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domenica 7 febbraio 2016

Due poesie di Seamus Heaney nella traduzione di Marco Sonzogni

 
Accanto ai ratti di "al cor gentil ratto s'apprende" con le loro poesie inedite, compare un altro animale per nominare uno spazio dove si ospitano traduzioni di poesia: lo stregatto o Gatto del Cheshire di Lewis Carroll. Ratti e stregatti, insomma. Adotterò pregiudiziali e faziosi criteri per vagliare proposte di traduzioni, anche nei casi di lingue totalmente sconosciute come russo, coreano o giapponese (insomma, mi baserò su un traballante concetto di fiducia). Il gatto qui sopra è un particolare del dipinto "San Girolamo nello studio" di Antonello da Messina. Al di là delle molteplici simbologie e caratterizzazioni dei gatti, da Antonello a Carroll (Dante non è tornato utile stavolta perché un po' li snobba), qui proviamo a stregarvi con nuove traduzioni facendo le fusa. L'augurio è incoraggiare la traduzione poetica che un po' latita, anche nelle generazioni più giovani, e che qualche stregatto un giorno possa precipitare altrove, anche in un libro se capita.



Pubblico di seguito due poesie di Seamus Heaney tradotte da Marco Sonzogni, che ringrazio.

Testi tratti da Seamus Heaney, Opened Ground. Poems 1966-1996, London, Faber and Faber, 1998, p. 289 e p. 393.


VILLANELLA PER UN ANNIVERSARIO


Uno spirito si mosse, nel cortile passò John Harvard, 
l’ovest era inviolato, l’atomo ancora intero,
i libri erano aperti, i cancelli spalancati. 

Le mappe sognavano come polvere di luna. Nulla s’agitava. 
Verbo ibernato era il futuro.
Uno spirito si mosse, nel cortile passò John Harvard.

Quando stile classico e villetta di legno non erano ancora nati,
per tutte le ore piccole di un momento creatore,
i libri erano aperti, i cancelli spalancati. 

Passo notturno di un uccello migrante.
Battito d’ala. Schiocco di toga. Come un piccione viaggiatore
uno spirito si mosse, nel cortile passò John Harvard.

Era la sua anima (guarda) che a ricompensa s’involava
per grazia o per opere? Stella cadente? Segno premonitore?
I libri erano aperti, i cancelli spalancati. 

Ricomincia da dove erano ardui geli e prove. 
Ritrovati o va’ a fondo. Immagina ora 
uno spirito che si muove, nel cortile passa John Harvard,
i libri sono aperti, i cancelli spalancati.


(1986)


UNA TRASGRESSIONE 


Alle due ai ragazzi più grandi l’insegnante concedeva 
d’uscire a raccogliere qualche ramoscello
(millenovecentoquarantasei, anno miserello)
e anche se a me ancora non lo permetteva 

volevo uscire lo stesso. Un pomeriggio allora
alzai anch’io la mano 
con coloro che nella campagna liberamente vivevano 
e mi trovai libero e bello un’ora

prima del previsto, sotto un cielo sfilacciato 
e fuggitivo lungo la strada verso casa.
Se la “volta del cielo” ho mai compresa
essere quello sotto cui vivevo, è stato 

quel giorno in cui mentendo realizzai i miei desideri,
spaesato, impaurito da ciò 
che avevo osato 
essere prima del tempo. Il punto nero dove il fuoco degli zingari

aveva bruciato l’erba sul ciglio della strada, i cenci mossi dalla brezza
sulla siepe spoglia,
il freddo – mi passò subito ogni voglia.
Finì la gioia dell’evasione, si levò in volo una gazza 

e lasciò un vuoto che percorsi 
per scendere dalle nuvole 
nello sguardo dei miei genitori, io dubbioso del mio valore, 
e loro che mi conoscono e accettano con amore.


(1994)


VILLANELLE FOR AN ANNIVERSARY


A spirit moved, John Harvard walked the yard,
The atom lay unsplit, the west unwon,
The books stood open and the gates unbarred.

The maps dreamt on like moondust. Nothing stirred.
The future was a verb in hibernation.
A spirit moved, John Harvard walked the yard.

Before the classic style, before the clapboard,
All through the small hours of an origin,
The books stood open and the gates unbarred.

Night passage of a migratory bird.
Wingflap. Gownflap. Like a homing pigeon
A spirit moved, John Harvard walked the yard.

Was that his soul (look) sped to its reward
By grace or works? A shooting star? An omen?
The books stood open and the gates unbarred.

Begin again where frosts and tests were hard.
Find yourself or founder. Here, imagine
A spirit moves, John Harvard walks the yard,
The books stand open and the gates unbarred.


(1986)


A TRANSGRESSION


The teacher let some big boys out at two
                To gather sticks
(In scanty nineteen forty-six)
And even though I never was supposed to

I wanted out as well. One afternoon
I raised my hand
With those free livers off the land
And found myself at large an hour too soon

Under a raggedy, hurrying sky
On the road home.
If ever I felt ‘heaven’s dome’
Was what I lived beneath, it was that day

I lied myself into my own desire,
Displaced, afraid
At what I’d dared to be ahead
Of time. The black spot where the gypsies’ fire

Had charred the roadside grass, the rags that blew
On the stripped hedge,
The cold – it put me all on edge.
Escape-joy died, one magpie rose and flew

And left an emptiness I walked on through
To come down to earth
In my parents’ gaze, the whole question of worth,
And their knowledge that loved on without ado.


