euro 19,50) curato da Alessandro Besselva Averame, libro che Arcana tempestivamente ripropone a distanza di sei anni, sulla scia di un rinnovato interesse per il fluido rosa. Era fra l'altro un ulteriore modo per avvicinarsi all'inglese che ascoltavo nelle canzoni. Essendo poi un fan dei R.e.m. (ma questo fatto mica si poteva confessare sperticatamente agli integralisti queeniani o floydiani senza rischiare linciaggi) avevo il mio bel da fare con Michael Stipe che cantava tutto impastato nei primi album e si rifiutava di inserire i testi nei libretti dei cd. All'epoca li ascoltavo entrambi, intendo sia i Queen che i Pink Floyd. Oggi, quando capita, capita più spesso di riascoltare i Floyd. Questo comunque ha poca importanza, semmai serve per anticipare che non uscirà un post su un libro dedicato ai Queen. Il libro in questione naturalmente non è una semplice raccolta di testi, anche perché oggi, armati di buona volontà, potremmo tranquillamente stamparcela a casa facendo copia-incolla da Internet. Besselva Averame propone una propria interpretazione e filo per leggere i differenti rigagnoli lirici, da Barrett a Gilmour passando naturalmente per Waters, rigagnolo dei rigagnoli (nomen omen). Bello il maiale scelto per la copertina, evidente riferimento al brano "Pigs" di Animals. Per oggi però ho scelto questa.

mercoledì 14 ottobre 2015

Domatori di organi_Scipione

di Luca Rizzatello

Il 26 gennaio 1924 Paul Klee ha detto permettetemi di ricorrere a un paragone, il paragone con l’albero. In questo mondo proteiforme, l’artista si è dato da fare e, ammettiamolo, almeno in parte ci si è, alla chetichella, raccapezzato. È così bene orientato da poter imporre un ordine alla fuga delle parvenze e delle esperienze. Quest’orientamento nelle cose della natura e della vita, questo complesso, ramificato assetto, mi sia concesso di paragonarlo alle radici di un albero. Di là affluiscono all’artista i succhi, che ne penetrano la persona e l’occhio. L’artista si trova dunque nella condizione del tronco. Incalzato e commosso dalla possanza di quel fluire, egli trasmette nell’opera ciò che ha visto. E come la chioma dell’albero si dispiega visibilmente in ogni senso nello spazio e nel tempo, così avviene con l’opera. Nessuno vorrà certo pretendere che l’albero formi la sua chioma sul modello della radice. […] Ma appunto all’artista a volte si vogliono interdire queste deviazioni dal modello, rese necessarie dai mezzi figurativi stessi. Presi dalla foga, si è giunti persino a incolparlo di impotenza e premeditata falsificazione.1
Scipione, stando a quanto ci dice Amelia Rosselli2, scrisse i suoi versi tra il 1928 e il 1930. Dunque in questo segmento dovrebbe collocarsi la poesia Coro d’estate:


Un uomo nudo cammina:
è bianco come un albero senza corteccia
Io sono la voce dell’albero che cade,
la mia corteccia sarà accarezzata
quando si vedrà che dentro sono bianco.
Le mie radici sono d’avorio e sono
nascoste – la terra fine le ricopre.
Il mio corpo è rotondo,
l’aria sola mi toccava.
Gli uccelli hanno nidificato nei miei rami,
i loro occhi vedevano tutte le mie braccia,
le foglie li nascondevano.
[…]



