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domenica 28 gennaio 2018

"Il vestito dei libri". Il breve libro di Jhumpa Lahiri sulle copertine

La seguente recensione di Eloisa Morra è apparsa, in forma lievemente accorciata, su «alias - il manifesto».


Rievocando i suoi esordi di lettore, Javier Marías non ha potuto fare a meno di ricordare quanto il bizzarro paesaggio della biblioteca di famiglia abbia contribuito a dar forma al suo destino. Steso sui suoi oggetti damore era un immenso tappeto formato da dipinti e disegni adibiti a sportelli-finestre: anziché limitarsi a prendere un libro dallo scaffale, in casa Marías si doveva per prima cosa spostare una tessera del mosaico dimmagini sovrapposto alla libreria dai suoi genitori. «Ogni volta» continua lo scrittore spagnolo «che vedo un dipinto a una mostra o in un museo, devo reprimere il riflesso condizionato che mi porta ad aprirlo per tirar fuori un volume di Kierkegaard o Aristotele, come se le immagini non fossero che casseforti dietro le quali scoprire i più grandi tesori bibliografici». Sogno segreto degli amanti dellecfrasi alla rovescia (così Calasso in Limpronta delleditore), la biblioteca-Wunderkammer di Marías riporta alla mente il rapporto decisivo tra loggetto libro e limmagine che ce ne svela la soglia. Scegliere una copertina, spiegava Calasso, richiede unabilità negromantica: come scovare unimmagine che trasmetta leco ottica dellatmosfera dun romanzo o duna raccolta di racconti, aprendo uno spiraglio che incuriosisca il lettore? È più opportuno dare uninterpretazione letterale, o è lecito discostarsi dal testo di partenza? Quali le conseguenze di una decisione sbagliata?


Jhumpa Lahiri è tornata su questi temi in Il vestito dei libri (Guanda 2017, pp. 78), sinuoso saggio da aggiungere a un ideale scaffale sui rapporti inter artes, tra Il capolavoro sconosciuto e Il rosa Tiepolo. La gestazione del libro è già di per sé interessante. Pensato in italiano per il Festival degli Scrittori Gregor Von Rezzori nel 2015, è stato tradotto in inglese e poi pubblicato da Knopf e da Penguin Random House col titolo The clothing of books dopo unattenta revisione dautore; da questa versione Lahiri è partita per autotradursi nuovamente in italiano. A questo salto linguistico-editoriale corrispondono - sommo potere dellecfrasi - tre traduzioni visive del testo. Il libello bilingue del festival è una pubblicazione volutamente in minore: caratteri neri e rossi si stagliano su un neutro sfondo beige, velato solo dal logo della manifestazione. Da un cortocircuito dellinglese, per cui sovraccoperta è jacket, prende invece le mosse la copertina italiana; il titolo è avvolto in due lembi duna giacca blu, trasposizione sans serif dei dipinti di Domenico Gnoli. Ledizione Penguin rende più astratto il gioco verbo-visivo dellitaliana: le uniche forme presenti sono il nome dellautrice e il titolo, presentati in un carattere che evoca le cuciture dei vestiti (e linfinito taglia-e-cuci di ogni scrittura).

A legare i tre elementi - testo, lingua, copertine - è il concetto di traduzione, fondamentale in questo e in altri libri di Lahiri. Indagare il rapporto con gli equivalenti visuali della sua opera in diversi paesi significa innanzitutto interrogarsi sulla propria identità: «Come sono vista, percepita, letta? Scrivo per evitare la domanda, ma anche per cercare la risposta». Associare lidea della copertina a quella della divisa sarà allora inevitabile. Lahiri si trova a rievocare linvidia provata da piccola per quelle dei suoi cugini di Calcutta, in grado di garantire unidentità forte e un anonimato impossibile da raggiungere per lei, di famiglia indiana ma cresciuta in America. La scelta dei vestiti non è che una spia del suo incessante oscillare tra due lingue e culture in cui mai è riuscita a riconoscersi del tutto unico rifugio, la parola scritta. Tra le sue copertine, non è un caso che allautrice piaccia molto quella delledizione americana di In altre parole, sua prima prova narrativa in italiano: la vediamo perfettamente a suo agio in uno dei luoghi del cuore, il Centro Studi Americani di Roma, circondata da una calda coltre di libri.


