Marco Bini, Il cane di Tokyo (Giulio Perrone Editore, 2015)
Che cosa resta dopo l’implosione del pianeta Terra “espulso per igiene” e che subito “fa ritorno e generandosi ancora si addensa”? Leggendo la raccolta di Marco Bini, si può trovare risposta a tale domanda: ciò che rimane è “un’unica palude dilagante” che ospita “avanzi sommersi senza storia”. Così, data questa desolazione post-apocalittica, il lettore del Cane di Tokyo può trovarsi davanti solo a dei lacerti che si susseguono in un magma privo di alcuna consequenzialità e testimoniano una situazione diffusa, non circoscrivibile, comune all’umanità tutta. Tuttavia un trait d’union è possibile ritrovarlo nel senso di desolazione e di crisi universale e individuale che attanaglia il soggetto – o sarebbe meglio utilizzare il plurale, i soggetti –, la collettività e l’ambiente circostante: si attende il ritorno di qualcuno che non può tornare (come il cane di Tokyo, appunto), oppure si rammemora un periodo giovanile (quello tra i venti e i trent’anni) che è irrimediabilmente andato, oppure si dipanano colloqui impossibili con poeti (Frost, Sereni, Heaney) o antenati. O ancora la città belga di Ypres, devastata da quattro terribili battaglie durante la Prima Guerra Mondiale, viene assurta ad emblema della forza distruttiva dell’uomo e della Storia (“filamento unico e malvagio”). A tanta devastazione si può rispondere solo con la capacità della scrittura di ricucire le ferite, di lasciare traccia di un possibile percorso da seguire, oppure di fornire un riparo, rivelando al tempo stesso il disagio e il dolore di chi scrive. La scrittura diviene allora una forma di resilienza che permette al soggetto di trovare una propria stabilità, un punto da cui ripartire (“Così le zampe si fissano a terra | le unghie – dure – si fanno radici”).
Giusi Montali
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