(1994)


NOTE DEL TRADUTTORE

Questa villanella è stata scritta su commissione per il trecentocinquantesimo anniversario della fondazione di Harvard College. Il 5 settembre 1986 Henaey partecipa ai festeggiamenti e legge questa poesia davanti a ventimila laureandi di Harvard University. Nel 1637, poco dopo avere conseguito laurea e master presso l’università di Cambridge (dove aveva potuto studiare grazie alle proprietà terreriere ereditate dalla madre, il cui padre aveva avuto rapporti di lavoro con il padre di Shakespeare), il ministro inglese John Harvard (1607-1638) emigrò con la moglie nella Nuova Inghilterra. Senza figli, con un lascito testamentario affidato oralmente alla moglie sul letto di morte, Harvard lasciò metà del proprio patrimonio (accumulato ereditando dal padre, dalla madre e dal fratello) e una copiosa biblioteca (più di trecento volumi) alla Newtowne School. La scuola era stata fondata due anni prima dal Massachussets Bay Colony con il preciso intento di istruire futuri ministri. Heaney ripercorre dunque tre secoli e mezzo di storia americana legandola a quella del college e del suo magnanimo benefattore. Il cortile (erboso) di cui parla il poeta, «Harvard Yard», è la parte più vecchia e centrale della prestigiosa università americana, di cui è diventato simbolo in tutto il mondo.

In queste quartine (abba) di giambi (due pentametri che racchiudono un dimetro e un tetrametro) Heaney narra una disavventura capitatagli da bambino: nel millenovecentoquarantasei – «anno miserello»: scarsità di combustile e black out – il poeta ha sette anni. Alla scuola di Anahorish, con una furbizia il piccolo Seamus riesce a unirsi ai compagni di scuola più grandi cui l’insegnante permetteva di uscire. finendo però per smarrirsi. L’esperienza è formativa e Seamus trova nell’affettuosa comprensione dei gentori non solo comprensione e perdono ma anche una “nuova” percezione di sé e del proprio discernimento.  

sabato 6 settembre 2014

Tradurre Seamus Heaney. Un'intervista con Marco Sonzogni in occasione dell'uscita di "Morte di un naturalista"

Librobreve intervista #46

Morte di un naturalista, il libro con cui il poeta e premio Nobel Seamus Heaney esordì nel 1966, esce in questi giorni per Mondadori all'interno della collana Lo Specchio (pp. 128, euro 17). La traduzione è di Marco Sonzogni, poeta e traduttore che mi risponde da Wellington dove vive e lavora e che per l'occasione ho il piacere di ospitare nuovamente in questo spazio, in veste di intervistato, commentatore e artefice della scelta dei testi che qui proporremo. Parleremo di Heaney e di questo importante esordio, di traduzione, dei rapporti di Heaney con l'Italia. E siamo in grado di offrire ai lettori, per gentile concessione della casa editrice, un paio di testi da questo volume freschissimo di stampa. Oltre all'intervistato ringrazio anche per la proficua e reattiva collaborazione Federico Napoli della casa editrice Mondadori.

LB: Prima ancora che la tua fatica confluisca nel Meridiano di Mondadori con l’opera poetica di Seamus Heaney, il lettore italiano avrà la possibilità di leggere a breve la tua traduzione di "Morte di un naturalista", il libro d'esordio del 1966 del premio Nobel nordirlandese morto lo scorso agosto. Che libro è? Cosa resta di questo esordio nel Seamus Heaney che verrà e in che cosa Heaney si distanzierà decisamente nella scrittura successiva?
R: Morte di un naturalista è un libro – volendo ricorrere a un solo aggettivo – pre-potente. Mi spiego. Segnala l’ingresso nel mondo della poesia di un autore nuovo e già maturo con un libro che è potente in sé e predice e prepara la piena potenza che troverà espressione nelle raccolte successive. Un libro di eclatante (e quasi spaesante) trasparenza: un libro che rivela. In esso, infatti, il poeta si conosce e ci aiuta a conoscerlo. In questo senso ogni poesia è un tassello prezioso con cui cominciare a comporre il puzzle di una figura straordinaria. Morte di un naturalista decreta la nascita di un uomo e di un autore che dal paesaggio (umano, animale, vegetale) della natia campagna nordirlandese ha tratto valori e coordinate esistenziali (sociali, culturali, politiche, religiose) che lo accompagneranno sia dal punto di vista umano che artistico (per questo ho scelto ‘Un avanzamento delle conoscenze’ e ‘Le prime purghe’ come testi rappresentativi). Inizia con questo libro un viaggio che si è prematuramente interrotto un anno fa con una raccolta, uscita postuma, di traduzioni pascoliane: L’ultima passeggiata.  

LB: "C'è qualcosa di nuovo oggi nel sole, / anzi d'antico: io vivo altrove, e sento / che sono intorno nate le viole." Heaney fu traduttore  di Giovanni Pascoli. In particolar modo ricordiamo la sua versione de "L'aquilone". Che cosa ricerca e cosa trova Heaney nel poeta di San Mauro?
R: Heaney ha trovato in Pascoli un compagno di campagna, se mi passi il gioco di parole – un’affinità umana prima ancora che poetica: un modo di vedere, di comprendere, di sentire le cose – e quindi un compagno di passeggiata. Quel ciclo di madrigali all’interno di Myricae è stato dunque un richiamo naturale e per questo poeticamente produttivo. Paolo Febbraro ed io ci siamo trovati a seguire lo sviluppo di questa raccolta, restando colpiti, appunto, dalla naturalezza con cui Pascoli era diventato Heaney: un incontro, quello tra Pascoli e Heaney, che illustra tutte le dimensioni della traduzione. 

LB: Tradusse anche altri poeti? E, al di là di questo, quali furono i poeti di cui Heaney scriveva spesso o i poeti dei quali magari ti parlava più spesso?
R: Heaney ha letto e tradotto Dante, e l’ombra lunga del sommo poeta avvolge tante poesie di Heaney, dagli anni ’70 fino alla fine. Heaney ha letto anche Leopardi e Montale, che non ha però tradotto – non nel senso letterale di traduzione. Alcune osservazioni, alcuni scarti epifanici per così dire, hanno, infatti, riflessi leopardiani (tanti poeti inglese e irlandesi del resto si sono confrontati in modo più o meno diretto con il poeta di Recanati); e le anguille che troviamo in Heaney sono anche di matrice montaliana, seppur mediate da quel poeta-traduttore tanto particolare quanto influente che è stato Robert Lowell.  