Come il precedente, anche Il vestito dei libri è legato a doppio filo con le nuove prospettive aperte dal soggiorno italiano: lidea di scrivere su questo tema è nata, oltre che dalla lettura dun saggio di Lalla Romano sulla grafica Einaudi, dal fatto stesso di avere pochi volumi in casa (sistemati sugli scaffali con le copertine in vista, come i quadri-sportello di Marías). Nellanalizzare il rapporto con la prima immagine che lo scrittore dà agli altri di sé, Lahiri traccia un autoritratto che contiene quel che è stata e non è più. Ne emerge una forte nostalgia per il libro nudo, letto nel silenzio duna biblioteca e non oscurato dal pulviscolo dei blurbs e da altri elementi della grammatica pubblicitaria. «La copertina è superficiale, trascurabile, irrilevante rispetto al libro. La copertina è una componente vitale del libro. Bisogna accettare il fatto che entrambe queste frasi sono vere», conclude Lahiri, svelando una diffidenza difensiva derivante dallo scarso controllo che in ambito anglosassone lautore esercita sullaspetto dei propri libri. Eppure non si può dire che non sia stata fortunata, almeno in Italia (le sue edizioni sono state vestite dai bravi grafici Guanda). Forse però la voce arieggiata di queste pagine avrebbe meritato le visioni dun pittore: sembra già sentirla risuonare nei riflessi dun Morandi, nelle marine con conchiglie di De Pisis. 


Eloisa Morra

lunedì 13 gennaio 2014

da "Poesie" di Ingeborg Bachmann

Una poesia da #28


Credo che lo stato di chiacchiera attorno a Ingeborg Bachmann abbia raggiunto livelli talvolta fastidiosi. Destino quasi normale, per le scrittrici e gli scrittori più celebrati. Tanto più se la loro morte resta avvolta nel mistero. Non so se questa impressione di eccessivo chiacchiericcio sia solo un problema accentuato dall'Italia, paese dove tra l'altro lei visse a lungo - senza capire perché, diceva - e dove morì in seguito ad un incendio sviluppatosi nella sua abitazione romana. Ovvio che a volte basterebbe abbassare il volume della chiacchiera, tapparsi le orecchie, per non provare troppi fastidi. Questo non è in realtà così facile in un mondo tristemente e invasivamente pettegolo come quello delle lettere e della scrittura. (Ci sarebbe anche un pettegolezzo meno triste, persino intellettualmente vivace, ma non è il caso nostro.) In questi casi mi sembra che l'antidoto migliore al fastidio sia tornare all'autore e al testo. Occasione diventa allora la nuova edizione delle Poesie rimessa in circolo da Guanda in questi giorni (traduzione e cura di Maria Teresa Mandalari, pubblicata per la prima volta già nel 1978 per lo stesso editore, pp. 164, euro 10). Il libro era già uscito anche in versione tascabile e ora ritorna in libreria con una nuova veste grafica. L'illustrazione di Guido Scarabottolo, firma di quasi tutte le copertine Guanda, lascia spazio a un ritratto fotografico dell'autrice virato in blu e un po' sfocato. Una piccola eccezione alla consuetudine grafica di Guanda, che per certi aspetti sottolinea il divismo che ancora preme a contornare la figura della scrittrice di Klagenfurt. Nella lettura tornavo in particolar modo alle poesie del suo primo libro, Die gestundete Zeit (Il tempo dilazionato), uscito la prima volta nel 1953. In realtà è noto che non sono poi molte le opere di poesia di quest'autrice se paragonate al corpo della sua opera. Bachmann sperimentò tra l'altro più forme di scrittura e, a mio avviso, in modo particolarmente riuscito quella legata al mezzo radiofonico (radiodrammi, corrispondenze). Più ancora delle poesie contenute nel successivo e assai più noto Invocazione all'Orsa Maggiore, ho trovato modo di soffermarmi proprio in quelle della raccolta d'esordio, dove si percorre uno stupore legato a elementi minimi quali il sole, la nebbia (saranno le giornate, ma l'ho notata di più quella sua nebbia), l'acqua (così presente anche nelle sue prose) e il loro disporsi in un piano (cartesiano?) di scrittura. Tra tutte ho scelto una poesia intitolata "I ponti". Mi è sembrata significativa per come raduna tanti motivi della sua scrittura a quell'altezza degli anni Cinquanta.














