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giovedì 13 aprile 2017

"La città interiore" di Mauro Covacich: scorribande tra identità fluttuanti, non appartenenti e deterritorializzate

Al celebre omaggio di Montale per La coscienza di Zeno, l'industriale triestino della Veneziani Vernici rispose con qualche ritardo, in una lettera del febbraio del 1926, esordendo con un è un’autobiografia e non la mia e, poco oltre, scrivendo anche ed io so di uno o due punti dove la bocca di Zeno fu sostituita dalla mia e grida e stuona. Il primo dei due frammenti è ricordato da Mauro Covacich in quest’ultimo libro uscito per La nave di Teseo, La città interiore (pp. 233, euro 17). La città è Trieste, ma anche no. Covacich ricorda quel frammento della lettera di Svevo in uno dei passaggi più curiosi di questo "romanzo" (così recita comunque la copertina per dovere d'ufficio), inconsueto nel suo percorso ormai ultraventennale, mentre rammenta una sorta di prolusione temeraria a cena con il Nobel John Maxwell Coetzee. E appunto, avendo messo in discussione la categoria "romanzo", giriamo la domanda: che libro è La città interiore? Un’autobiografia e non quella dell’autore? Difficile parlare di romanzo, autobiografia o di saga familiare, anche se i componenti della famiglia sono ricordati e agiscono in queste pagine con i loro nomi e cognomi. Il fatto è che questo libro dedicato alla città delle zone A (Italia) e B (Yugoslavia), è tutto fuorché un libro di interesse locale o localistico e assomiglia più a una sceneggiatura per un documentario (prova ne sia il frammento finale, che ha davvero il sapore di un documentario che si conclude sul senso di un luogo oggi, dopo una cavalcata lunga decenni). Insomma Covacich ci parla di sé, della propria vita e dei propri cari, dei luoghi in cui ha vissuto e della “città principale”. Anche il narratore si sposta e può coincidere con più persone. E così molte vite convergono in queste pagine, dove leggiamo come si viveva a Trieste negli anni Quaranta, Cinquanta e nei decenni seguenti, leggiamo di come si vive a Roma, città in cui tutto diventa indistinto e dove sembrano esistere soltanto Roma e un generico "fuori di Roma", dove tutto tende a sfumare e sovrapporsi (così Vicenza e Trieste son prese quasi per coincidenti, per fare un esempio preso dal testo). Leggiamo anche attraverso le inquadrature di una chiamata Skype con la sorella finita a Dubai per seguire l’apertura di un ufficio di una multinazionale italiana del settore Warehousing & Logistics.

Il punto però non è nemmeno domandarsi come definire questo nuovo lavoro scritto di Covacich. Sicuramente è il libro dove un corpo a corpo coi ricordi si fa netto, chiaro. Molto ricade in queste pagine, che tutto sommato non sono tante per l'ampio arco temporale che abbracciano (ma ci torneremo, perché l'elisione è uno degli aspetti portanti del libro). Lo sappiamo: la vagheggiata e talvolta fantomatica Mitteleuropa, la città delle guerre, delle industrie e dei servizi, dell’occupazione e dei trattati (Rapallo 1920, Osimo 1975), delle tante personalità politiche e artistiche che ne hanno calcato le vie ventose e in salita (spassoso il ricordo di un frettoloso esame universitario con Claudio Magris, ma vanno menzionate almeno le pagine dedicate al compositore Antonio Bibalo e quelle su Pier Antonio Quarantotti Gambini, oltre a quelle sui soliti noti triestini). E poi c'è la Trieste di Jan Morris di Trieste and the Meaning of Nowhere (in italiano si trova nel catalogo de Il Saggiatore). Tutto ciò rientra nel libro di Covacich. Il rischio di restrizione della visuale, quando si parla di Trieste, è sempre grande. Ma ecco allora che finiamo anche in Bosnia, seguendo lo scrittore febbricitante sulla pista di ricerche poetiche di Ivan Goran Kovačić (con la k, ed ecco la microvariazione consonantica che sostiene buona parte del movente di questo libro). Abbiamo l’impressione di uno scrittore che per guardare a sé preferisce prendersi da tergo, da lontano, e non tanto dalla generazione dei padri e delle madri, bensì da quella dei nonni (il libro si apre con un’immagine del padre bambino nella Trieste dell’aprile 1945). Si tratta di un dato non trascurabile se vogliamo provare a capire come si diventa ciò che si è oppure come si è ciò che siamo diventati. E il punto, in un libro inevitabilmente in bilico tra le due memorie, individuale e collettiva, sta anche qui, nel provare a capire quale dei due come prevale.

Covacich, autore di romanzi effettivi che hanno convinto molti, qui sembra porre qualche dubbio sulla tenuta della fiction, la quale comunque continua imperterrita là fuori la propria esistenza, tra narrazioni e storie nuove. Allo stesso tempo è consapevole di ogni passo falso che percorre la strada dell’autobiografia. Spostandosi con addosso una steadycam, denuda anche la preoccupazione e lo scrupolo che nascono quando si usa esplicitamente per scopi estetici frammenti della propria vita e della propria città, già ampiamente sfruttata e strizzata a livello editoriale e culturale. E allora che si fa? Succede che sorga il dubbio di aver letto un libro nato per necessità (e non è così frequente). Perché la vicenda della “città interiore” è quella di una microvariazione che scorre sul tessuto della lingua e delle lingue. Gli immaginari che interessavano e interessano tuttora l’autore, il discorso che preme non è cambiato, è solamente diventato più ingarbugliato e necessita di un tessuto nuovo che lo contenga, che si occupi della termoregolazione di un corpo che continua a muoversi. Allora, va da sé, non importa solo il cosa Covacich ha deciso di raccontare in questo testo così vicino all’autobiografia e alla saga familiare, ma il come l’ha fatto, riversando un universo di ricordi e differenze all'interno del mondo attuale che impressiona per come, pur in un contesto globale di disuguaglianze enormi, alla fine rischia di assomigliarsi sempre più dappertutto in un modo inquietante (ma quella che stiamo vivendo probabilmente è una fase breve). In questo straniamento, culturale e linguistico, abbiamo comunque iniziato a vivere e di ciò Covacich tenta, scrivendo questo non-romanzo, una misura, agendo anche attorno alle ellissi della narrazione dell’oblio in questo nuovo libro dedicato a Trieste (ma anche no) e a queste scorribande tra identità fluttuanti, non appartenenti e deterritorializzate.