LB: Questa intervista appartiene a una serie che intendo dedicare ai traduttori. Tu vivi da tempo lontano dall'Italia. Che effetto ti fa tradurre e usare l'italiano, oltre che per ragioni quotidiane, per tradurre in poesia poeti che ami? Voglio dire, il fatto che tu viva lontano dall'Italia ha qualche riverbero sul modo in cui traduci e senti la lingua che usi?
R: Non ho mai preso per scontata la mia lingua madre. Quindi anche dopo più di vent’anni lontano dall’Italia, continuo, per così dire, a ri-scoprirla e ri-impararla, soprattutto attraverso la poesia – non solo le voci consacrate dalla tradizione ma anche quelle di oggi. L’esempio di altri traduttori (sono tanti quelli che si sono cimentati con la poesia e la prosa di Heaney) mi ispira e mi incoraggia sempre:  ci sono sempre tante cose da imparare e da migliorare. Ma i momenti più gratificanti sono stati quelli che ho vissuto attraverso la revisione. La generosità e la fiducia di Seamus Heaney, la sua incredibile pazienza e umiltà, mi hanno illuminato e guidato. E così la competenza e l’esperienza di Anna Ravano, che mi ha accompagnato oltre i miei limiti di traduttore. La traduzione richiede in primis umiltà – è, after all, un atto di servizio: tanto al testo originale quanto a chi a quel testo originale non ha accesso. 

LB: C’è un poeta che sogni di tradurre? E un romanziere?
R: Tradurre la poesia Seamus Heaney era un sogno che avevo dal momento in cui lessi una delle sue prime poesie dedicata ai trattori. Delle sue dodici fatiche – “twelve labours”, così Seamus si riferiva alle raccolte di poesia– in italiano mancano solo Wintering Out (1972) e Field Work (1979). Mi piacerebbe tradurre questi due libri. Ma il sogno si è avverato, e non voglio passare per ingordo o ingrato. Chamber Music di Joyce è un libro che mi ha sempre intrigato. E uno di questi giorni cercherò di tradurre gli haiku (Inchicore Haiku) dell’irlandese Michael Hartnett – persona e poeta di grande integrità e talento. Con così tanta poesia non avrei tempo per un romanzo: lasciamo allora la porta aperta a un’altra intervista.

An Advancement of Learning


I took the embankment path
(As always, deferring
The bridge). The river nosed past,
Pliable, oil-skinned, wearing

A transfer of gables and sky.
Hunched over the railing,
Well away from the road now, I
Considered the dirty-keeled swans.

Something slobbered curtly, close,
Smudging the silence: a rat
Slimed out of the water and
My throat sickened so quickly that

I turned down the path in cold sweat
But God, another was nimbling
Up the far bank, tracing its wet
Arcs on the stones. Incredibly then

I established a dreaded
Bridgehead. I turned to stare
With deliberate, thrilled care
At my hitherto snubbed rodent.

He clockworked aimlessly a while,
Stopped, back bunched and glistening,
Ears plastered down on his knobbled skull,
Insidiously listening.

The tapered tail that followed him,
The raindrop eye, the old snout:
One by one I took all in.
He trained on me. I stared him out

Forgetting how I used to panic
When his grey brothers scraped and fed
Behind the hen-coop in our yard,
On ceiling boards above my bed.

This terror, cold, wet-furred, small-clawed,
Retreated up a pipe for sewage.
I stared a minute after him.
Then I walked on and crossed the bridge.


Un avanzamento delle conoscenze


Presi il sentiero lungo l’argine
(come sempre, schivando
il ponte). Il fiume correva annusando,
flessuoso, impermeabile, coperto

da una decalcomania di facciate e di cielo.
Curvo sulla ringhiera,
ormai lontano dalla strada
osservai i cigni dalla chiglia sporca.

Qualcosa sciaguattò, brusco, vicino,
sbavando sul silenzio: un ratto
sgusciò viscido dall’acqua e
la nausea mi salì in gola così di colpo che

ripiegai lungo il sentiero sudando freddo
ma, Dio, un altro svelteggiava
su per l’argine opposto, tracciando i suoi archi
bagnati sui sassi. Incredibilmente allora

stabilii una temuta
testa di ponte. Mi girai a fissare
con meditata, fremente attenzione
il mio roditore fin lì snobbato.

Girò a vuoto su se stesso per un poco,
si fermò, rinsaccato e luccicante,
le orecchie appiattite sul cranio nocchiuto,
insidiosamente in ascolto.

La coda affusolata che lo seguiva,
gli occhi gocce di pioggia, il vecchio muso:
uno alla volta presi atto di tutto.
Mi puntò. Ressi la sfida e la vinsi

dimentico del panico che mi prendeva sempre
quando i suoi grigi fratelli grattavano e mangiavano
dietro al pollaio nel nostro cortile,
sulle assi del soffitto sopra il mio letto.

Quel terrore, freddo, il pelo bagnato, i piccoli artigli,
ripiegò su per un tubo delle fogne.
Stetti a guardarlo un altro istante.
Poi mi rimisi in cammino e attraversai il ponte.


The Early Purges


I was six when I first saw kittens drown.
Dan Taggart pitched them, ‘the scraggy wee shits’,
Into a bucket; a frail metal sound,

Soft paws scraping like mad. But their tiny din
Was soon soused. They were slung on the snout
Of the pump and the water pumped in.

‘Sure isn’t it better for them now?’ Dan said.
Like wet gloves they bobbed and shone till he sluiced
Them out on the dunghill, glossy and dead.

