martedì 29 novembre 2016

A Padova ritorna "Il sabato dei villaggi", rassegna di poesia, critica e piccola editoria a cura di Giovanna Frene


Ricevo la comunicazione e segnalo questa serie di incontri:

 IL SABATO DEI VILLAGGI 
RASSEGNA DI POESIA, CRITICA E PICCOLA EDITORIA 
Seconda Edizione Ideazione e cura di GIOVANNA FRENE 
Dicembre 2016 -­ Aprile 2017 
LIBRERIA ZABARELLA, via Zabarella 80, PADOVA 
Evento Facebook: https://www.facebook.com/events/1839421446305877/

PRESENTAZIONE DELLA RASSEGNA 

Torna nel cuore di Padova la rassegna di poesia, critica e piccola editoria IL SABATO DEI VILLAGGI. Il successo di pubblico e l'entusiasmo degli invitati (poeti, critici ed editori) nella scorsa rassegna ci hanno incoraggiato a proporre gli incontri alla Libreria Zabarella. La formula ha la stessa finalità dello scorso anno: portare al pubblico, in maniera organica, l'ambito del poetico contemporaneo italiano, spesso del tutto dimenticato negli scaffali delle librerie-­‐supermarket, mediante l'incontro con giovani poeti o autori affermati, critici letterari ed editori piccoli e grandi, nell'ottica di promuovere la polifonia della ricerca poetica attuale in Italia, e far sì che concretamente esista una libreria che tenga i nuovi libri di poesia negli scaffali. Ci sono però delle novità: gli incontri saranno più articolati, vedendo la partecipazione di due o più soggetti alla volta, affinché il dialogo con il pubblico risulti più coinvolgente. Crediamo ancora che la poesia sia il centro, a volte occulto, della cultura, e che il difficile frangente epocale esiga da ognuno la resistenza di avere il coraggio di fare cultura alta e allo stesso tempo aderente alla vita, come lo è, o dovrebbe essere, la poesia. 

CALENDARIO 

Dicembre 2016

Sabato 10 dicembre, ore 17.30: Gian Mario Villalta (Collane Gialla e Oro di PordenoneLegge - Lietocolle), con Maria Grazia Calandrone, Luciano Cecchinel, Sebastiano Gatto, Maddalena Lotter, Giulia Rusconi 

Gennaio 2017 

Sabato 14 gennaio, ore 18: Gian Paolo Arena e Marina Caneve (The walking mountain. CALAMITA/à PROJECT, sul Vajont)

Martedì 17 gennaio, ore18: Luca Rizzatello (Prufrock spa) e Daniele Poletti (progetto Dia.forìa)

Sabato 28 gennaio, ore 18: Davide Colussi e Stefano Brugnolo (La scrittura e il mondo. Teorie letterarie del Novecento, Carocci 2016) 

Febbraio 2017

Mercoledì 8 febbraio, ore 18: Renzo Casadei (CartaCanta) e Matteo Saccone (Peter Pan è morto, CartaCanta 2016)

Sabato 25 febbraio, ore 18: Italo Testa e Michele Zaffarano 

Marzo 2017

Sabato 4 marzo, ore 18: Alessandro Canzian (Samuele Editore) e Sandro Pecchiari 

Sabato 11 marzo, ore 18: Vincenzo Ostuni e Gherardo Bortolotti 

Sabato 25 marzo, ore 18: Giulio Perrone (Perrone Editore), Jacopo Alessandro Brusa e Marco Bini 

Aprile 2017

Sabato 15 aprile, ore 18: Danilo Mandolini (ArcipelagoItaca Editore) e Paolo Steffan (Luciano Cecchinel. Poesia, ecologia, resistenza, ArcipelagoItaca 2017)

Sabato 22 aprile, ore 18: Bruno Galluccio e Tommaso Di Dio

domenica 27 novembre 2016

Il nome giusto per la casa editrice di racconti è Racconti Edizioni. Intervista con Emanuele Giammarco

Librobreve intervista #71

All'inizio del 2016 a Roma è nata una casa editrice specializzata in racconti. Si chiama Racconti Edizioni. Ospito di seguito le risposte di Emanuele Giammarco, che ringrazio.


Lo scarafaggio capovolto, l'emblema
LB: Sul web vanno per la maggiore le liste, i decaloghi. Vi va di stilare un elenco con i titoli dei dieci racconti che improntano la vostra idea editoriale e la vostra idea di catalogo e del suo sviluppo? Quei dieci racconti che secondo voi hanno cambiato il corso degli eventi di quella che, in ambito internazionale, si definisce "short story"? (Teniamoci una bonus track n. 11 per il racconto che vorreste pubblicare e non avete ancora letto.)
R: Ci sembra un compito assai arduo con cui misurarsi, è un po’ come cercare di assemblare un album con la colonna sonora della propria vita. Questi sono solo alcuni di quelli che ci piacciono e che di recente, inesorabilmente, hanno fatto prendere quella piega surreale alle nostre vite che ci ha trasformato in editori, per quanto improbabili. I racconti sono in ordine perlopiù casuale. Difficilmente ci facciamo ingolosire per la pubblicazione da un libro non letto. Quindi occupiamo la bonus track con un genio.

1. Bartleby lo scrivano di Herman Melville.
2. Un medico di campagna di Franz Kafka.
3. Pastoralia di George Saunders.
4. Gli storpi entreranno per primi di Flannery O’Connor.
5. Qualsiasi cosa di Michele Mari.
6. Manuale per donne delle pulizie di Lucia Berlin.
7. Something Nice from London di Petina Gappah.
8. Ultimamente invece mi si rizza di Etgar Keret.
9. Il sogno di Cesare di Luigi Malerba.
10. La Torre Rossa di Thomas Ligotti.
Bonus track L’incendio di via Keplero di Carlo Emilio Gadda.

