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lunedì 18 marzo 2013

Walter Siti e "Il realismo è l'impossibile"

Ben venga un nuovo contributo critico su quella parola-chiave della letteratura che è "realismo". E tanto più se a scriverlo è una figura emblematica per la storia di questo "lemma", qual è Walter Siti, il quale già in passato aveva disseminato la parola in titoli di altri suoi studi, come in Il neorealismo nella poesia italiana (1941-1956) del 1980 o Il realismo dell'avanguardia del 1973. Ora Nottetempo manda in libreria nella collana "gransassi" un libretto smilzo dal titolo Il realismo è l'impossibile (pp. 81, euro 6) che affonda la sua origine in un contributo recente al Festival della Mente di Sarzana. Dico smilzo perché il tema è solitamente uno di quelli che fanno versare fiumi e fiumi di inchiostro, basti pensare al monumentale e imprescindibile Mimesis di Auerbach o alle non meno abbondanti dissertazioni d'area marxista che solitamente si coagulano attorno alla pietra miliare di Lukács. Nella mia storia, il realismo mi fa ripiombare ai primi approcci, timidi e faticosi, coi romanzi di Pasolini, del quale il nostro è oggi il più noto studioso. E ho ricordi di un certo insistere sul "particolare", sul "dettaglio" in ogni discussione che rinvii al realismo. Così avviene anche in Siti, ad esempio quando scrive di realismo come antiabitudine o "leggero strappo, il particolare inaspettato, che apre uno squarcio nella nostra stereotipia mentale", laddove "la nostra enciclopedia percettiva non fa in tempo ad accorrere per normalizzare".

Ma procedo con ordine e cerco di essere, pure io, breve. Il titolo del saggio subito mette in guardia dalla grande vulgata che porta fino all'oggi. Il realismo non è quello che a tutti, anche ai più esperti, potrebbe venire in mente quando pronunciamo quella parola. Non è una riproposizione fedele della realtà. Dopo tanti studi sul realismo, Siti arriva persino a formulare una definizione sintetica che vede nel realismo "quella postura verbale o iconica (talvolta casuale, talvolta ottenuta a forza di tecnica) che coglie impreparata la realtà, o ci coglie impreparati di fronte alla realtà". La realtà ci supera e sorprende sempre, occupa uno spazio profondamente diverso da quello che è dato alla letteratura e all'invenzione. Soprattutto la "realtà", e con essa la vita, è densa e il mondo della fiction è sempre il risultato di una selezione. Sempre nelle prime, galoppanti battute di questo saggio si legge anche del realismo come "una forma di innamoramento", una sorta di accumulo che "secolarizza il mondo solo per re-incantarlo". Sono punti importanti, che segnano il passo necessariamente puntiforme di questo saggio che allontana definitivamente il realismo dalle forme più comuni di pensiero che lo hanno attorniato e imbrigliato. Realismo non è il racconto verosimile, credibile, rispecchiante, oggettivo. Questo è un saggio che si può benissimo raccomandare ai più disparati livelli, da chi si affaccia per la prima volta a simili temi a chi li ha masticati per una vita e mezza, magari dopo una lettura di Zola. Niente di più fecondo del "realismo" che emerge dal Chisciotte di Cervantes, pare affermare talvolta Siti, o almeno così pensavo andando con la mente al saggio di Schütz sul problema della costituzione intersoggettiva della "realtà" (parola virgolettata per antonomasia, secondo Nabokov). Senza considerare poi che alla luce di queste pagine si potrebbe benissimo dare il giusto peso e il giusto volume (e sarebbero un peso assai piccolo e un volume impalpabile) alla nuova ondata di pseudoletteratura apparsa su determinati temi caldi e "sociali" degli ultimi anni (e non oso nemmeno immaginare quello che il futuro ci riserverà!). Ed è per questo che il realismo lavora negli interstizi, sul dettaglio, per dare voce alla realtà in un modo che non è riconducibile alla facile similitudine con lo specchio. Queste poche pagine, pur aperte ed evocative nelle definizioni riportate, riescono comunque a ricondurre realtà e letteratura dentro binari definiti. Se fiction è, fiction allora rimane (interessanti gli sviluppi kitsch che si intravedono in un presunto realismo-quotidianizzazione televisiva di maniera, tipica appunto della fiction, l'altra fiction, il primo significato di "fiction" che forse dovrebbe registrare oggi un dizionario, almeno in quando ad uso qui nel nostro paese). La realtà non può essere afferrata e catturata dall'arte. La letteratura e l'arte possono illuminare determinati aspetti della realtà, ma il problema non è il livello di precisione e approssimazione. Il vero problema diviene forse allora un altro, e magari più ingombrante: come accade e si sviluppa quel patto e compromesso di senso e sensi che definiamo realtà?