Suddenly frightened, for days I sadly hung
Round the yard, watching the three sogged remains
Turn mealy and crisp as old summer dung

Until I forgot them. But the fear came back
When Dan trapped big rats, snared rabbits, shot crows
Or, with a sickening tug, pulled old hens’ necks.

Still, living displaces false sentiments
And now, when shrill pups are prodded to drown,
I just shrug, ‘Bloody pups’. It makes sense:

‘Prevention of cruelty’ talk cuts ice in town
Where they consider death unnatural,
But on well-run farms pests have to be kept down.


Le prime purghe


Avevo sei anni la prima volta che vidi affogare dei gattini.
Dan Taggart li lanciò, “stronzetti tutt’ossa”,
dentro un secchio; un fragile suono metallico,

soffici zampe che graffiavano all’impazzata. Ma il loro minuscolo chiasso
fu presto affogato. Li appese al muso
della pompa e pompò l’acqua.

«È meglio così per loro, no?» disse.
Come guanti bagnati sobbalzarono lucenti finché lui li rovesciò,
acqua e tutto, sul letamaio, lustri e morti.

Di colpo impaurito, per giorni gironzolai triste
nel cortile, osservando i tre resti mollicci
diventare farinosi e croccanti come vecchio letame estivo

finché me li dimenticai. Ma la paura ritornava
quando Dan catturava grossi ratti, acchiappava conigli, sparava ai corvi
o, con uno strattone nauseante, tirava il collo alle galline vecchie.

Comunque, vivere rimuove i sentimentalismi
e adesso, quando striduli cuccioli sono spinti sott’acqua,
alzo solo le spalle, “Maledetti cuccioli”. Ha senso:

“Protezione degli animali” sono parole che fanno presa in città
dove la morte è ritenuta innaturale,
ma nelle fattorie ben gestite i parassiti vanno contenuti.


Per gentile concessione di:
Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano

Tratto da “Morte di un naturalista” di Seamus Heaney – traduzione di Marco Sonzogni
© 2014 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.
© Seamus Heaney, 1966, 1991

mercoledì 25 settembre 2013

Marco Sonzogni ci racconta "La speranza di pure rivederti...": Irma Brandeis e Eugenio Montale in un libro di Archinto

Librobreve intervista #25

Marco Sonzogni
Le mie domande lo raggiungono a Wellington, in Nuova Zelanda dove insegna, nel bel mezzo di un lavoro febbrile di revisione. Sarà sua infatti la cura e traduzione del Meridiano di Seamus Heaney in uscita per Mondadori nel 2014. E non potrebbe essere diversamente. Marco Sonzogni mi scrive che ha sentito il grande poeta nordirlandese pochi giorni prima che morisse, lo ricorda come maestro nella vita e anche nella morte. Nelle risposte che seguono però parla anche di come ha accolto la notizia, in preghiera, diversamente dalle troppe persone che "sono subito corse a raccontare su carta stampata e online quanto bene lo conoscevano, dove avevano mangiato e bevuto con lui". Lo distolgo però per qualche attimo da Heaney (anche se non dal dolore) per poi farci ritorno con l'ultima domanda di questa intervista. In Italia è da poco uscito per Archinto un suo lavoro intitolato La speranza di pure rivederti... Clizia, Montale e l'impossibilità di dirsi addio (pp. 83, euro 12). Sento di doverlo ringraziare ancora, da queste poche righe introduttive, per l'intervista che leggerete, forse la più bella che ho sin qui pubblicato (siamo alla 25esima, forse sto esagerando, ma mi rendo conto che le interviste attorno ai libri brevi sono un bel sistema per lasciare spazio ad altre voci, risparmiarvi la mia e per risparmiare a me tempo). Sono certo vi catturerà e vi inietterà il desiderio della rilettura, sia delle risposte, sia dei testi di cui qui si parla.