LB: Lo scrivete chiaramente anche nel vostro sito: in origine del vostro progetto ci sono anche le molte "chiacchiere" sul racconto (non vende, non è curato dall'editoria nostrana, non è ben recepito dai lettori che sembrano preferire romanzi dalle 800 pagine in su ecc.). Vi siete già dati delle risposte su questo scenario che si è creato negli anni o preferite darvi delle risposte lavorando e progettando, strada facendo? Di primo acchito quale sarebbe ed è la vostra obiezione a una frase come "tanto il racconto non funziona in Italia"?
R: «Può darsi, speriamo di no, in ogni caso chi se ne frega.» Non abbiamo nessuna certezza che possa funzionare editorialmente, però abbiamo la certezza che i lettori possano senza dubbio innamorarsi di un racconto allo stesso modo in cui lo fanno con un romanzo. Bisogna vedere se un numero sufficiente di lettori lo capisce, decide che le nostre scelte sono interessanti e decide pure di spendere dei soldi per noi in mezzo a tante splendide opzioni letterarie. Se così non è, il «chi se ne frega» di cui sopra potrebbe diventare ridicolo. Però sono comunque sicuro che non ce lo toglierebbe dalla testa nessuno che i racconti non hanno nulla da invidiare alle altre forme letterarie. Poi ci sono tantissime raccolte meravigliose in giro, non solo le nostre. Noi dobbiamo convincere a prescindere dalla nostra battaglia sul racconto. Siamo contenti anche se cominciano a vendere di più Ballard, Yates, Čechov, Buzzati, Berlin, Poissant ecc.

LB: Un po' di terminologia: "racconto" e "novella". Il secondo termine ha un peso rilevante nella nostra tradizione, da Boccaccio ad autori più vicini come Verga o Pirandello. Vi siete posti anche questo interrogativo di natura terminologica? Cosa è uscito dalla riflessione?
R: Ci siamo posti molti problemi su come definire il racconto, senza mai cavarne molto in realtà. In fondo la discriminante più immediata è anche la più giusta: si tratta di una «forma» breve. I francesi lo chiamano ancora nouvelle. Nonostante la gloriosa tradizione a cui giustamente richiami tu, noi italiani abbiamo spostato l’asse semantico, come credo gli spagnoli, su «racconto». I latini, in generale, mantengono però tutte e due le espressioni cercando ogni tanto di individuare una differenza che in fondo non c’è. Interessante invece notare come gli inglesi abbiano chiarissima la definizione di short story, e quindi di short story writer, usando invece l’espressione novellas per i racconti lunghi, da Piccola Biblioteca Adelphi per capirci. I cambiamenti linguistici sono un dato di fatto contro cui sarebbe donchisciottesco combattere. Quindi ci teniamo il termine «racconto» e abbracciamo la «novella» come racconto più lungo. In fondo il «raccontare», nella sua generalità, sembra alludere al nocciolo dell’azione di scrivere e narrare, riportando la forma letteraria breve al senso più originario della letteratura.

LB: Sul fronte traduzioni, come pensate di bilanciarvi tra eventuali riproposte di traduzioni del passato e nuove traduzioni?
R: Nel caso in cui un libro sia stato già tradotto, non perseguiamo un modello prestabilito. Ci limitiamo a rileggere l’originale per valutare la traduzione. Sin qui non ci è mai capitato di dover dire: «è necessario cambiare la traduzione». Con Chiara Vatteroni abbiamo rivisto e migliorato Lezioni di nuoto di Rohinton Mistry, così come è capitato con Luigi Ballerini con Stamattina stasera troppo presto, in cui c’era anche una questione linguistica che ci stava a cuore: la traduzione fedele dei molti modi in cui Baldwin e i suoi personaggi chiamano i neri americani. I grandi traduttori sono ben lieti di rileggersi e migliorarsi, non è stato così difficile. Nel caso ci siano delle proposte di ritraduzione, del resto, siamo ben lieti di ascoltarle e magari di accoglierle. In quel caso è giusto dare credito a chi si spende per la pubblicazione di un libro. L’idea comunque è di spendere del tempo per rileggere a fondo il testo, anche nel remoto caso che non ci sia nulla di migliorabile. Ma c’è sempre qualcosa, è una questione di semplice cura editoriale.

LB: Quale ambito della filiera editoriale, a vostro avviso, necessita di maggiore portato di innovazione: la ricerca dei testi, la produzione, la distribuzione o la promozione?
R: Una domanda complessa a cui dobbiamo per forza di cose premettere, prima di rispondere, un moto di umiltà: siamo nuovi del settore e non è il caso di catechizzare troppo la filiera. Addetti molto più esperti di noi hanno strumenti più adatti per farlo. Fatta questa premessa credo che il dato più eclatante sia la diminuzione del numero dei lettori e dei lettori forti. Una vera piaga epocale, perché in controtendenza con la pur lenta ascesa dal dopoguerra in avanti. Oggi il mercato è gestito dai grandi gruppi editoriali, da Messaggerie e dalle catene. A loro pertanto è dato il compito di rispondere di questo dato sinistro. L’impressione è che la gestione monopolistica nei più decisivi passaggi della filiera alla lunga sia controproducente. Prendersela con chi detiene i monopoli però non ha molto senso, fanno il loro gioco com’è ovvio che sia. Bisognerebbe imprimere una direzione a livello politico, attraverso leggi che valorizzino la bibliodiversità e il lavoro di chi sostiene la curiosità innanzitutto, a prescindere dall’interesse immediato. È una questione di prospettiva: un libro così così oggi può vendere anche di più di un bel libro; un libro bello invece, che oggi forse vende di meno, domani è sicuro che venderà di più e che farà da sprone all’acquisto di altri libri.