I ponti

Il vento tende la bandella davanti ai ponti.

Contro le traversine il cielo ha logorato
l'azzurro più fondo.
Da una parte e dall'altra le nostre ombre
mutano nella luce.

Pont Mirabeau... Waterloobridge...
Come fanno i nomi a sopportare
di portare gli anonimi?

Percossi dagli sperduti 
che non sorresse la fede,
si svegliano i tamburi dentro il fiume.

Solitari sono tutti i ponti,

e la gloria è pericolosa per loro
come per noi, che presumiamo
di avvertire i passi degli astri
sopra la nostra spalla.
Ma sul declivio della caducità
nessun sogno ci inarca.

È meglio vivere affidati alle sponde,
ora all'una ora all'altra,
e di giorno vegliare
che stacchi la bandella il designato:
le cesoie del sole egli raggiungerà
nella nebbia, e se resterà abbacinato
lo avvolgerà la nebbia nella caduta.














Die Brücken

Straffer zieht der Wind das Band vor den Brücken.

An den Traversen zerrieb
der Himmel sein dunkelstes Blau.
Hüben und drüben wechseln
im Licht unsre Schatten.

Pont Mirabeau... Waterloobridge...
Wie ertragen’s die Namen,
die Namenlosen zu tragen?

Von den Verlornen gerührt,
die der Glaube nicht trug,
erwachen die Trommeln im Fluß.

Einsam sind alle Brücken,
und der Ruhm ist ihnen gefährlich
wie uns, vermeinen wir doch,
die Schritte der Sterne
auf unserer Schulter zu spüren.
Doch übers Gefälle des Vergänglichen
wölbt uns kein Traum.

Besser ist’s, im Auftrag der Ufer
zu leben, von einem zum anderen,
und tagsüber zu wachen,
daß das Band der Berufene trennt.
Denn er erreicht die Schere der Sonne
im Nebel, und wenn sie ihn blendet,
umfängt ihn der Nebel im Fall.

domenica 29 dicembre 2013

da "Latitudine dei sogni" di Carmen Yáñez

Una poesia da #27

Già da qualche mese Guanda ha pubblicato la traduzione di Latitud de sueños (Latitudine dei sogni, pp. 120, euro 12) dell'autrice cilena Carmen Yáñez. Il lavoro di resa in italiano è di Roberta Bovaia. Questo non è il suo primo libro tradotto nella nostra lingua: potevamo infatti già leggere Terra di mele, Abitata dalla memoria e Paesaggio di luna freddaYáñez, come è noto a chi conosce un po' la sua biografia, non vive più in Cile da molti anni. Nel 1975 fu catturata dalla polizia cilena e scappò l'inferno di Villa Grimaldi. Seguirono sei anni di clandestinità. Nel 1981, con la protezione dell'ONU, riparò in Svezia e qui restò fino al 1997, quando si trasferì nelle Asturie, dove tuttora vive con il compagno, lo scrittore Luis Sepúlveda. Del libro curato da Roberta Bovaia scelgo la prima poesia, quella che dà il titolo (davvero bello) all'intera raccolta.

Latitudine dei sogni

Una se ne sta tranquilla
in un alberghetto di Saint-Maló
la costa smeraldo di antichi corsari
davanti al mare, insomma, esposta.
E di colpo batte il Pacifico splendido
la brezza alimentata di eucalipti
sulla riva di un ricordo indelebile
dove albergò la piccola felicità
che regge le vertebre della vita.
Dove si conserva il mare che ci apparterrà per sempre?
In quale organo si occulta dopo tanti viaggi?
In quale viscera ulula la bestia dei ricordi?
L’infanzia che sgorga tra le onde
dalla finestra di un esilio che incessantemente ci avvolge
con le sue piccole mani ora.
Sassolini che raccoglievo con tutto quello che trovavo
nelle piccole tasche rotte.
Una se ne sta tranquilla
a camminare sulla sabbia,
ma le scarpe rallentano col loro peso.
Tanta vita camminata!
Anche se i piedi vogliono staccarsi da terra
confondersi con il blu.
E in fondo uno sa
che tutto è illusione
il qui e il là nel corpo.
L’unica verità è il dolore,
il taglio fastidioso
che ha fatto il filo di un ciottolo nella scarpa sinistra,
il tallone ferito che impedisce talora di avanzare
che va e viene
come l’onda che morde
malgrado la sua bellezza implacabile.