Il libro pubblicato
da Archinto
LB: Potresti tratteggiare per i lettori le scosse principali della vicenda umana Montale-Brandeis? Se sappiamo bene o male chi è e cosa ha scritto Montale, possiamo sapere da te, brevemente, chi è Irma e come incontra Eugenio?
RISPOSTA: Sono le scosse “normali” che scandiscono le vicende umane di un uomo e di una donna che si innamorano, vorrebbero stare insieme, ci provano, ma alla fine per una ragione o per un’altra, non ci riescono. Nel caso di Irma e di Eugenio, come per tutti, la prima scossa è senz’altro quella del primo incontro, del famigerato colpo di fulmine, nel luglio del 1933, a Firenze. Eugenio Montale non ha la più pallida idea di chi sia questa giovane, colta e affascinante americana di nome Irma Brandies che chiede di incontrarlo (lui è direttore del prestigioso Gabinetto Vieussuex, che lei frequenta). Lei invece sa già abbastanza di lui: gliene hanno parlato Gino Bigongiari (con cui ha una relazione piuttosto complessa) e Leo Ferrero (anche con lui ha una breve relazione), da cui riceve una copia di Ossi di seppia (quella stampata da Carabba nel 1931, quindi la terza edizione) che subito divora. La lettura instiga il desiderio di conoscere personalmente l’uomo che ha scritto poesie così belle: e se da un punto di vista estetico Eugenio non fa certo colpo su Irma, da un punto di vista poetico e intellettuale tra i due si instaura un legame che è subito forte, profondo, necessario ma anche difficile, problematico – un oceano di distanza li separa per buona parte dell’anno, colmato all’inizio da una corrispondenza fittissima, e poi un mare di problemi (soprattutto di Montale) piano piano li separerà per sempre. La seconda scossa è sicuramente la scoperta da parte di Irma – inquivocabilmente solo nel 1935, dopo due anni, quindi, di sentimenti, speranze e progetti – che Montale è legato a un’altra donna, quella che lei continuerà a chiamare “X”: la Mosca, Drusilla Tanzi Marangoni. Valgono poco le tardive spiegazioni di Montale: sarebbero anche state, in un certo senso, comprensibili, ma l’averle taciute non lo mise in buona luce, diciamo così. La terza scossa è il mancato incontro quando Montale si reca negli USA a bordo del volo inaugurale Roma-New York nell’estate del 1950. Di questa occasione persa ci restano solo ricordi avvolti in parte nel mistero e sui quali dubito si possa arrivare a mettere la parola fine. Certo è che Montale, nelle poche ore in cui si trova nella Grande Mela, telefona a un’amica, sua e di Irma, Giovanna Calastri (la stessa che gli telefona nei versi di Una musa oltreoceano) ma non ha il coraggio di chiamare Clizia – o meglio, fa il numero ma poi riattacca. Chissà perché (soprattutto per poi raccontare l’accaduto a Irma in un biglietto purtroppo andato perso). La quarta scossa, silenziosa, è la morte della Mosca – con lei in vita Irma, che in Italia di tanto in tanto faceva ritorno (per esempio va a fare la volontaria in occasione dell’alluvione di Firenze del 1966), non aveva mai cercato di riallaciare i contatti con Montale. La quinta e ultima scossa – dopo le crescenti attenzioni che gli studiosi (in particolare Luciano Rebay e Glauco Cambon) riversano su di lei, a volte con irrispettosa insistenza, soprattutto a seguito dell’assegnazione a Montale del Premio Nobel per la Letteratura – è la pubblicazione dell’edizione critica dell’Opera in versi di Montale nel dicembre del 1980. Irma riceve una copia con la dedica di uno dei due curatori, Gianfranco Contini, e un biglietto quasi illeggibile dello stesso Montale, che le dice di considerarla ancora la sua divinità, e le chiede quando e come si sarebbero riincontrati. Siamo nel giugno del 1981. Da quel momento, con la mediazione di amici “di lunga fedeltà”, Irma ed Eugenio cercano di riincontrarsi per guardarsi negli occhi un’ultima volta, mezzo secolo dopo il loro primo incontro. Ma il 13 settembre, quando Irma sta per mettersi in viaggio alla volta di Milano, Cambon le telefona per dirle che Montale è morto.

LB: Quando nasce e come prende forma il progetto di questo libro pubblicato da Archinto e dedicato al rapporto tra Montale e Clizia, l’ispiratrice del sesto mottetto de Le occasioni dal quale è stato preso il titolo del volume? A tuo sentire, il costrutto celeberrimo di “visiting angel” tiene ancora bene con il passare degli anni o forse andrebbe rivisto dalla critica?
RISPOSTA: Nel 1999, grazie alla mediazione dell’amico Bill Weaver, che era Irma Brandeis Professor of Literature a Bard College, sono entrato in contatto con Jean Cook, amica ed esecutrice letteraria di Irma Brandeis. Ci siamo sentiti per email e per telefono, per qualche anno, e poi ci siamo conosciuti di persona: prima a Dublino, dove io abitavo e dove lei aveva accompagnato una scolaresca, e poi a New York (sto per tornarci tra poche settimane, proprio per parlare di questo libricino alla Fordham University e per rivedere Jean e altri amici newyorkesi). Un rapporto di amicizia e di fiducia subito forte e trasparente: a me, come a lei, premeva far conoscere la storia di Irma Brandeis – quella di Clizia l’aveva già raccontata in versi Montale; e dalle lettere di Montale a lei, pubblicate nel 2006, di Irma non emerge più di tanto. In tutti questi anni, quindi, ho avuto modo di studiare le carte di “I.B.”: lettere, diari, traduzioni, racconti, studi accademici – e, allo stesso tempo, parlare con persone che l’avevano conosciuta. Così è stato quasi come averla conosciuta anch’io e spero, con i miei lavori, di aver contribuito a far conoscere una donna il cui valore umano e intellettuale va ben oltre quello di musa montaliana... Quindi, se si vuole davvero capire e apprezzare chi è stata Irma Brandeis, non solo la definizione di salfivico visiting angel – perfettamente legittima, con l’intercessione di Beatrice e Laura – ma anche il nome stesso “Clizia” – scelto per Brandeis da Montale sempre sulla scia del poeta sommo, come ha chiarito Contini – vanno ad un certo punto messi da parte. Del resto Irma stessa, ormai vecchia ed esasperata, ha cercato di liberarsi, una volta per tutte, delle responsabilità mitopoietiche di cui l’ha investita Montale.

LB: Nel libro trovano spazio materiali inediti? Da dove provengono e come li hai montati nel tuo discorso?
RISPOSTA: In tutti i miei scritti su Montale e Brandeis ho presentato carte inedite. In questo caso di stratta di tre lettere – due di Gianfranco Contini e una di Cesare Vivante – e di fogli sparsi con prove di traduzione di poesie di Montale. Come tutte le altre carte che ho studiato e pubblicato anche queste sono in possesso di Jean Cook. Credo fermamente nell’autorità del documento: la mia lettura e le mie interpretazioni sono quindi state costruite intorno a queste carte. Sono loro a parlare, io ho fatto solo da tramite.

The Ladder of Vision,
il saggio su Dante
di Irma Brandeis
LB: Qual è stata per te la cosa più bella, la scoperta più emozionante nella scrittura di questo libro?
RISPOSTA: Sicuramente la lettera di Cesare Vivante, trovata quasi per caso in un folder gonfio di fogli e ritagli di giornale che non promettevano niente di interessante (tra l’altro era l’ultimo faldone che mi era rimasto da scartabellare e non so proprio spiegarmi come sia finita lì). E poi l’incontro con Cesare (e sua moglie Mirella), a Milano: un momento davvero emozionante e commovente. L’affettuosa accoglienza affetto, il nitido ricordo di Irma e di Montale nella casa dei genitori, Leone e Elena Vivante, a Villa Solaia, in Toscana, e poi il ricordo della figlia, Elena anche lei, tragicamente morta giovane, inseguendo l’amore... Tra le carte mi ha sicuramente colpito anche la testimonianza – in poche lucide righe manoscritte – del triangolo in cui Irma finì suo malgrado a trovarsi: lei, lui (Montale) e l’altra (la Mosca), e la risoluzione del dispiacere per quanto successo affidata a Dante.