LB: Per la casa editrice avete scelto un nome che ha il vantaggio di posizionarvi immediatamente nel panorama ma che forse non vi consentirà di aumentare agilmente la lunghezza qualora – poniamo tra cinque anni – vi venga voglia di pubblicare romanzi. Ci avete pensato a quest'eventualità e non vi disturba affatto?
R: Quando ci arrenderemo a pubblicare romanzi vorrà dire che il progetto editoriale avrà perso. Speriamo con tutto il cuore di non pubblicare romanzi. Non perché non ci piacciano, ma perché abbiamo a cuore il nostro progetto editoriale e la fiducia richiesta ai lettori che questo stesso progetto comporta. Ci chiamiamo Racconti e continueremo a pubblicare racconti. Sulle novellas al massimo – una forma che ci piace assai – siamo apertissimi.

Eudora Welty (1909 - 2001)
LB: Potete dare qualche anticipazione sulle future pubblicazioni? Grazie.
R: Alcune di queste sono già note perché ne abbiamo parlato in altre sedi. C’è stato un piccolo ritardo ma pubblicheremo sicuramente Eudora Welty con Una coltre di verde. Una raccolta che era uscita anni fa per Editori Riuniti ma in una versione alquanto sfigurata. Di fatto sarà un vero e proprio inedito, con racconti mai visti e letti in Italia, tra i quali l’importantissimo Why I Live at the P.O. Le traduzioni sono magnifiche: Vincenzo Mantovani e Isabella Zani, due pesi massimi assoluti con cui siamo onorati di aver potuto lavorare. Nella prossima primavera sarà anche il turno di Mia Alvar, tradotta dalla mitica Gioia Guerzoni. Un libro di un’intensità incredibile, In The Country, che ha fatto innamorare già molti (biecamente basterebbe vedere i premi che ha vinto la raccolta). Si apre una stagione al femminile che proseguirà con nomi pazzeschi. Non voglio anticipare proprio tutto. Stiamo lavorando a ritmi serrati per definire il prossimo anno, che dovrebbe vedere il nostro primo libro di narrativa italiana, a cui teniamo particolarmente.

sabato 26 novembre 2016

Simone Burratti, Silloge senza titolo - Una nota di Alessandra Conte

Grazie a una collaborazione con la giuria del "Premio letterario Anna Osti" pubblico in una serie di post le note critiche alle opere premiate nell'edizione 2016 (quest'anno il primo premio non è stato assegnato né per la categoria di poesia editaper quella di poesia inedita). La silloge di oggi si è classificata terza nella sezione poesia inedita.



Simone Burratti, Silloge senza titolo

Una citazione, attribuita ad un regista cinematografico, precede le quattro prose di Simone Burratti, chiamando in causa superbia ed eccesso di umiltà. Dopo questo, forse, un individuo; o una presenza-assenza, poiché fuoricampo; oppure la ripetizione ad libitum del calco di se stesso, che ci ritrova tutti uguali. Gioco o son desto? AVATAR, 11H (NUOVI MODI PER USCIRNE), ESORCISMI e TRUE ENDING sono i titoli dei testi dal linguaggio medio e senza punte, in cui solo poche spie, distrattamente, rimandano ad aree più specifiche (avatar, gandharva, kitsune, jinn, trickster, Majora's mask, I Ching, azioni prerenderizzate). Se l'intenzione è di scrivere o parlare di una condizione di quasi divina indefinitezza, S. è il personaggio pretesto per farlo, caratterizzato a principio da una realtà che è tangibile grazie almeno ai suoi moti corporali, ed il cui pensiero si confonde con i gas intestinali. Se è mai veramente comparso, S. riappare solo alla fine, nell'unica azione volitiva di eclissare il sole del cielo-schermo, collocandogli sopra la sagoma-icona del cestino. Da dove proviene la voce che scrive? Dove risuona la voce inscenata dall'autore? Se di scena si tratta, essa è sfocata, anche se nitida (ma senza più pareti) è la stanza-corpo dove l'individuo si colloca, bloccato in profezie che si autoavverano, impossibilitato ad uscire da un luogo che non è chiuso, ma con quel poco di nozioni in saccoccia per farsi beffe anche della propria condizione d'inetto. Tra «mura invisibili che si alzano virtualmente» e «realtà in bianco e nero», la contemplazione si riduce ad un'attesa presso il cellulare-oracolo, nella dilatazione temporale data dalla prevalenza del tempo verbale presente. 

Alessandra Conte

giovedì 24 novembre 2016

Daniele Bellomi, "divided by zero" (silloge inedita) - Una nota di Giusi Montali

Grazie a una collaborazione con la giuria del "Premio letterario Anna Osti" pubblico in una serie di post le note critiche alle opere premiate nell'edizione 2016 (quest'anno il primo premio non è stato assegnato né per la categoria di poesia editaper quella di poesia inedita). La silloge di oggi si è classificata seconda nella sezione poesia inedita.