Scipione3 introduce una vegetalizzazione del proprio corpo anche nelle lettere private, e in particolare in quelli che si riveleranno essere gli ultimi mesi della sua vita: in una lettera a un Reverendo, del 17 giugno 1933, scrive: Lei mi credeva passato a… miglior vita. Invece Scipione ha la pelle durissima, è un tronco tenace e abbarbicato alla terra, ma i suoi rami tendono al cielo, come quelli di tutti gli alberi; in una lettera di qualche mese successiva (8 ottobre 1933), indirizzata a Enrico Falqui, si legge: sono un albero duro da abbattere, benché sia vuoto come certi ulivi; ancora però non ho la durezza dell’ulivo. Tutte le mie fibre devono stringersi e saldarsi per andare solo in una direzione. Le dieci poesie pervenuteci presentano ricorrenze tematiche e linguistiche significative, che rasentano nevrosi stilistica. La scrittura mantiene costantemente una temperatura elevatissima, e di fatto si sviluppa a partire da due nuclei insieme dolorosi e produttivi: il dissidio interiore e la malattia. In un’altra lettera a un Reverendo, stavolta senza data, Scipione scrive: non ho rispettato alcuna cosa ed ero dominato dalla lussuria infame. Dentro il mio corpo c’era questa bestia immonda che si ravvoltolava nelle mie membra, che pure una volta erano solo di Dio. La mia fantasia diventò del tutto corrotta e servì a farmi precipitare in una abiettitudine morale tremenda. Ero un invasato, sfatto dal male e male stesso. Finché non mi raggiunse finalmente il male fisico, e io ricaddi ammalato. Analogamente, Agostino di Ippona ha scritto che mi comandi certamente di astenermi dai desideri della carne e dai desideri degli occhi e dall’ambizione del mondo. […] Sopravvivono però nella mia memoria, di cui ho parlato a lungo, le immagini di questi diletti, che vi ha impresso la consuetudine. Vi scorrazzano fievoli mentre sono desto; però durante il sonno non solo suscitano piaceri, ma addirittura consenso e qualcosa di molto simile all’atto stesso. L’illusione di questa immagine nella mia anima è cosi potente sulla mia carne, che false visioni m’inducono nel sonno ad atti, cui non m’induce la realtà nella veglia4. In Scipione, il ritmo purezza-peccato si configura come circadiano; così si presenta la mattina in una lettera a Libero De Libero, (spedita da Collepardo, il 22 agosto 1930): Dio! Come è bella questa vita libera. Il mio sangue torna chiaro e mi sveglio al mattino col senso di felicità che non conoscevo, e così l’imbrunire, prima nella poesia Estate: […] Le stelle cadono accese/per bruciare il mondo,/ ma nessuno tende le mani per abbracciarle/ e si smorzano, tuffandosi nel buio./ La carne cerca nelle carni le sorgenti/ e trova gli occhi/ che si schiudono come fiori5, e poi nella poesia Il giorno è andato lontano: Il giorno è andato lontano/ e io mi sento un uomo di grande statura./ Non c’è ombra attorno al mio corpo6./ Io vedo i monti, io sento il fiume./ I colori si sono spenti,/ le radici degli alberi frugano la terra./ Nel mondo opaco i desideri prendono corpo. E tanto 1. Estate, quanto 2. Il giorno è andato lontano, si concludono con una invocazione: 1. Cristo dalle da bere,/ ché vuol peccare/ e farsi perdonare, e 2. Dio, poni il tuo braccio sopra la mia testa/ e fa’ che io veda il giorno di domani7 – 7bis. Poi c’è la malattia. Nelle lettere, Scipione riduce la tubercolosi che lo affligge a ciò che non gli permette lavorare, e la tratta con lucido pragmatismo; in una lettera a Marino Mazzacurati del 15 gennaio 1933, scrive: forse farò un’operazione al torace per colare della paraffina nella grande lesione che mi si è formata in un polmone. È roba di alta chirurgia, ma a Milano c’è uno specialista che opera con successo e voglio tentare. Mi sembra tanto che io abbia tutto da guadagnare e niente da perdere. Se devo vivere, voglio vivere per lavorare; ma solamente per trascinarmi curandomi e per rimanere in vita, non mi sembra una cosa buona8. Questo oscillare tra svuotamento e torsione, si risolve ad esempio nella poesia Solstizio:


Mise le mani per terra ed era simile
ad una bestia.
La terra ha tutti i nascondigli,
gli scarabei ronzano nell’aria.
La testa alla radice dei capelli brucia,
le spalle si aprono, le viscere si commuovono.
Non ci sono voci:
la terra s’alza, il ventre suona vuoto,
i seni s’allungano, precipitano verso terra,
le dita ritorte dei piedi,
i ginocchi, le dita delle mani toccano la terra.
Il sole si è fermato
lungo le reni. Corre un vento pieno di polline.