Tra i tanti esempi-punti menzionati da Siti ne isolo uno soltanto che riguarda Etty Hillesum, la quale "rinchiusa nel lager, non si degna di odiare i tedeschi, anzi ci offre una descrizione spiazzante parlando della bellezza del lager: "quella baracca talvolta, al chiaro di luna, fatta d'argento e d'eternità, come un giocattolino sfuggito alla mano distratta di Dio". Lirismo in fuga ma anche paradossale realismo di un attimo, perché lei c'era (e io no)."

Mi auguro soltanto una cosa, cioè che queste distinzioni e questo riflettere attorno al realismo non appaia mai lezioso, visto che parliamo delle riflessioni e delle distinzioni su cui l'umanità giustamente si affanna da (Platone e) Aristotele in poi. Sono distinzioni importanti, che riconducono dritte a quel difficile ma fondamentale esercizio di vita che è l'equilibrio o l'equidistanza tra verità e menzogna e quindi, neanche tanto indirettamente, all'etica. Il realismo è magico, e non tanto in un senso bontempelliano, ma perché crea un inganno e, come ha scritto Siti stesso, "dona a chi guarda il piacere di ingannarsi". Ogni autore compie delle scelte, sottrae, aggiunge, moltiplica o divide e poi lavora sulle alleanze tra i sensi. In fondo nemmeno gli specchi si limitano a rispecchiare o a "riflettere" la realtà, bensì la deformano, invertono destra e sinistra, lavorando sulla chiralità dei corpi, sul volume, sia su quello spaziale (togliendo una dimensione), sia che su quello audio (azzerandolo del tutto). Eppure, scrisse un tale di una certa Alice Through the Looking-Glass...

sabato 11 agosto 2012

Filologia della letteratura mondiale secondo Erich Auerbach

Ripescaggi #14














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Questo ripescaggio risale ancora una volta alla rivista "daemon". Si tratta della recensione a un testo breve (Book Editore, pp. 80, euro 11) del grande filologo tedesco Erich Auerbach. L'autore del fondamentale Mimesis fu un altro rappresentante di quella migrazione tedesca che dopo l'avvento del Nazismo fecondò atenei di tutto il mondo, soprattutto negli Stati Uniti, nazione dove anche Auerbach finì, dopo una parentesi in Turchia. Piccola divagazione: visto che di questa migrazione abbiamo già parlato, ricordo il contributo dato da Mariuccia Salvati all'argomento con il suo Da Berlino a New York. Quel libro era particolarmente sbilanciato sugli scienziati sociali, ma per impostazione ed esiti di ricerca rimane ancor oggi fondamentale.
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Questa pubblicazione di Auerbach (Berlino 1892 - Wallingford 1957), che inaugura una nuova e promettente collana dell’editore Book (sono previsti, tra gli altri, testi di Albrecht Dürer e di Ludwig Feuerbach), è già un piccolo evento editoriale. Vi troviamo, infatti, la prima traduzione italiana in volume del saggio Philologie der Weltliteratur del 1952. In queste poche pagine (il libro è corredato del testo originale a fronte, tradotto in italiano da Regina Engelmann), l’autore di Mimesis e degli Studi su Dante si cimenta con l’ingombrante nozione goethiana di Weltliteratur, della quale si proclama egli stesso filologo. La finezza dell’Auerbach comparatista è qui tutta distillata in quello che possiamo considerare il suo testamento intellettuale (lo scritto precede di cinque anni la morte).

Passaggio chiave del ragionamento di Auerbach è la subordinazione-dipendenza della Weltliteratur alla nozione di “storia mondiale”. Sarebbe difficile comprendere la portata di questa affermazione senza gettare almeno uno sguardo sommario al contesto storico nel quale è stata scritta. Il secondo conflitto mondiale aveva irreversibilmente aperto uno scenario globale di confronto. Le storie nazionali e le storie letterarie dovevano iniziare a confrontarsi in un contesto allargato e, almeno in parte, integrato, nel quale la filologia si candidava a pieno titolo come disciplina ermeneutica privilegiata, per quelle qualità che sin dal Rinascimento e Umanesimo ha sempre dimostrato (profondità interpretativa, concretezza, capacità di generare nuovi sensi).

Oggi è difficile stimare quanto sia passato del messaggio di Auerbach. Questo scritto aveva tutte le carte in regola per fondare un vero e proprio progetto di ricerca. Forse lo strapotere dello strutturalismo che ha spesso ‘colonizzato’ intere tradizioni di studio, forse la difficoltà di immaginare un percorso di ricerca così ambizioso, la realtà è che le parole di Auerbach cercano oggi un vento che le trasporti e le semini in nuove ricettive intelligenze.