Daniele Bellomi, divided by zero 

Il lettore della silloge di Daniele Bellomi si trova di fronte a una possibile palingenesi che succede a una apocalisse voluta, cercata (“finito, detto al mondo: andato in pace, lontano | prima che ne sovrascriva la memoria”) da un soggetto che intende ricreare un reale – o forse un virtuale – migliore (“riapre | il termine a un sistema detto meglio”). Già, perché il demiurgo davanti al quale ci si trova davanti è un uomo e il suo tentativo di palingenesi è strettamente connesso al suo rapporto con la macchina – in questo caso un sistema operativo. Un umano che scivola verso il post-umano e, come tale, è un coacervo di elementi biologici e tecnologici: non sappiamo più che cosa appartenga al computer e cosa al suo creatore/manipolatore, tanto i termini sono stati confusi e tendono ad accavallarsi tra loro (“sa, e ripara i pannelli di luce: la corona, il sangue. dalla linea bianca del costato vuota il figlio, lo vomita a ritroso”). Forse siamo davanti a un teatro anatomico nel quale il cadavere sottratto alla sepoltura è stato sostituito da un sistema operativo. E il soggetto osserva le conseguenze del suo operare e tenta di plasmare l’alterità, di ricrearla e renderla più simile a sé, così da trovare un riparo (“dal retro dei monitor riesce a fare | una magia, a domare la terra, il codice, le stringhe: allaccia a caso | la sua idea di domazione, cioè non di dominare, ma di fare domus, o casa, al meglio”).         
Ma questo tentativo di ricreazione è destinato allo scacco e a una reiterazione parossistica dal momento che la possibilità di una palingenesi scivola ostinatamente nella negazione. Ogni tentativo viene infatti, come ci ricorda il titolo della silloge, diviso per zero (“finisce per | allontanare tutti, sempre, dividere il possibile per zero”). 


Giusi Montali

martedì 22 novembre 2016

Marco Bini, "Il cane di Tokyo" (Giulio Perrone Editore, 2015) - Una nota di Giusi Montali

Grazie a una collaborazione con la giuria del "Premio letterario Anna Osti" pubblico in una serie di post le note critiche dei libri premiati nell'edizione 2016. Il libro di oggi è stato segnalato nella sezione poesia edita.


Marco Bini, Il cane di Tokyo (Giulio Perrone Editore, 2015) 

Che cosa resta dopo l’implosione del pianeta Terra “espulso per igiene” e che subito “fa ritorno e generandosi ancora si addensa”? Leggendo la raccolta di Marco Bini, si può trovare risposta a tale domanda: ciò che rimane è “un’unica palude dilagante” che ospita “avanzi sommersi senza storia”. Così, data questa desolazione post-apocalittica, il lettore del Cane di Tokyo può trovarsi davanti solo a dei lacerti che si susseguono in un magma privo di alcuna consequenzialità e testimoniano una situazione diffusa, non circoscrivibile, comune all’umanità tutta. Tuttavia un trait d’union è possibile ritrovarlo nel senso di desolazione e di crisi universale e individuale che attanaglia il soggetto – o sarebbe meglio utilizzare il plurale, i soggetti –, la collettività e l’ambiente circostante: si attende il ritorno di qualcuno che non può tornare (come il cane di Tokyo, appunto), oppure si rammemora un periodo giovanile (quello tra i venti e i trent’anni) che è irrimediabilmente andato, oppure si dipanano colloqui impossibili con poeti (Frost, Sereni, Heaney) o antenati. O ancora la città belga di Ypres, devastata da quattro terribili battaglie durante la Prima Guerra Mondiale, viene assurta ad emblema della forza distruttiva dell’uomo e della Storia (“filamento unico e malvagio”). A tanta devastazione si può rispondere solo con la capacità della scrittura di ricucire le ferite, di lasciare traccia di un possibile percorso da seguire, oppure di fornire un riparo, rivelando al tempo stesso il disagio e il dolore di chi scrive. La scrittura diviene allora una forma di resilienza che permette al soggetto di trovare una propria stabilità, un punto da cui ripartire (“Così le zampe si fissano a terra | le unghie – dure – si fanno radici”).

Giusi Montali

domenica 20 novembre 2016

Giovanna Frene, "Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda" (Arcipelago Itaca, 2015) - Una nota di Marco Scarpa

Grazie a una collaborazione con la giuria del "Premio letterario Anna Osti" pubblico in una serie di post le note critiche dei libri premiati nell'edizione 2016 (quest'anno il primo premio non è stato assegnato né per la categoria di poesia editaper quella di poesia inedita). Il libro segnalato oggi si è classificato terzo nella sezione poesia edita.



Giovanna Frene, Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda (Arcipelago Itaca, 2015) 

Libro denso, tortuoso, riflessivo che si pone come primo stadio di un progetto più ampio denominato Eredità ed estinzione. Ogni poesia o sezione ruotano attorno alla storia o meglio alla rappresentazione della storia. Gli spunti vanno rintracciati nella storia personale dell’autrice che da essi parte per un’analisi più ampia. La riflessione si concentra sul concetto che storia e pure le vicende private sono nient’altro che allegorie, visioni non definite, somma di dettagli pur sempre limitati e limitanti. La comprensione degli eventi è più che altro accettazione incastonata in un lavoro di montaggio e smontaggio. Un’indagine inesausta che non ricerca la perfezione di una ricostruzione ma piuttosto una apertura dello sguardo. Le storie, e la storia tutta, appaiono nella loro fragile dissoluzione. E le poesie restituiscono questi frammenti, queste considerazioni fulminee, visioni in ebollizione. Non ci sono grossi appigli proprio per esemplificare la natura destrutturata dell’idea di passato. Resta la memoria, e con essa le colpe, le occasioni mancate, i giudizi a posteriori, “un peccato, che è infinita sete”. Resta la morte, inequivocabilmente. “non può esistere pietà per tutti i morti uccisi / anche se il morire è solo il morire / le colpe strattonano solo i piedi colpevoli”. Ma pure “questa morte che è solo una morte / la morte non cambia per niente”. Estrapolare versi dai singoli testi è azione che restituisce solo una parvenza perché le poesie lavorano su più livelli e soprattutto sull’idea che tutto regge. Quanto emerge è una intelaiatura appunto che tende a un’indagine più ampia e in questo libro si percepisce questo respiro iniziale, non del tutto approfondito. Le premesse d'altronde sono chiare ed è esplicitato pure nell’introduzione dell’autrice che questo è solo il primo tassello. Non rimane che attendere la prosecuzione delle riflessioni e le potenzialità che le parole sapranno estrarre da questa esplorazione per scardinare l’idea più comune e “stretta” della storia. 