Roberto Bolaño ha scritto che scrivere della malattia, specialmente se si è gravemente malati, può essere una tortura. Scrivere della malattia se si è non solo gravemente malati ma anche ipocondriaci, è un atto di masochismo o di disperazione. Ma può anche essere un atto liberatorio. È allettante – lo so che è una tentazione malvagia – ma tuttavia è allettante esercitare la tirannia del male per qualche minuto, come quelle vecchiette minute che si incontrano nelle sale di attesa dell’ospedale, che si lanciano nella spiegazione degli aspetti clinici o medici o farmacologici della loro vita, invece di spiegare gli aspetti politici o sessuali o legati al lavoro. Vecchiette minute che danno l’impressione di trascendere il bene e il male9 – 9bis. Cercando di trovare una sintesi iconografica, l’attitudine insieme creaturale10 e apocalittica delle poesie di Scipione determina una topografia a imbuto rovesciato (in presenza di una forza di gravità che spinge verso l’altro), dove la conquista della salvezza – e della bellezza – passa per l’espiazione delle colpe, con tutto il dolore che il passaggio da un regno ad un altro può comportare. I segnali giungono per via uditiva11: Sento gli strilli degli angioli/ che vogliono la mia salvezza (Sento gli strilli degli angioli), oppure il canto scava la sua forma nell’aria/ ma il cielo è in attesa/ dei gridi che lo squarciano (Nessuno t’aspetta), o attraverso la trascrizione di allucinazioni coloristiche: la via bianca era come una benda/ sui miei occhi./ Udii rumore di verde vicino:/ apparve un cavallo nero/ guardò intorno e scese lentamente/ immergendosi nel bianco/ poi nitrì/ e il suo grido scese come un brivido sulla montagna./ Stette immobile a subirne l’eco/ e fuggì via. (Andavo ad appostarmi…). Giuliano Santoro ha scritto che lo zombie mette in discussione una delle leggi di natura fondamentali: la morte. Mettere a verifica il dogma della presunta immodificabilità della “natura” e le sue presunte “regole” è un ottimo modo per assumere un punto di vista radicale su tutto ciò che ci circonda. Il concetto “natura” come oggetto da tutelare invece che come costruzione discorsiva e materiale che si modifica continuamente assieme all’uomo è tipico, ad esempio delle ideologie razziste o delle pratiche sessiste. […] Il non-morto incrocia la figura del migrante, di colui cioè che muore nella società tradizionale da cui proviene per approdare all’altro mondo12Così Scipione ha scritto che tutto si restringe in modo implacabile intorno a me, ma io non sarò schiacciato. Perché avere terrore o paura di questo? E poi ancora non è il caso di parlarne, ché durerà ancora forse uno o due anni, se va bene. E due anni sono lunghi come due secoli, sono otto stagioni! Ancora due primavere! Due estati. C’è ancora tempo di lavorare, di ridere, di giocare e di dormire13.