Irma e i gatti...
LB: La speranza di pure rivederti... titola il libro. Il mottetto si chiude con quei tre versi tra parentesi del servo gallonato tra i portici a Modena. Per me è sempre stata una delle immagini più nitide di Montale. Ci parli un po’ proprio del Mottetto VI?
RISPOSTA: È stato scritto tanto su queste due bestiole. Montale stesso, camuffato da Mirco, ha raccontato la cosa e credo che in questo caso gli si possa credere. Altri hanno poi confermato (appartenevano a un tizio di Modena ma questo tipo di dettaglio, poeticamente, conta poco o nulla). A Irma piacevano gli animali, i gatti soprattutto, ma anche quelli meno comuni, come appunto i due sciacalli portati a spasso dal servo gallonato sotto i portici di Modena. Ci sta quindi che siano un suo senhal. Ho provato a frugare nella simbologia dello sciacallo – animale che nella cultura occidentale ha un pedigree non troppo positivo. Qualche traccia interessante l’ho trovata, e l’ho seguita, coinvolgendo mezzo mondo, con il conforto di una foto davvero intrigante, ma per ora non ho trovato prove sufficienti a validare un’interpretazione alternativa. Un giorno forse ne scriverò comunque – magari ne esce un racconto piuttosto che un saggio critico. Vediamo. Tornando al mottetto: credo che il titolo dica tutto. Eugenio si sta già rassegnando a perdere Irma – in un certo senso la perde ogni volta che la vede ripartire per gli Stati Uniti. Lo strappo sarà anche, come da tradizione, poeticamente fertile, ma umanamente parlando Montale soffre come ognuno soffrirebbe nel doversi separare dalla persona amata. L’amor de lonh, per dirla con Jaufré Rudel, ha senso e tiene fino a un certo punto: insomma, le poesie non bastano e infatti Irma vuole di più e quando si rende conto che le cose non sarebbero mai cambiate, mette fine alla relazione. Detto questo, mi ha sempre colpito, fin dalla prima volta che ho letto questo mottetto, il presentimento di Montale – sentiva che ogni saluto, come presto sarebbe stato, poteva essere l’ultimo. È come se, in un certo senso, avesse rimosso anche la possibilità della speranza. Un mottetto in momentanea absentia di lei che prelude, anzi annuncia, la sua absentia definitiva – quasi fosse inevitabile.

Il giovane 
Seamus Heaney
LB: Sei reduce da un ciclopico lavoro di traduzione da Heaney in uscita tra qualche mese nei Meridiani Mondadori. In questo libro si sviluppa invece un appassionato inseguimento montaliano. Se mi passi il termine scolastico di “collegamenti”, quali “collegamenti” faresti tra poeti lontani nello spazio e nei tempi come Seamus e Eugenio?
RISPOSTA: Il lavoro ciclopico – come lo hai giustamente descritto tu, e non solo per me ma per tutti quelli coinvolti in un progetto come questo – si era concluso il 26 agosto in vista della pubblicazione per il 75° compleanno del poeta nell’aprile del 2014. Ma pochi giorni dopo, la mattina del 30 agosto, Seamus se ne è andato per sempre. Ti confesso che stato un colpo durissimo, e che mi ci vorrà tanto tempo a smaltire anche se, te lo dico sinceramente, non mi ha colto del tutto di sorpresa. Ora il lavoro ciclopico si è raddoppiato: i cantieri del Meridiano sono stati riaperti per accogliere traduzioni e commenti a tutta l’opera in versi di Heaney, inclusa una sezione di inediti (due poesie giovanili, due poesie recenti e due traduzioni completate pochi giorni prima della morte). Sarà il modo migliore di ricordarlo. Anche se lo conosco, lo leggo e lo studio da più di 20 anni ho preferito restare in silenzio, e in preghiera, pensando a Marie, Michael, Christopher e Catherine Ann. Troppe persone sono subito corse a raccontare su carta stampata e online quanto bene lo conoscevano, dove avevano mangiato e bevuto con lui, quante volte lo avevano incontrato o gli avevano parlato, cosa di lui avevano letto, scritto o tradotto (c’è addirittura chi ha ristampato le proprie traduzioni il giorno stesso della morte) – finendo per parlare più di se stessi che di lui. Ma anche in questo forse inevitabile karaoke dell’ego c’è del giusto e del bello: Seamus sapeva toccare tutti, già al primo sguardo, e lo tsunami di testimonianze da ogni parte del pianeta e da ogni fascia sociale e professionale ha dato conto del segno lasciato da un uomo e da un poeta straordinario, e del vuoto che dobbiamo ora accettare, colmandolo almeno in parte con la sua opera in versi e in prosa.
Mi chiedi di Montale e Heaney. Sono due poeti molto diversi – già per nascita (e non mi riferisco alle condizioni delle rispettive famiglie, per altro diverse anche quelle): uno nasce in riva al mare l’altro nel cuore della terra. Ecco, paradossalmente, quello che forse più li accomuna risiede proprio in questa differenza, per così dire, topografica: entrambi partono, umanamente e poeticamente, dal paesaggio che li circonda e che ne determina le coordinate esistenziali ed intellettuali. La strada della poesia che intraprendono, e che porta entrambi a Stoccolma, segue poi percorsi piuttosto diversi, ma qualche intersezione c’è. Montale muore (1981) poco prima che Heaney raggiunga una notorietà mondiale – anche se la fama del poeta nordirlandese è in rapida crescita dopo che Helen Vendler (Harvard University) ne recensisce la quarta raccolta, North (1975, l’anno in cui a Montale è assegnato il premio Nobel per la Letteratura), sul «New York Review of Books». L’incontro più significativo tra i due poeti è quello nel segno l’anguilla, animale che Heaney conosceva bene (il padre della moglie gestiva un pub ad Ardboe, sulle rive di Lough Neagh, in Irlanda del Nord, frequentato da pescatori di anguille, con cui aveva anche rapporti di lavoro, e che Heaney stesso ebbe modo di frequentare). La traduzione della poesia montaliana (una versione, per altro, ai limiti della riscrittura, secondo me neanche troppo convincente) da parte del poeta americano Robert Lowell – che il poeta nordirlandese ammirava, ricambiato – ha messo in moto qualcosa nell’immaginazione di Heaney, che ci ha a sua volta lasciato due bellissime poesie incentrate sull’anguilla: ‘A Lough Neagh Sequence’ (‘Sequenza di Lough Neagh’), nella seconda raccolta (Door into the Dark, 1969) e, trent’anni dopo, ‘Eelworks’ (‘Anguilleria’), nella dodicesima e ultima raccolta (Human Chain, 2010). Heaney ha letto Montale, non soltanto l’opera in versi ma anche i suoi scritti in prosa. E poi il titolo che Heaney aveva scelto per la Frank Kermode Lecture che avrebbe tenuto a Londra il prossimo novembre la dice lunga: “The Second Life of Art” – è il titolo di un saggio di Montale del 1949 pubblicato sul «New York Review of Books» nel 1981 nella splendida traduzione di Jonathan Galassi (incluso con altre prose nel volume eponimo pubblicato presso i tipi newyorkesi di The Ecco Press l’anno successivo). Solo per dire che i grandi poeti sono sempre in dialogo, in un modo o in un altro, indipendentemente dal fatto che si siano incontrati, sulla pagina o di persona.