Marco Scarpa
 

venerdì 18 novembre 2016

Fabia Ghenzovich, "Totem" (Edizioni Puntoacapo, 2015) - Una nota di Alessandra Conte

Grazie a una collaborazione con la giuria del "Premio letterario Anna Osti" pubblico in una serie di post le note critiche sui libri premiati nell'edizione 2016 (quest'anno il primo premio non è stato assegnato né per la categoria di poesia editaper quella di poesia inedita). Il libro segnalato oggi si è classificato secondo nella sezione di poesia edita.




Fabia Ghenzovich, Totem (Edizioni Puntoacapo, 2015) 

Il libro di Fabia Ghenzovich trova ciò di cui si fa tramite per la ricerca? Il Totem del titolo si erge lapidario e multiforme, in un libro unitario in cui circolarmente, dall’inizio alla fine, appaiono le figure femminili cui l’autrice affida il compito di mostrare spazi archetipici dell’animo umano. La concezione di quest’ultimo si rivela a tratti: è prevalentemente istintuale e femminile, o pertiene al genere desensibilizzato umano – maschile solo nel genere grammaticale? Alcuni esempi: «Sono quello che vedi di me – che tu / vuoi vedere – la santa inquisizione di quello che vuoi che io sia», p. 22, vv. 1-3; «Lui sta a guardare con abulica codardia», p.15, v 1; «nessuno per ferocia lo eguaglia […] l’uomo soltanto si sbizzarrisce in gusto macabro», p.12, vv. 1-3. 
Il destinatario di Totem è collettivo, come fanno intendere le spie lessicali riferite alla prima persona plurale noi, ed è chiaro ad apertura e chiusura, come recitano i testi che fanno da confine materiale della raccolta (dall’incipit: «ecco quel che abbiamo perso / la prima vera pelle – la sola che ci salva.», p.7, vv. 6-7; dalla chiusura: «Eppure cosa in bilico ci resta / tra perdita e bellezza? / Di quale lontananza parleremo […] ci sfugge», p.40, vv. 1-3, 6).
Emerge in questi due esempi lo svolgersi del discorso del libro: dall’ecco presentativo iniziale che addita e sottolinea la perdita subita in un prossimo passato, che rappresenta all’inizio però l’unica via di salvezza, l’autrice passa all’eppure di forte valore avversativo, in prima posizione, posto in una domanda.  La sostanza femminile che popola le figure di Totem è una e plurima, e vuole riportare il lettore e la lettrice ad un passato mitico dalla continuità spezzata, intriso di corpo e animalità. Laddove invece irrompe il presente nel tempo dei verbi, l’autrice ci indica la corrotta sostanza dell’oggi o il riconoscimento del permanere in sé dei caratteri di una lupa/loba sentita come antenata; personaggio talmente individuato ma inafferrabile, che arriva a dissolversi in paesaggio notturno lagunare. La ricerca del libro si chiude in una domanda, lasciandolo aperto, ed in questo – anche se il soggetto scrivente si può identificare con il personaggio in minime metamorfosi dall’equilibrio dinamico – una via è rappresentata dalla scrittura stessa come fonte di rinvenimento del senso (nell’assonanza anima : pagina), intuibile ed esperibile, forse, ma non raziocinante. 

Alessandra Conte

mercoledì 16 novembre 2016

Il manuale di Epitteto tradotto da Giacomo Leopardi (e qualche nota editoriale)

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #33
Covertures #13


Il Manuale di Epitteto, redatto in realtà dall'allievo Arriano di Nicomedia, ebbe a partire dal Cinquecento rinnovata fortuna fino ai giorni nostri e prova ne siano le diverse edizioni in commercio, qua rappresentate anche dalle loro copertine (manca l'edizione della collana Piccola Biblioteca Einaudi curata da Pierre Hadot e quella di Garzanti dei Grandi Libri). Quando il manuale, nell'autunno del 1825, incontrò l'intento traduttorio di Giacomo Leopardi durante il suo soggiorno bolognese, non era insomma opera dimenticata e il lettore colto poteva disporre di una manciata di traduzioni e pure della versione latina curata da Angelo Poliziano (sia detto per inciso che l'edizione Garzanti del Manuale propone sia il testo leopardiano che la versione latina del Poliziano). Leopardi, che con l'editore milanese Stella stava provando a progettare in quel tempo una serie di libri dal formato contenuto che proponessero le principali opere dei moralisti greci e altre iniziative editoriali che dovevano, almeno negli intenti, contribuire al suo mantenimento economico, lavorò sul testo greco per un paio settimane e consegnò il manoscritto della traduzione all'editore senza tenere copia per sé. Non vide mai pubblicata l'opera, che fu stampata soltanto dopo la sua morte nell'edizione delle opere curata dal Ranieri. Si tratta di una traduzione che tenne per sempre molto cara e che a più riprese provò a far pubblicare senza successo. Il periodo bolognese-milanese del poeta coincideva con l'inizio della stesura della sua opera capitale, le Operette morali, le quali videro la prima edizione non lontana dalla ventisettana de I promessi sposi e quindi varie edizioni successive.