Note

1 Visione e orientamento nell’ambito dei mezzi figurativi e loro assetto spaziale, in Confessione creatrice e altri scritti, Abscondita, 2004
2 Tutti i riferimenti a poesie e a pagine di diario sono estratti da Scipione, Carte segrete (Einaudi, 1982)
3 Scipione e non Gino Bonichi, come si legge nella firma delle lettere
4 Agostino di Ippona, Le Confessioni, X, 10, 41
5 In una pagina del diario, datata 14 marzo 1932, si legge: però in quell’ora che accade il fenomeno dell’abbandono del sole tutti gli esseri vivono per poco intensamente. Gli uccelli si dimenano cantano e gridano. All’uomo si accelera, sale la temperature e quindi la circolazione del sangue. La sua mente è lucida. I fiori addirittura si muovono per chiudersi. C’è tutto un guizzo, un rimescolio, poi tutto si acqueta e fa economia
6 In merito al verso Non c’è ombra attorno al mio corpo: una ipotesi che sento di suggerire, al di là della più evidente ragione per la quale di notte non c’è il sole che fa proiettare le ombre, è quella in cui il soggetto stesso corrisponde all’ombra, che giustificherebbe anche la grande statura del verso precedente; per quanto riguarda il rapporto tra corpo-albero e corpo-ombra (e relative proiezioni), si suggeriscono i versi riepilogativi sotto di te i semi divengono lucidi,/ gli alberi divorano la loro ombra (Nessuno t’aspetta)
7 E così conclude Agostino: in quei momenti, Signore Dio mio, non sono forse più io? Eppure sono molto diverso da me stesso nel tempo in cui passo dalla veglia al sonno e finché torno dal sonno alla veglia. Dov’è allora la ragione, che durante la veglia mi fa resistere a quelle suggestioni e rimanere incrollabile all’assalto della stessa realtà? Si rinserra con gli occhi, si assopisce con i sensi del corpo? Ma allora da dove nasce la resistenza che spesso opponiamo anche nel sonno, quando, memori del nostro proposito, vi rimaniamo immacolatamente fedeli e non accordiamo l’assenso ad alcuna di tali seduzioni? In verità sono due stati tanto diversi, che anche nel primo caso la nostra coscienza al risveglio torna in pace, e la stessa distanza fra i due stati ci fa riconoscere che non abbiamo compiuto noi quanto in noi si è compiuto comunque, con nostro rammarico
7bis La scansione purezza-peccato si presenta anche nella forma sublimata della scrittura, così in Le nubi sono sospese nell’aria: […] Nell’aria c’è il fuoco,/ il tuono scoppia/ e la folgore scrive nel cielo/ i caratteri di Dio, invece in Tutto ci abbandona…: […] ma i vizi degli altri scrivono in nero/ e nei laghi degli occhi/ nuotano le anguille cattive
8 La degenza produce effetti collaterali logoranti, così in una lettera a Libero De Libero, del 1 settembre 1930: ora dovrei parlarti della mia solitudine. Anche tu conosci questa bestia: essa inaridisce il cuore, sa scavare, come una talpa, e come essa ha il pelo morbidissimo impalpabile, ed è del suo stesso colore, grigia
9 Roberto Bolaño, El gaucho insufrible (Editorial Anagrama, 2003), mia la traduzione
9bis Circa lo scrivere oppure il non scrivere del male in rapporto alla stilizzazione, Giorgio Cosmacini, nel libro L’arte lunga – Storia della medicina dall’antichità a oggi (Edizioni Laterza, 1997), ci fa notare: un secolo di crisi? Ma il Trecento non è il «secolo d’oro» di Dante, del Petrarca, del Boccaccio? Sì, ma l’Inferno reale non è quello poetico dantesco, bensì quello in cui arde e si consuma l’Europa nel triennio compreso fra l’autunno del 1347 e i primi mesi del 1350. La morìa che oscura il continente e ne riduce di un terzo la popolazione è la «morte nera» che falcia inesorabilmente le «belle membra» della musa ispiratrice del Canzoniere petrarchesco, Laura de Sade, spentasi in Avignone il 3 aprile 1348
10 le mani s’alzano a cercare/ per toccare le cose create (Il giorno è andato lontano), oppure: e tutte le cose create vogliono toccarlo (Le nubi sono sospese nell’aria)
11 Sul suono dell’Apocalisse, si legga Gianni Garrera, Super Apocalypsim Musica, in Apocalisse di Giovanni, (Diabasis, 2003):quando la voce del Signore è una forza schiantante (Sal 29, 3-5) che fa udire la sua voce (Is 30, 30): sono gli angeli della faccia a urlare, quali veicoli clamorosi del silenzio divino. La musica angelica non è la voce di Dio, ma Fantasma clamoroso della voce di Dio. Anche le sette trombe rientrano nei misteri fragorosi plasmati in questo silenzio, perché sono gli spasmi degli angeli intorno al Dio di diaspro seduto immobile nel trono. Se l’essenza di Dio è trascendente e inattingibile, si può partecipare ed entrare in contatto soltanto con le operazioni o energie divine, l’essenza è silenzio, perché Dio è sine strepitu (S. Agostino, De vera religione, LV, 110), sono le manifestazioni che sono assordanti
12 Giuliano Santoro, La città dei morti - Appunti per una filosofia politica degli zombie, in L’alba degli zombie (Gargoyle Books, 2011)
13 Lettera a Enrico Falqui, del 27 gennaio 1933