venerdì 30 agosto 2013

Crediting Poetry. L'imballatrice di Seamus Heaney

Seamus Heaney (1939-2013)
Strano, straniamento. Proprio durante la settimana mi sono trovato a stampare dal sito della Fondazione Nobel il discorso che Seamus Heaney tenne in occasione della consegna del massimo premio, nel 1995. Lo trovate (si fa per dire, visto che il libro è fuori catalogo) anche in traduzione in un volumetto curato da Marco Sonzogni per Archinto nel 1997 e intitolato Sia dato credito alla poesia. (Lo stesso Sonzogni è il traduttore dell'opera di Heaney per i Meridiani Mondadori, programmata in uscita il prossimo anno.) Credo si potrebbe comporre un libro-antologia con i vari discorsi dei poeti premiati con il Nobel. Forse già esiste altrove. Ne uscirebbe, quasi sinotticamente, una qualche idea di poesia, in contrappunto alle opinioni fiacche che spesso ascolto oggi. Tali "prolusioni" invece risiedono in pubblicazioni isolate, oppure online, oggi, per chi è disposto a pescarle da quegli archivi. Vi ho spesso trovato spunti notevoli. Anche quello di Montale o quello di Wisława Szymborska, a mio avviso, restano discorsi importanti, come Crediting Poetry di Heaney, che vi consiglio, caldamente, come il caldo buono di questo esodo (non controesodo) dell'estate.


Di Heaney, in Italia, è recentemente uscito un libro breve per un editore interessante come Tre Lune (un catalogo da tenere sott'occhio). Si intitola Virgilio nella Bann Valley (pp. 104, euro 13, a cura di Giorgio Bernardi Perini e Chiara Prezzavento) e rappresenta, volendo tirare un po' lo sguardo, un inedito e bell'incrocio tra il grande irlandese e il nostro Zanzotto, all'insegna di Virgilio. Il volume rimanda alla traduzione della Bann Valley Eclogue (già in Electric Light assieme all'altro testo virgiliano intitolato Virgil: Eclogue IX) e contiene contributi saggistici inediti disparati, tutti confezionati per un'occasione importante, quale fu la consegna del "Premio Internazionale Virgilio" avvenuta Mantova nel 2011. Anche la presenza di Virgilio, trasversale, in sincronia e diacronia, potrebbe essere oggetto di un qualche studio. A me interesserebbe leggere qualcosa di simile, detto in altre parole. Credo che questo piccolo libro, uscito un paio di mesi fa, diventi ora, a pochi istanti dalla notizia della morte del poeta, un bell'omaggio, proprio quando in Italia, nel frattempo, cresce anche l'attesa per la traduzione "integrale" di Marco Sonzogni.


L'ultima traduzione di peso pubblicata sinora in italiano rimane quella di Human Chain (Catena umana, Mondadori, 2011). Ne ho già accennato, in uno dei primissimi post di questo blog. Con questo libro Mondadori aveva avviato tra l'altro una nuova veste grafica per la collana Lo Specchio e pubblicato quattro bei (anche se orribili nel formato e nella carta) volumi di poeti "giovani" (Bernini, Carabba, Pellegatta e Ponso). La traduzione, come nel caso di Electric Light, era stata affidata a Luca Guernieri, dopo anni in cui il lettore italiano aveva conosciuto la poesia e le prose di Heaney nelle versioni dell'amico Massimo Bacigalupo o di Roberto Mussapi. Di questo libro pesco un testo soltanto. Come si legge anche in Virgilio nella Bann Valley, a volte non sono importanti "molti testi". A volte, per ciascuno di noi, basta il senso del trascolorare di pochi testi nell'arco di una vita. La mia scelta cade allora su The Baler, una poesia che mi riporta molto indietro, alle balle di fieno della mia infanzia, anche se quelle erano parallelepipedi e non cilindri come queste irlandesi di Heaney o quelle che troviamo ormai ovunque anche nei nostri paesi. La traduzione è mia. Ce l'avevo, quasi pronta.