Dopo il "Preambolo del volgarizzatore", laddove Leopardi riduce la dimensione eroica dei potenziali destinatari dell'opera, così attacca la traduzione del Manuale del filosofo stoico Epitteto:
Le cose sono di due maniere; alcune in potere nostro, altre no. Sono in potere nostro la opinione, il movimento dell'animo, l'appetizione, l'aversione, in breve tutte quelle cose che sono nostri propri atti. Non sono in poter nostro il corpo, gli averi, la riputazione, i magistrati, e in breve quelle cose che non sono nostri propri atti.
Le cose poste in nostro potere sono di natura libere, non possono essere impedite né attraversate. Quelle altre sono deboli, schiave, sottoposte a ricevere impedimento, e per ultimo sono cose altrui.
Si tratta di una distinzione fondamentale, su cui è ancorato tutto il resto del discorso dello stoico. Quel che interessa oggi, al di là di tutti i ragionamenti che leopardisti, critici illustri e divulgatori hanno già prodotto, è un grumo di riflessioni che si possono fare e che partono e arrivano a questo Manuale: si può affermare che Leopardi è autore di una prima versione in italiano moderno del "libricciuolo", lo traduce in appena un paio di settimane in un momento centrale della propria riflessione filosofica, non ne violenta la natura e non trasforma Epitteto in uno dei propri precursori rifacendosi, in qualche modo, alla massima che ogni autore "crea" i propri precursori; sarebbe troppo limitante traslare questa massima anche in terreno leopardiano, tanto imponente è infatti l'arcata di ponte che Leopardi getta tra due epoche. (In realtà, sulla chiave di lettura "attualizzante" del Manuale fornita dal recanatese il dibattito non è unanime,  mentre è quasi unanime l'apprezzamento della lingua scelta da Leopardi per la traduzione.) Inoltre, cosa non da poco, Giacomo Leopardi cala in Epitteto, in quattro operette morali di Isocrate e in altre traduzioni soltanto ipotizzate un progetto editoriale che mai vide la luce e che tuttavia sarebbe interessante provare a ripercorrere e ricostruire. Molte sono le ragioni per cui tutto naufragò e non ultima va considerata l'urticante scomodità politica del pensiero leopardiano. Tuttavia ci sono le premesse per poter parlare o tornare a parlare anche di un certo pensiero pratico-editoriale di Leopardi o, se non altro, di un suo rapporto con l'atto del pubblicare (verbo che oggi assume connotati sempre cangianti). Anche quando consegna al mondo la propria opera più sconvolgente camuffata dal diminutivo del titolo, le Operette morali, viene da chiedersi se Leopardi riponga nel meccanismo dialogico, così preponderante in questo libro, la possibilità di aggirare certi meccanismi censorei che difficilmente forse avrebbe superato.

Molto interessante è quindi lo studio di Leopardi anche alla luce dei suoi rapporti editoriali mentre era in vita, così come spesso è interessante compiere simile analisi con altri autori (si è già parlato in termini analoghi per Manganelli). Oggi non abbiamo bisogno di sforzarci per trovare la sua traduzione da Epitteto, che potete scaricare come PDF qui, oppure acquistare nei volumi rappresentati in foto (dall'alto: Salerno editrice, SE, Bur e a voi giudicare le copertine più riuscite e quella davvero fuori centro...). Ci si è chiesti se la sua versione deviasse in qualche modo l'interpretazione "giusta" di questo classico collocato in un'epoca di apparente fine della filosofia, eppure i precetti di Epitteto raccolti da Arriano e tradotti, fra molti altri, anche da Giacomo Leopardi stanno lì a raccontarci anche dell'incalcolabile destino dei libri e dei classici. Per ricordare un'altra celebre versione, il Manuale fu tradotto anche dal gesuita Matteo Ricci come libro di mediazione (più che di meditazione) nel proprio viaggio cinese e titolato Il libro dei 25 paragrafi. Sono tanti oggi i libri sulla saggezza, sui precetti, sulla sapienza, quasi un genere editoriale a sé in grado di attrarre lettori anagraficamente diversi. Eppure in questo "libricciuolo" contenente i precetti di Epitteto possiamo riscontrare un andirivieni del destino che ci parla da vicino dei classici, del loro essere tutt'altro che libri immutabili e dati una volta per tutte. Il lascito di Leopardi allora sta anche nell'intendere questa non immutabilità del classico che ha goduto di molta fortuna.
Sovvengati che tu non sei qui altro che attore di un dramma, il quale sarà o breve o lungo, secondo la volontà del poeta. E se a costui piace che tu rappresenti la persona di un mendico, studia di rappresentarla acconciamente. Il simile se ti è assegnata la persona di un zoppo, di un magistrato, di un uomo comune. Atteso che a te si aspetta solamente di rappresentar bene quella qual si sia persona che ti è destinata: lo eleggerla si appartiene a un altro.
Anche in un passo come questo sopra riportato - siamo nel secondo secolo dopo Cristo - si nota l'inversione di una concezione radicata: il teatro che passa da mimesi della vita a paradigma della conoscenza. Si tratta di uno dei tanti motivi di interesse per l'Enchiridion di questo ennesimo schiavo frigio a cui dobbiamo molto (un altro era Esopo). Oggi, se dovessi indicare una direzione su cui questo testo è più che mai attivo, indicherei la questione del narcisismo; anche quell'incipit sopra riportato spedisce diritto a una quantomai opportuna distinzione tra io e non-io e a una feconda delimitazione della prima persona, soprattutto in senso morale. In questo riesce il Manuale, pur non accennando ad alcuna divinità e in questo riesce anche il ridimensionamento eroico del Leopardi-editore:
Io per verità sono di opinione che la pratica filosofica che qui s'insegna, sia, se non sola tra le altre, almeno più delle altre profittevole nell'uso della vita umana, più accomodata all'uomo, e specialmente agli animi di natura o d'abito non eroici, né molto forti, ma temperati e forniti di mediocre fortezza, o vero eziandio deboli, e però agli uomini moderni ancora più che agli antichi. (dal "Preambolo del volgarizzatore")

domenica 13 novembre 2016

"Madreperla, domani 2". Il secondo ciclo di sonetti dedicati di Ophelia Borghesan