lunedì 12 ottobre 2015

Il sabato dei villaggi. Una rassegna di poesia, critica e piccola editoria a Padova a cura di Giovanna Frene


IL SABATO DEI VILLAGGI 
RASSEGNA DI POESIA, CRITICA E PICCOLA EDITORIA
Prima Edizione

Ideazione e cura di GIOVANNA FRENE

Novembre 2015 - Aprile 2016

LIBRERIA ZABARELLA 
via Zabarella 80, PADOVA

Comunicato stampa

PRESENTAZIONE DELLA RASSEGNA

La rassegna di poesia, critica e piccola editoria IL SABATO DEI VILLAGGI nasce dalla necessità di portare al pubblico, in maniera organica, l'ambito del poetico contemporaneo italiano, spesso del tutto dimenticato negli scaffali delle librerie. La filosofia che ha mosso la creazione di questa prima edizione della Rassegna è semplice: la ricerca e l'esposizione della qualità, sia essa propria della creazione/edizione poetiche, sia essa propria dell'ermeneutica letteraria. Giovani poeti, critici ed editori indipendenti porteranno alla Libreria Zabarella tutta la ricchezza della loro esperienza di ricerca nel terreno del poetico, lasciando stabilmente i loro libri nella libreria; il desiderio, infatti, è che esista anche a Padova una libreria deputata alla fruizione diretta della poesia contemporanea italiana.

La poesia è tutt'ora al centro della cultura, ne è il suo fondamento, anche se a tratti sembra occulto: il dibattito che tanto ha accalorato recentemente il panorama italiano sulla sua presunta morte, non fa che palesare appunto il tratto nascosto di questa sua incontrovertibile essenza, che travalica la percezione del singolo. Tuttavia, direbbe il poeta, il frangente culturale è grave: la cultura stessa è diventata merce, ma niente è più avulso dal concetto di merce che il linguaggio della poesia. La poesia oggi, dunque, è il territorio della resistenza, del fare cultura alta, dell'interrogarsi sulla vita, dello scrivere gratuito senza l'incombenza del guadagno, del condividere il pane della conoscenza. La tranquilla determinazione del sapere poetico non rende migliore la vita, ma la può rendere sopportabile, a tratti decifrabile.

Giovanna Frene, ottobre 2015

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CALENDARIO DEGLI INCONTRI

2015

- MARCO GIOVENALE, sabato 14 novembre, ore 18

- *NERVI EDIZIONI (Fabio Donalisio, Marco Scarpa, Francesco Targhetta), sabato 21 novembre, ore 18

- *EDB EDIZIONI (Alberto Pellegatta), sabato 19 dicembre, ore 18

2016

- RENATA MORRESI, sabato 14 gennaio, ore 18

- NICCOLÒ SCAFFAI, sabato 6 febbraio, ore 18

- TOMMASO DI DIO, sabato 27 febbraio, ore 18

- BRUNO GALLUCCIO, sabato 12 marzo, ore 18

- RAOUL BRUNI, sabato 19 marzo, ore 18

- *BENWAYS EDIZIONI (Marco Giovenale, Mariangela Guatteri), sabato 9 aprile, ore 18

