Giovanna Frene, Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda (Arcipelago
Itaca, 2015)
Libro denso, tortuoso, riflessivo che si pone come primo stadio di un progetto più ampio denominato Eredità ed estinzione. Ogni poesia o sezione ruotano attorno alla storia o meglio alla rappresentazione della storia. Gli spunti vanno rintracciati nella storia personale dell’autrice che da essi parte per un’analisi più ampia. La riflessione si concentra sul concetto che storia e pure le vicende private sono nient’altro che allegorie, visioni non definite, somma di dettagli pur sempre limitati e limitanti. La comprensione degli eventi è più che altro accettazione incastonata in un lavoro di montaggio e smontaggio. Un’indagine inesausta che non ricerca la perfezione di una ricostruzione ma piuttosto una apertura dello sguardo. Le storie, e la storia tutta, appaiono nella loro fragile dissoluzione. E le poesie restituiscono questi frammenti, queste considerazioni fulminee, visioni in ebollizione. Non ci sono grossi appigli proprio per esemplificare la natura destrutturata dell’idea di passato. Resta la memoria, e con essa le colpe, le occasioni mancate, i giudizi a posteriori, “un peccato, che è infinita sete”. Resta la morte, inequivocabilmente. “non può esistere pietà per tutti i morti uccisi / anche se il morire è solo il morire / le colpe strattonano solo i piedi colpevoli”. Ma pure “questa morte che è solo una morte / la morte non cambia per niente”. Estrapolare versi dai singoli testi è azione che restituisce solo una parvenza perché le poesie lavorano su più livelli e soprattutto sull’idea che tutto regge. Quanto emerge è una intelaiatura appunto che tende a un’indagine più ampia e in questo libro si percepisce questo respiro iniziale, non del tutto approfondito. Le premesse d'altronde sono chiare ed è esplicitato pure nell’introduzione dell’autrice che questo è solo il primo tassello. Non rimane che attendere la prosecuzione delle riflessioni e le potenzialità che le parole sapranno estrarre da questa esplorazione per scardinare l’idea più comune e “stretta” della storia.
Libro denso, tortuoso, riflessivo che si pone come primo stadio di un progetto più ampio denominato Eredità ed estinzione. Ogni poesia o sezione ruotano attorno alla storia o meglio alla rappresentazione della storia. Gli spunti vanno rintracciati nella storia personale dell’autrice che da essi parte per un’analisi più ampia. La riflessione si concentra sul concetto che storia e pure le vicende private sono nient’altro che allegorie, visioni non definite, somma di dettagli pur sempre limitati e limitanti. La comprensione degli eventi è più che altro accettazione incastonata in un lavoro di montaggio e smontaggio. Un’indagine inesausta che non ricerca la perfezione di una ricostruzione ma piuttosto una apertura dello sguardo. Le storie, e la storia tutta, appaiono nella loro fragile dissoluzione. E le poesie restituiscono questi frammenti, queste considerazioni fulminee, visioni in ebollizione. Non ci sono grossi appigli proprio per esemplificare la natura destrutturata dell’idea di passato. Resta la memoria, e con essa le colpe, le occasioni mancate, i giudizi a posteriori, “un peccato, che è infinita sete”. Resta la morte, inequivocabilmente. “non può esistere pietà per tutti i morti uccisi / anche se il morire è solo il morire / le colpe strattonano solo i piedi colpevoli”. Ma pure “questa morte che è solo una morte / la morte non cambia per niente”. Estrapolare versi dai singoli testi è azione che restituisce solo una parvenza perché le poesie lavorano su più livelli e soprattutto sull’idea che tutto regge. Quanto emerge è una intelaiatura appunto che tende a un’indagine più ampia e in questo libro si percepisce questo respiro iniziale, non del tutto approfondito. Le premesse d'altronde sono chiare ed è esplicitato pure nell’introduzione dell’autrice che questo è solo il primo tassello. Non rimane che attendere la prosecuzione delle riflessioni e le potenzialità che le parole sapranno estrarre da questa esplorazione per scardinare l’idea più comune e “stretta” della storia.
Marco Scarpa
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