Sono Bernardo Pacini, Alessandra Cava, Erika Crosara e Gilda Policastro i dedicatari del secondo ciclo di sonetti di Ophelia Borghesan, che gentilmente mi invia anche questi nuovi componimenti concedendo la possibilità di scaricare l'ebook. Ricordo che il primo breve ebook con i sonetti inaugurali della serie è uscito in queste pagine qualche settimana fa. A questo link (o cliccando sulla copertina sotto) potete ora scaricare il secondo ebook. L'occasione è gradita per ricordare che Ophelia Borghesan è nata nel 1991 a Lille. Nel 2012 ha pubblicato il saggio “The Queendom – la scrittura di genere oltre il web 2.0: verso la F/e-mail era”. Ha un tatuaggio che in lingua cherokee significa "lust in translation". Nel 2015 ha pubblicato sul sito Poesia 2.0 l’e-book “Come il glicine, ti cerco”, su Poetarum Silva la raccolta di poesie “Jailhousy”, e su Critica Impura cinque poesie da “Mandalata”. Buona lettura.

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giovedì 10 novembre 2016

Basta romanzi, ci soffoco dentro. "All’uscita del labirinto" di Clarice Tartufari in una recensione da "Plausi e botte" di Giovanni Boine

Quote #13

"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.


Sulla scia del contributo di Chiara Catapano su Giovanni Boine pubblicato qualche giorno fa, propongo come "quote" una recensione confluita in Plausi e botte, la rubrica che Boine tenne dal 1914 al 1916 su "La Riviera Ligure" (scritti raccolti in volume con Frantumi nel 1918, nel sito archive.org trovate il libro disponibile per il download in vari formati). Mi pare dia la temperatura del pensatore, della sua prosa e di un certo modo di recensire che è tuttora assai interessante. Boine usava la rubrica per parlare di poesia, di romanzi e anche di altre riviste (liquidava la rivista quindicinale "Quartiere Latino" scrivendo "La par Lacerba ridotta per educande"). Poco importa che oggi non si ricordi chi sia Clarice Tartufari e il suo "ottimo romanzo" All'uscita del labirinto, che per Boine diventa pretesto per allargarsi a dire qualcosa di rilevante sul romanzo stesso e sulle sue libere (davvero libere) impressioni di recensore. In calce, a completamento, ho pensato fosse interessante riproporre l'indice di tutti i suoi plausi e di tutte le sue botte.

L'edizione Vallecchi
(42) Clarice Tartufari, All’uscita del labirinto. Bari, ed. Humanitas, 1914.

di Giovanni Boine

Dico anch' io di questo romanzo quel che ne han detto fin qui concordemente gli altri: che é un ottimo romanzo. Racconta di una giovinetta viterbese, che su su, si fa donna attraverso due amori. La è una giovinetta ed una donna, viva ; di quelle che le sofferenze se le tengono in cuore orgogliosamente e non si piegano ; cresciuta su fra un padre chiuso dolente e duro ed una sorella bella, scaltra e facile. La sorella fa fortuna, sposa un impiegato postale, ma fa a Roma la gran vita. Lei, pure a Roma, finisce dattilografa a guadagnarsi da sé il pane, ad affrontare il mondo uscita che è dal labirinto della prima giovinezza, maturata com’è dalle parecchie esperienze e fatta l'anima ferma. 

Appunto codesta fermezza, codesta dirittura, codesta orgogliosa (simpatica) onestà, senti per tutto il libro. V’è in fondo ad ogni opera d'arte una intuizione germinale, uno stato-d'animo-base, i segni di una individualità così e così definitiva da cui tutto il resto rampolla. Qui lo stato d'animo è questo che descrivo. Senti nella stessa rappresentazione, nella pittura delle persone e degli avvenimenti, nello stile (non sempre) non so che sobrietà precisa, non so che sforzo di quadratura, di massiccia e netta sincerità, la quale sei tentato di dir maschia.

Ma non è maschia che per questa sola ragione, che è donnesca.

Non lo dico per offender nessuno. Le qualità di questo romanzo, — le buone qualità, — sono, trasportate in arte, quelle stesse per cui la tua moglie t'ordina così tanto bene la casa, e con tanto oculato scrupolo e tanta pazienza, e, sí, con tanto minuto ardimento e sacrificio di sé t'aggiusta il dissestato bilancio. Otto Weininger parla accanto all'altra che ho nominato mi pare al N. 21, di una donna madre, la quale a suo modo è capace, aggiungo io, è capacissima di logica e d'ordine. Ma l'ordine delle donne e la loro logica, son di specie matematica, mancano assolutamente di lirica. Tanto che se tu parli di un ordine lirico, o di una logica lirica fra le varie donne che discutono, portando brache, ora, di guerra al tuo caffè, susciterai le omeriche risate.

Però se le mie teorie paressero weiningerìane eccessivamente, lasciamole stare. Il fatto è questo: che la Tartufari ha scritto un ottimo romanzo. Ma che appunto perchè in quanto romanzo, io non ho quasi niente da obiettare a questo libro e cioè non sono costretto a correggerlo, a dir che è male scritto, che la tesi è bislacca, che i personaggi non vivono, e che di qui, e che di là, come ho dovuto fare finora o presso a poco; appunto perciò che i personaggi qui vivono, che tutto o quasi tutto qui è vivo e vero e sicuramente padroneggiato, mi sia dunque permesso di dir finalmente la mia opinione sugli ottimi romanzi vivi e veri e quadratamente rappresentati.