Latitud de sueños 

Una está tranquila
en un hotelito de Saint-Maló
frente al mar, es decir, expuesta.
El agua azul
y de pronto golpea el Pacífico espléndido
la brisa alimentada de eucaliptos
a la orilla de un recuerdo indeleble
donde moró la pequeña felicidad
que sostiene vértebras de vida.
¿Dónde tiene uno el mar que le pertenece para siempre?
¿En que órgano se oculta después de tantos viajes?
¿En qué víscera aúlla el animal de los recuerdos?
La infancia que brota entre las olas
desde la ventana de un exilio que nunca para de envolvernos
con sus pequeñas manos ahora.
Piedritas que juntaba y todo lo que fue posible
en los bolsillos rotos.
Una está tranquila
caminando sobre la arena tan tangible,
pero los zapatos se retrasan por el peso de la arena,
¡Tanta vida caminada!
Aunque los pies quieran despegar del suelo
confundirse con el azul.
Y en el fondo uno sabe
que todo es engaño
el aquí y allá en el cuerpo.
La única verdad es el dolor,
la incisión molesta
que ha hecho el filo de un guijarro en el zapato izquierdo
el talón herido que impide a veces avanzar
que va y viene
como la ola que muerde
a pesar de su belleza implacable.

domenica 4 novembre 2012

"Staminalia" di Armando Massarenti: i nemici della ricerca scientifica

Ripescaggi #17










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In un paese dove tutti (non uno escluso) i montesquieuani poteri fanno  la gara per mettere i bastoni tra le ruote alla ricerca scientifica, non guasta ripescare una recensione del libro forse più importante scritto dal giornalista de Il Sole - 24 Ore Armando Massarenti. Staminalia. Le cellule «etiche» e i nemici della ricerca (pp. 205, € 14,50) uscì da Guanda nel 2008 e ancora oggi ci riporta, senza troppi giri di parole, tra le difficoltà enormi ed eccessive affrontate da un paese che con la scienza ha un rapporto sempre più guasto. Se ben ricordo questa recensione uscì sulla rivista "Che Libri".
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La ricerca sulle cellule staminali è probabilmente il più importante capitolo aperto dalla medicina negli ultimi anni. Spesso se ne sente parlare in modo discontinuo e comunque mancano studi avvicinabili dal lettore comune che affrontino una rivoluzione così importante, sia dal punto di vista della ricerca (cosa sono queste cellule particolari, come sono state scoperte, perché si ripongono in loro così tante aspettative nello sviluppo della medicina futura) sia dal punto di vista dell’impatto che la loro scoperta ha avuto e continua ad avere nella società e nei media.
Armando Massarenti, giornalista-filosofo de Il Sole – 24 Ore, da anni vicino ai temi dell’etica e membro dell’Osservatorio di Bioetica della Fondazione Einaudi, ci consegna con questo bel libro, puntuale e necessario, la storia di quest’avventura, con un occhio attento ed entusiasta rivolto alla rivoluzione scientifica in atto e l’altro, concentrato sull’Italia, vigile nell'individuare i “nemici della ricerca”, i meccanismi e le posizioni intellettuali insostenibili che hanno portato a barcollanti tesi sulla sacralità dell’embrione e alla cosiddetta via italiana nella ricerca sulle cellule staminali.