- DAVIDE COLUSSI e PAOLO ZUBLENA, sabato 16 aprile, ore 18

sabato 10 ottobre 2015

Una poesia di Jonathan Morley nella traduzione di Cristina Babino

 
Accanto ai ratti di "al cor gentil ratto s'apprende" con le loro poesie inedite, compare un altro animale per nominare uno spazio dove si ospitano traduzioni di poesia: lo stregatto o Gatto del Cheshire di Lewis Carroll. Ratti e stregatti, insomma. Adotterò pregiudiziali e faziosi criteri per vagliare proposte di traduzioni, anche nei casi di lingue totalmente sconosciute come russo, coreano o giapponese (insomma, mi baserò su un traballante concetto di fiducia). Il gatto qui sopra è un particolare del dipinto "San Girolamo nello studio" di Antonello da Messina. Al di là delle molteplici simbologie e caratterizzazioni dei gatti, da Antonello a Carroll (Dante non è tornato utile stavolta perché un po' li snobba), qui proviamo a stregarvi con nuove traduzioni facendo le fusa. L'augurio è incoraggiare la traduzione poetica che un po' latita, anche nelle generazioni più giovani, e che qualche stregatto un giorno possa precipitare altrove, anche in un libro se capita.

La traduzione di Cristina Babino della poesia Maiden in the Map (1610) di Jonathan Morley 


Ragazza sulla mappa (1610)

Ecco il posto. Resta fermo. Non è difficile trovarla:
Speed ha steso un merletto di vicoli
sulle curve amazzoniche della mia amante, che si rigira nel risveglio.
Le gambe incrociate a White Fryers,
i fianchi riposano sul Grayfriars Gate
e il muro di Gosford Streete le
allunga una mano sul culo; allenta
il nodo di pelle di Fleete Streete
legando un seno a una collana di fiumi
dice che la chiesa di St Michael è il suo ombelico
ma una Scuola le si ammassa sul cuore –
e si stende sotto di me sulla coperta dei prati Chilesmore
e io ho le vertigini come il coglitore di salicornia appeso
col cestino a una scogliera di gesso, il folio non ancora stampato.
 




Maiden in the Map (1610)

Here’s the place. Stand still. She is not hard to find:
Speed has spread a lacework of lanes
over the Amazon curves of my lover, who turns on waking.
Her legs are crossed at White Fryers,
her hip rests on Grayfriars Gate
and the wall at Gosford Streete runs
a hand along her ass; she slackens
Fleete Streete’s leather bond
strapping one breast to a necklace of rivers
saying St Michael’s is her navel
but a School throngs at her heart ―
and reclines below me on a throw of the Chilesmore meadows
where I am dizzy as the samphire gatherer hanging
with basket to a chalk cliff, the folio not yet printed. 

Nota alla traduzione:

John Speed, cartografo del XVII secolo, fu autore della prima mappa di Coventry, sulla quale sono riportati tutti i luoghi citati nella poesia. La mappa si può vedere qui.
«This is the place. Stand still.» è una citazione da Shakespeare, così come il riferimento al «samphire gatherer» («Half-way down / Hangs one that gathers samphire; dreadful trade!»), entrambi in King Lear, atto 4, scena 6. Il «folio» a cui si allude è il First Folio di Shakespeare.

Su Atelier, qui, altri inediti di Jonathan Morley nella traduzione di Cristina Babino.

Jonathan Morley (1979) è Programme Director presso il Writers' Centre di Norwich. Ha ottenuto il PhD all'Università di Warwick con uno studio sull'influenza di T.S. Eliot sulla letteratura caraibica. Nel 2002 ha fondato e diretto la casa editrice Heaventree Press. Ha insegnato letteratura e scrittura creativa presso le università di Coventry e Warwick. Suoi saggi sono inclusi in "The Oxford Companion to Black British History" e ha curato la pubblicazione di opere di numerosi scrittori caraibici. La sua opera poetica, premiata nel 2006 con il Eric Gregory Award e dalla Ink Sweat & Tears Commission, è inclusa, tra gli altri, nei volumi "The Allotment" (Stride) e "Voice Recognition" (Bloodaxe). Ha diretto e prodotto spettacoli teatrali, concerti e rassegne artistiche per il The Drum Arts Centre di Birmingham e ha partecipato a festival di poesia in tutto il mondo, come performer solista e come componente del trio jazz Morley Hayden Haines.