Ed è che non so come, ci soffoco dentro, ma proprio ci soffoco, ma proprio non ci colgo da un ultimo che pena e desiderio di scattare comunque pazzamente fuori, fuori d'ogni quadratura e d'ogni regolare verità. Che ciò non è arte, o è quell'arte di cui non so assolutamente più che farmi ; che è un congelare, un rifinire fotografico, (un ripetere la vita) uno sperperare narrativamente una emozione la quale, nuda, era un grido, od un lamento, era un bagliore od una interiore colorazione.

La Tartufari non ci ha colpe ; anzi. Ma basta signori scrittori, basta romanzi. Abbiamo già troppo fatto il pagliaccio e il troviero. Si deve per l'eternità lavorare a divertire il pubblico che paga ed a cantargli favole purché gli passin l'ore ? Spiaccicare l'anima nostra in grafici rettorici, infagottarla in fantocci, farla mimo e scimmia della vita, farla teatrante su di un finto palscoscenico perchè il mondo grosso applauda ?

Signori scrittori, la rettorica di Aristotile che è la vostra, non è la mia. Non basta ridere delle tre unità. Bisogna esser maschi davvero. Rigettare la schiavitù dell'apparente mondo e l'ordine della matematica materialità. Signori scrittori, siamo uomini ; lasciamo la letteratura e facciam della lirica. Esser uomini vuol dire scartar la blandizie, la colorata mollizie del sensibile mondo ; ridurci rudi al di dentro.

Io piangerò, io griderò o starò zitto. Starò con, dirò la mia anima nuda. Non scriverò romanzi.

* * * 

Indice degli autori e dei titoli di Plausi e botte di Giovanni Boine

Agar (Virginia Tango Piatti), Le reliquie d’un ignoto
Vincenzo Agostini, I canti della terra
Liana Ascoli Umilia, Favole Moderne
Riccardo Bacchelli, Poemi lirici
Pierangelo Baratono, Bob e il suo metodo
Carlo Emanuele Basile, La vittoria senz’ali
Giulio Bechi, I seminatori
Giulio Bechi, I racconti del bivacco
Ugo Bernasconi, Uomini ed altri animali
Ugo Bernasconi, Pascal, La Rochefoucauld (traduzioni)
Antonio Beltramelli, Solicchio
Giovanni Boine, Il peccato ed altre cose
Dionisio Buraggi, Zodiaco
Paolo Buzzi, L’elisse e la spirale
Paolo Buzzi, Bel canto
Dino Campana, Canti Orfici
Francesco Cangiullo, Piedigrotta
Moisè Cecconi, Il taccuino perduto
Carlo Dadone, Il talismano
Carlo Dadone, Come presi moglie
Carlo Dadone, La piccola Giovanna
Guido Da Verona, Il cavaliere dello Spirito Santo
Guido Da Verona, La donna che inventò l’amore
Adolfo De Bosis, Amori ac silentio
Alfredo De Gasperi, La protesta di un ritardatario
Edoardo De Fonseca, Il gaudente
Salvatore Di Giacomo, Novelle napoletane
Anton Francesco Doni, Scritti vari
Carlo Dossi, Opere
Eugenio Donadoni, Il sudario
Persio Falchi, Le novelle del demonio
Giuseppe Fanciulli, L’omino turchino
Angelo Luigi Fiorita, Sorrisi violetti
Lionello Fiumi, Polline
Luciano Folgore, Ponti sull’Oceano
Raffaello Franchi, Ruscellante
Ilaria Giusta, La casa senza lampada
Corrado Govoni, La neve
Corrado Govoni, L’inaugurazione della primavera
Amalia Guglielminetti, I volti dell’amore
Amalia Guglielminetti, L’insonne
Haydée, Faustina Bon
Piero Jahier, Resultanze in merito alla vita ed al carattere di Gino Bianchi
Carlo Linati, I doni della terra
Giuseppe Margani, Il corvo di E. Poe
Ofelia Mazzoni, Il palcoscenico
Francesco Meriano, Equatore notturno
Marino Moretti, I pesci fuor d’acqua
Marino Moretti, Giardino di frutti
Moscardelli, Abbeveratoio
Moscardelli, Tatuaggi
Giuseppe Mulas, Poesie nuove
Neera, Rogo d’amore
Ada Negri, Esilio
Arturo Onofri, Liriche
Arrigo Palatini, Testamento
Alfredo Panzini, Santippe
Alfredo Panzini, Il romanzo della guerra nell’anno 1914
Alfredo Panzini, Donne madonne e bimbi
Giovanni Papini, Buffonate
Giovanni Papini, 100 pagine di poesia
Enrico Pea, Lo spaventacchio
Filippo De Pisis, Canti della Croara
Rina Maria Pierazzi, L’inutile attesa
Mario Puccini, Foville
Carola Prosperi, La nemica dei sogni
Romolo Quaglino, Le indiscrezioni di Trilbly
QUARTIERE LATINO
Giuseppe Ràvegnani, Io e il mio cuore
Clemente Rébora, Frammenti lirici
RELAZIONE DEL CONCORSO
Alda Rizzi, L’occulto dramma
Emilio Roncati, Le voci nel deserto
Rosso di S. Secondo, Elegie a Maryke
Michele Saponaro, La vigilia
Nino Savarese, L’altipiano
Camillo Sbarbaro, Pianissimo
Renato Serra, Le lettere
Ardengo Soffici, Arlecchino
Ardengo Soffici, Giornale di bordo
LA NOSTRA SCUOLA
Clarice Tartufari, All’uscita del labirinto
Térésah, Il salotto verde
Leone Dario De Tuoni, Dall’esilio
Giacomo Ungarelli, Inni alle navi
Vamba, Storia di un naso
LA VOCE