Da un punto di vista scientifico nonché divulgativo, è indispensabile distinguere tra cellule staminali multipotenti (quelle di un organismo in formazione come l’embrione), staminali totipotenti (quelle del pre-embrione, in grado di trasformarsi in qualsiasi tipo di cellula o tessuto) e staminali adulte, le uniche sulle quali si sia concentrata la ricerca in Italia, dal momento che sembrano esentate da discussioni di bioetica. Il valore di queste cellule adulte, comunque fuori discussione, è però stato artatamente “pompato” e messo in contrasto con quello delle altre cellule staminali con lo scopo principale di difendere accanitamente la sacralità di migliaia di embrioni che, si badi bene, inutilmente, ogni giorno, finiscono negli scarichi dei laboratori (la legge 40 vieta infatti il loro utilizzo senza spiegare quale sia il destino degli embrioni congelati). Da ultimo, non va dimenticato che la volontà di sminuire, vietare e tacciare come immorale la ricerca sulle staminali embrionali ha, dall’altro lato, creato aspettative esagerate sulle staminali adulte, le sole staminali “etiche”.

La bellissima illustrazione di Guido Scarabattolo in copertina ci mostra un prelato chino intento a guardare attraverso un microscopio. Cattolici, protestanti, amministrazione Bush: molti malati sono stati e verranno terribilmente delusi dal miracolismo relativo alla ricerca sulle sole cellule adulte prodotto da questi attori sociali; e questi nemici della ricerca avranno, con ogni probabilità, gioco facile in futuro ad affermare che la ricerca sulle staminali embrionali prometteva solo false chimere. Ma come sarà possibile? Se è proprio tale ricerca che si saranno adoperati ad impedire prima ancora che potesse dare i propri frutti? Urge correggere i molti vizi e le distorsioni di pensiero attorno a questo dibattito, ecco perché questo libro è quant’altri mai necessario.

martedì 27 marzo 2012

"Al limite boschivo", tre racconti di Thomas Bernhard

Questi tre racconti di Bernhard uscirono nel 1969. In Italia fu Guanda a proporli, nel 1981, poi Bernhard divenne quasi interamente un autore conteso tra Adelphi e SE, con qualche incursione einaudiana. A inizio anno Guanda però è tornata in libreria con un bel dittico,  e i tre racconti contenuti in questo Al limite boschivo. Entrambi brevi, entrambi belli. Nel primo caso è curioso constatare la riproposizione del libro semplicemente ri-titolato (precedentemente era uscito nella traduzione di Claudio Groff con il laconico titolo originale di Ja... titolo che si comprende soltanto all'ultima parola-sillaba del libro), mentre nel caso de Al limite boschivo si tratta di una riproposizione della traduzione di Enza Gini (pp. 80, euro 10) di tre racconti che, assieme a Perturbamento, furono tra i principali volani del decollo di Bernhard nel nostro paese. In questi brani c'è già molto del narratore (ma anche prolifico autore teatrale) che magari avrete letto altrove, soprattutto in quel mutuo relazionarsi tra luoghi chiusi e luoghi aperti, in cui l'autore austriaco, a mio avviso, offre gli esiti più alti della prosa. E questo che accade anche in Kulterer, il primo racconto, in cui l'omonimo protagonista, carcerato modello, vive il vuoto e l'angoscia degli ultimi momenti di reclusione, ne L'italiano, dove al centro ci sono le relazioni dietro le quinte di un funerale celebrato in campagna e infine nel terzo racconto, che offre il titolo al libro e che rimanda a un tema ricorrente in Bernhard, quello del suicidio (tema sin troppo "facile" per l'autore della distruzione e dell'autodistruzione). Il tema del suicidio poi unisce idealmente il dittico di libri di cui dicevo in apertura, compreso quindi quel Ja/che ritrova nei boschi, nelle passeggiate, nell'interazione tra aperto e chiuso, nel senso dei luoghi, una delle cifre più interessanti ascrivibili a Bernhard.


Assomigliano ai boschi alcuni libri di questo autore sospeso tra ossessioni tautologicamente ricorrenti e riuscite variazioni: proprio come nei boschi accade tutto, di tutto, quando apparentemente non accade nulla. Così come c'è un mondo - il mondo - nella ripetizione di un gesto abitudinario, o nel conteggio dei passi (tema ripreso da uno dei più celebri ammiratori italiani di Bernhard, Vitaliano Trevisan). Luoghi che assomigliano spesso a istituzioni totali goffmaniane (anche quando non lo sono), istituzioni che ritornano nei suoi libri (qui nel racconto di Kulterer, altrove, ad esempio, nell'ospedale de Il respiro). 