L'imballatrice

Il rumore di un'imballatrice tutto il giorno
senza sosta, monotonia cardiaca,
dato per scontato

al punto che arrivò la sera prima
che capissi cosa stavo ascoltando
e perdendo: le ore più piene dell'estate

come erano trascorse dal principio,
sollevate dalla forca, solcate di sudore
e quasi ricompensate quanto basta

dal trotto di un trattore in corsa
sul finire del giorno
all'ultimo giro del campo di fieno.

Ma quello che ricordai anche,
mentre i colombacci corteggiavano al bordo
di trenta acri spigolati

e io stavo a inspirare il fresco
in un eldorado crepuscolare
di possenti balle cilindriche,

furono le parole di Derek Hill,
l'ultima volta che sedette al nostro tavolo:
non ce la faceva più a guardare

la discesa del sole
e chiese se per favore poteva
essere messo con le spalle alla finestra.


The Baler

All day the clunk of a baler
Ongoing, cardiac-dull, 
So taken for granted

It was evening before I came to
To what I was hearing
And missing: summer's richest hours

As they had been to begin with,
Fork-lifted, sweated-through
And nearly rewarded enough

By the giddied-up race of a tractor
At the end of the day
Last-lapping a hayfield.

But what I also remembered
As woodpigeons sued at the edge
Of thirty gleaned acres

And I stood inhaling the cool
In a dusk eldorado
Of mighty cylindrical bales

Was Derek Hill's saying, 
The last time he sat at our table,
He could bear no longer to watch

The sun going down
And asking please to be put
With his back to the window.

martedì 5 aprile 2011

Quattro libricini di giovani poeti al traino di un Nobel?


Nessuna recensione stavolta, solo la notizia di un'uscita multipla di "libri brevi". Sotto l'ombrello del più noto marchio editoriale di poesia, Lo Specchio Mondadori, vengono proposti quattro libricini di autori abbastanza giovani. L'occasione è duplice: la giornata mondiale della poesia Unesco (21 marzo) e la rinnovata veste grafica della collana mondadoriana, tenuta a battesimo da Catena umana del premio nobel Seamus Heaney. I nomi sono quelli di Fabrizio Bernini (L’apprendimento elementare), Carlo Carabba (Canti dell’abbandono), Alberto Pellegatta (L’ombra della salute) e Andrea Ponso (I ferri del mestiere).

L'operazione è curiosa: quattro piccoli libri di autori "non consacrati" vengono proposti in un formato fin troppo “veloce” (nelle copie in mio possesso sembra che la stampa sia stata fatta in "qualità bozze") e viene sperimentata l'alchimia che nasce tra i loro nomi, noti forse soltanto nella cerchia degli addetti ai lavori, e quello che abbiamo appunto definito il più importante riferimento editoriale per la poesia. Se l'operazione della casa di Segrate è curiosa, dal punto di vista imprenditoriale parte del rischio pare assorbita dalla sponsorizzazione di un megabrand del lusso (trattasi di penne, quasi a marcare un collegamento, tutto da verificare, tra poesia e scrittura a penna o tra lettori di poesia e potere d'acquisto elevato) e dal formato economico dei libricini (tipo di carta, cucitura con due punti metallici piani). Il formato insomma ricorda da vicino i fascicoletti con il primo capitolo di un romanzo che si trovano solitamente in omaggio alle casse delle librerie (si chiamano teaser?) e comporta per il libraio la necessità dell'esposizione "di copertina" (e qui saranno necessari i vecchi elastici in stile Feltrinelli, altrimenti questi libretti cadranno da tutte le parti).

Mi rendo conto che queste righe assomigliano troppo a delle note di marketing editoriale relative al più difficile e meno commerciale dei generi (ma anche di questo luogo comune bisognerebbe parlare). Tuttavia ho deciso di impostarle appositamente in questi termini. Se la bontà dei quattro libri non è messa in discussione, se la volontà di far circolare più poesia e "testare il mercato" con simili esperimenti può essere salutata positivamente (sarebbe interessante però conoscere qualche dato sulle performance di questi libricini), ci si deve chiedere se tale pubblicazione non meritasse maggiore contestualizzazione, che la facesse comparire come qualcosa di diverso da quella che, sempre nell'antipatico glossario marketing, potrebbe sembrare un’operazione one-shot o comunque un appuntamento annuale. Nella situazione critica in cui versa la poesia (abbondanza di offerta, scarsità di attenzione, standardizzazione delle modalità in cui se ne parla, anche da parte di noti critici, immagine del poeta troppo lessa e... "poetica"), editore e collana funzionano ancora come antenne, anche se sono in molti a credere che negli ultimi anni siano usciti libri di valore quantomeno dubbio sia per la "Bianca Einaudi" sia per "Lo Specchio".

Forse, anche per questo grumo di difficoltà, arriva la nuova veste grafica de Lo Specchio e i quattro libretti in questione servono per creare familiarità con questo salto grafico che sembra tornare alle origini: autore, titolo, il genere “poesia” scritto apertamente in copertina, nome dell'editore e recupero della rosa mondadoriana di Francesco Pastonchi. Virata da leggersi come un ritorno al binomio parola-colore in qualità di cardine dell'identità visiva della collana oppure come necessità di “tirare” sul budget di produzione, risparmiando sui diritti di utilizzo di eventuali immagini?

Sembrerà strano, ma tutte queste righe noiose, scritte immaginando il punto di vista degli editori di poesia e del loro benemerito operato, vorrei concluderle con un'esortazione: riprendiamoci la poesia! Noi. Chi la fa e chi ama leggerla. E guardiamola con occhi asciutti, iniziamo a parlare senza pudore di editor di poesia (andate a vedere cosa fece Ezra Pound a The Waste Land di Eliot). In questo modo anche gli editori avrebbero vita più semplice nel fare il loro mestiere.