Una poesia da #28
Credo che lo stato di chiacchiera attorno a Ingeborg Bachmann abbia raggiunto livelli talvolta fastidiosi. Destino quasi normale, per le scrittrici e gli scrittori più celebrati. Tanto più se la loro morte resta avvolta nel mistero. Non so se questa impressione di eccessivo chiacchiericcio sia solo un problema accentuato dall'Italia, paese dove tra l'altro lei visse a lungo - senza capire perché, diceva - e dove morì in seguito ad un incendio sviluppatosi nella sua abitazione romana. Ovvio che a volte basterebbe abbassare il volume della chiacchiera, tapparsi le orecchie, per non provare troppi fastidi. Questo non è in realtà così facile in un mondo tristemente e invasivamente pettegolo come quello delle lettere e della scrittura. (Ci sarebbe anche un pettegolezzo meno triste, persino intellettualmente vivace, ma non è il caso nostro.) In questi casi mi sembra che l'antidoto migliore al fastidio sia tornare all'autore e al testo. Occasione diventa allora la nuova edizione delle Poesie rimessa in circolo da Guanda in questi giorni (traduzione e cura di Maria Teresa Mandalari, pubblicata per la prima volta già nel 1978 per lo stesso editore, pp. 164, euro 10). Il libro era già uscito anche in versione tascabile e ora ritorna in libreria con una nuova veste grafica. L'illustrazione di Guido Scarabottolo, firma di quasi tutte le copertine Guanda, lascia spazio a un ritratto fotografico dell'autrice virato in blu e un po' sfocato. Una piccola eccezione alla consuetudine grafica di Guanda, che per certi aspetti sottolinea il divismo che ancora preme a contornare la figura della scrittrice di Klagenfurt. Nella lettura tornavo in particolar modo alle poesie del suo primo libro, Die gestundete Zeit (Il tempo dilazionato), uscito la prima volta nel 1953. In realtà è noto che non sono poi molte le opere di poesia di quest'autrice se paragonate al corpo della sua opera. Bachmann sperimentò tra l'altro più forme di scrittura e, a mio avviso, in modo particolarmente riuscito quella legata al mezzo radiofonico (radiodrammi, corrispondenze). Più ancora delle poesie contenute nel successivo e assai più noto Invocazione all'Orsa Maggiore, ho trovato modo di soffermarmi proprio in quelle della raccolta d'esordio, dove si percorre uno stupore legato a elementi minimi quali il sole, la nebbia (saranno le giornate, ma l'ho notata di più quella sua nebbia), l'acqua (così presente anche nelle sue prose) e il loro disporsi in un piano (cartesiano?) di scrittura. Tra tutte ho scelto una poesia intitolata "I ponti". Mi è sembrata significativa per come raduna tanti motivi della sua scrittura a quell'altezza degli anni Cinquanta.
I ponti
Il vento tende la bandella davanti ai ponti.
Contro le traversine il cielo ha logorato
l'azzurro più fondo.
Da una parte e dall'altra le nostre ombre
mutano nella luce.
Pont Mirabeau... Waterloobridge...
Come fanno i nomi a sopportare
di portare gli anonimi?
Percossi dagli sperduti
che non sorresse la fede,
si svegliano i tamburi dentro il fiume.
Solitari sono tutti i ponti,
e la gloria è pericolosa per loro
come per noi, che presumiamo
di avvertire i passi degli astri
sopra la nostra spalla.
Ma sul declivio della caducità
nessun sogno ci inarca.
È meglio vivere affidati alle sponde,
ora all'una ora all'altra,
e di giorno vegliare
che stacchi la bandella il designato:
le cesoie del sole egli raggiungerà
nella nebbia, e se resterà abbacinato
lo avvolgerà la nebbia nella caduta.
Die Brücken
Straffer zieht der Wind das Band vor den Brücken.
An den Traversen zerrieb
der Himmel sein dunkelstes Blau.
Hüben und drüben wechseln
im Licht unsre Schatten.
Pont Mirabeau... Waterloobridge...
Wie ertragen’s die Namen,
die Namenlosen zu tragen?
Von den Verlornen gerührt,
die der Glaube nicht trug,
erwachen die Trommeln im Fluß.
Einsam sind alle Brücken,
und der Ruhm ist ihnen gefährlich
wie uns, vermeinen wir doch,
die Schritte der Sterne
auf unserer Schulter zu spüren.
Doch übers Gefälle des Vergänglichen
wölbt uns kein Traum.
Besser ist’s, im Auftrag der Ufer
zu leben, von einem zum anderen,
und tagsüber zu wachen,
daß das Band der Berufene trennt.
Denn er erreicht die Schere der Sonne
im Nebel, und wenn sie ihn blendet,
umfängt ihn der Nebel im Fall.
"pettegolo" :)
RispondiEliminanon ci avevo mai pensato
mi pare azzeccato, da quel che vedo è davvero un ambiente di chiacchiere, si riduce molto a questo... ciao marco
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