Ancora oggi, a leggere e rileggere Bernhard, possiamo rimanere toccati nello spirito, dall'incedere cronachistico che, con una regolarità impressionante, non di rado sconvolge e squassa e possiamo rimanere tramortiti dall'incontrarsi-scontrarsi-evitarsi dei protagonisti della sua prosa. E tutto avviene in uno spazio che ha i contorni, la luce, i muri, le planimetrie e l'odore ipotetico di prigione, dove progressivamente sembra venir meno il respiro e il passo (i passi) e dove pare salvarsi soltanto la scrittura, come ricordava Aldo G. Gargani (inciso: un filosofo che ho avuto la fortuna di conoscere e di cui mi pare si parli troppo poco, nonostante la morte tutto sommato recente). Nel suo La frase infinita. Thomas Bernhard e la cultura austriaca ci si avvicina a questa forma di salvezza nella scrittura. Aggiungerei che, all'inverso di una lezione latamente espressionista, non scorgeremo mai il grido o l'urlo nella disperazione di questo autore, piuttosto un inspiegabile credito offerto al racconto e allo scrivere, all'affermare a tratti quasi didascalico, come quei sottotitoli dei romanzi ai quali ci ha abituato, come l'effetto prodotto dai "raccontini" de L'imitatore di voci. 


Bernhard è oggi un autore da leggersi accanto a Handke. I due sono molto lontani ma sembrano illuminarsi reciprocamente, se avvicinati. Tra i due giganti austriaci ci sono sicuramente molti aspetti interessanti da chiarire e confrontare, anche se per il pubblico italiano non sono ancora disponibili studi dedicati di una certa consistenza. Sembra impossibile, con tutto quello che si pubblica. Ma così è.

sabato 10 marzo 2012

Marco Belpoliti racconta "La canottiera di Bossi"

Recensioni rapide #4
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"Recensioni rapide": due paragrafi fissi dove cerco di rispondere brevemente alle domande "che libro ho davanti?" e "perché vale la pena/non vale la pena avvicinarlo?" (solitamente resto su quelli che vale la pena). 
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Appare quasi come un filone quello inaugurato da Marco Belpoliti. Qualche anno fa era uscito Il corpo del capo, libro dove il rapporto triangolare tra Berlusconi-corpo-fotografia veniva sviscerato in maniera esemplare, con gli strumenti che l'intelligentemente eclettico studioso sapeva mettere sulla scacchiera. Dopotutto a Belpoliti siamo tutti riconoscenti per studi fondamentali come Settanta, Doppio Zero, Crolli, la curatela delle opere di Primo Levi e, ancor di più per chi scrive, per quel magnifico progetto di rivista che è "Riga" per Marcos y Marcos. Il filone politico al quale mi riferisco è anche un filone "corporeo" che, sotto certi aspetti, si poteva intravedere già in un bel libro minuscolo apparso per nottetempo nel 2008, Le foto di Moro, dove l'autore partiva da un'attenta analisi delle foto dello statista democristiano diffuse dalle Brigate rosse. Se ci soffermiamo poi su un certa centralità del corpo, allora riusciamo pure a inserire il più recente Pasolini in salsa piccante, studio di Belpoliti che meglio di altri ha provato a riposizionare un intellettuale italiano tra i più controversi e imprescindibili, sopravvalutato forse in alcuni frangenti (per quel che mi riguarda penso soprattutto alla sua narrativa) e sottovalutato per altri (Scritti corsari e Lettere luterane). La canottiera di Bossi è allora quasi una logica conseguenza di questo percorso che allinea politica-corporeità-immagine-brand e restituisce il personaggio Bossi ad una certa tradizione iconografica (un capitolo si intitola "Marlon Brando a Varese"!), gestuale, antropologica (l'eterno Fascismo italiano di cui parlava Sciascia oppure la tradizione del "vitellone" italico).

Per chi ha letto Il corpo del capo questo libro fa il paio perfetto con l'altro emisfero dell'ex maggioranza politica di questo paese e ci avvicina a comprendere il fenomeno-Bossi con una strumentazione rinnovata. Non è scontato che uno studioso del calibro di Belpoliti si sia messo ad analizzare la figura di Bossi. Per troppi anni il fenomeno Lega è stato sottovalutato ingenuamente da un certa frangia di operatori della cultura o intellettuali, se tale parola ha ancora qualche senso oggi; poi abbiamo iniziato a vedere studi come quello di Ilvo Diamanti. Per chi ama Belpoliti si tratta dell'ennesima conferma del suo talento, come dicevo di una metodologia d'indagine mai ingenuamente eclettica. Per chi ha snobbato Bossi con imperdonabile sufficienza è un buon pretesto per riflettere, così come questo libro costituisce parimenti un buona occasione di riflessione per i molti fan del senatur. Insomma, non mancano certo i motivi per avvicinare La canottiera di Bossi (Guanda, pp. 105, euro 8.50).

sabato 27 agosto 2011

Hella Haasse alla ricerca del Genius loci

Per una casa editrice come Iperborea, che negli anni ha costruito il proprio catalogo traducendo le cose più interessanti che provenivano da un'area data, l'Europa del nord, è quasi fin troppo coerente scegliere per questo nuovo libro di Hella Haasse (pag. 74, euro 9,50) il titolo di Genius loci.

Il volumetto contiene due racconti della scrittice nederlandese (Giacarta, 1918) già nota al pubblico italiano, sempre per le numerose traduzioni pubblicate da Iperborea e tradotte, in più di un caso, dalla stessa brava traduttrice del libro in questione, Laura Pignatti (William Trevor e Anne Tyler per Guanda le sue "specialità").

Il primo racconto, che presta il titolo al volume, vede una coppia di coniugi ormai anziani alle prese con la costruzione di una residenza per la villeggiatura estiva in un versante misterioso e inquietante di una collina disabitata. Per la protagonista è questa l'occasione per ricercare negli spazi circostanti e disabitati il genius loci, unendosi idealmente e carnalmente con Renaud, un cavaliere "mancato" di qualche secolo prima, fatto morire di solitudine anzitempo a causa della lebbra contratta. Renaud è una figura completamente inventata dalla mente della protagonista e un chiaro assaggio delle abilità dell'autrice di muoversi sul terreno del romanzo storico. Qui interessa soprattutto l'abile sovrapposizione di due epoche remote e l'accumulo sullo stesso spazio (la collina e il bosco di Vy) delle due anime vissute a distanza di secoli, le loro frustrazioni e la loro comunione carnale scatenata sul finale da... una corteccia di betulla.

Una sorta di unione-ritrova torna anche nel secondo racconto, La casetta in fondo al giardino, questa volta tra una madre e una figlia che per anni hanno vissuto un distacco profondo. Il distacco rimarrà tale anche dopo un'improvvisa apertura verificatasi nell'arco temporale del breve racconto. Anche la centralità di un dato luogo, del "posto dove si sta", unita a quella del mondo vegetale, accomuna questi due racconti della Haasse. In questo caso, veniamo a conoscenza dell'episodio che giace all'origine del distacco tra madre e la figlia, nell'unità di luogo data dal giardino, descritto dalla Haasse in un modo che non mancherà di colpire i lettori.

Piccola parentesi per concludere. Io scrivo "lettori", intendendo uomini e donne, ma ogni tanto mi chiedo se dovrei parlare di lettrici visto che, dati alla mano, sembra che a leggere siano quasi soltanto le donne e, a maggior ragione, libri confezionati in questa maniera. Il quadro dell'impressionista americano (un'etichetta che è un programma) William Merritt Chase scelto per la copertina, The Open Air Breakfast (un titolo che è più di un programma!), mi sembra un evidente segnale della strategia dell'editore di voler intercettare lo sguardo delle lettrici. Ecco un tema assai interessante: se a leggere e a fare il mercato editoriale sono soprattutto le donne, ci chiediamo assai banalmente che cosa leggono gli uomini. Io, per fortuna, mi sono concetrato prima sulla quarta di copertina del libro e poi ho visto la copertina. Fosse stato il contrario, o mi fossi limitato alla copertina, probabilmente non l'avrei acquistato, per una pura questione pregiudiziale (e lasciate che usi l'aggettivo pregiudiziale senza sollevare scandali). Anche perché credo che la pittura di William Merritt Chase, pur ritraendo un giardino, non renda giustizia alle atmosfere di Hella Haasse.