lunedì 19 settembre 2016

“Liriche cinesi (1753 a.C. – 1278 d.C.)” a cura di Giorgia Valensin (e qualche riflessione sull’antologismo e autoantologismo poetico odierno)

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #31


Rileggere dopo quasi vent’anni Liriche cinesi (1753 a.C. – 1278 d.C.) (a cura di Giorgia Valensin, prefazione di Eugenio Montale, Einaudi, pp. 256, libro fuori catalogo) ha sortito due binari di riflessioni e effetti. Da un lato ritrovare queste liriche, alcune davvero memorabili, a distanza di tempo, porta a interrogarsi sull’intervallo in cui non si legge ma si ricorda di aver letto qualcosa. Dall’altro lato, con questo oggetto in mano, è partita una serie di riflessioni sullo statuto dell’antologia poetica di cui proverò a dar conto nel prossimo paragrafo, con un lungo inciso che tuttavia dovrebbe servire a mostrare, in modo contrastivo, i presupposti attuali del "fare antologie" se paragonati a pubblicazioni come questa einaudiana, tra l'altro rivolta a un passato lontanissimo e sprofondato. Mi è chiaro che i tempi sono cambiati di brutto, ma questo non significa che non possiamo interrogarci, ora come allora, sul concetto di "antologia poetica" e fare dei raffronti. La prima ragione per cui ricordo questo volume è perché tuttora rappresenta un libro di base per chi voglia avvicinare, per scansioni dinastiche, l’antica poesia cinese, da Il libro delle Odi, a Chu Yuan, fino a uno sventolio di dinastie (Han, T’ang, Sung) e i nomi più noti di Li Po, Tu Fu, Lu Yu e il grande corpus poetico di Po Chu-i. Il volume ebbe un discreto successo, per cui si può ancora trovare nei circuiti dell'usato. Lo scritto introduttivo di Montale poi si può leggere in tutte le pubblicazioni che radunano i suoi contributi critici sulla poesia.

Con il libro in mano ho provato a immaginare l’operazione editoriale che fece all’epoca Einaudi. Mi è parso di leggere tra le righe un “Caro Lettore, affido a una sinologa di valore la cura di un'antologia e la traduzione di un importante numero di testi poetici cinesi e al nostro poeta di spicco la prefazione del volume; inserisco il risultato dell'operazione nella prestigiosa collana NUE, quella con le righette rosse disegnata dal "nostro" Bruno Munari, confidando nella tua benevolenza”. Ecco, il volume che ho acquistato l’altro giorno da una bancarella a 12 euro è del 1963 (ma la prima edizione risale al 1943, mentre l'apposizione della nota montaliana è del 1952) e riporta la dicitura "undicesima edizione". Anche non conoscendo le tirature dell’epoca, "undicesima edizione" mi sembra un dato notevole, perché si tratta pur sempre di un’antologia poetica. Oggi cosa resta di questo costrutto di antologia poetica? Sorvolando sui casi fortunati che hanno lasciato il segno, come l'antologia di Pier Vincenzo Mengaldo, e i casi meno fortunati ma pur sempre interessanti nell’impianto come quello di Dopo la lirica, antologia curata da Enrico Testa per Einaudi, le antologie collettive di poesia (contemporanea o antica) hanno via via perso importanza di pari passo con la marginalità della poesia e, al netto delle polemiche che ogni antologia solleva, si può dire che oggigiorno l’antologia collettiva di poesia rischia di diventare un libro che i) serve principalmente a rafforzare la posizione critica e curatoriale di chi la assembla; ii) cristallizza e fotografa un dato gruppo di lavoro e interessi e, nel migliore dei casi, iii) potrà interessare e solleticare il pensiero di qualche frequentatore di bancarella dei fuori catalogo di domani. Se le cose stanno circa così, qualsiasi discorso sulla militanza nell'atto di compilazione di una data antologia rimane per sempre nel retrobottega. Diverso è il caso di volumi antologici periodici come i Quaderni di poesia italiana di Marcos y Marcos, i quali, dopo un percorso pluridecennale meritorio, hanno mostrato una strana virata votata alla trasparenza, all’affissione di un tabellone dei playoff delle selezioni, all’insegna di un procedimento che si addice di più alla bacheca di un’amministrazione comunale chiamata alla trasparenza dai contribuenti e meno a un comitato editoriale chiamato a rispondere di un gesto critico e curatoriale coraggioso. Ne dobbiamo dedurre che la critica e la curatela sono diventate poco più che operazioni di normale amministrazione? Se così fosse, sarebbe inquietante, tanto più se le parole d’ordine che girano sono le perniciose “lealtà” e “onestà”. Preferisco di gran lunga chi dice di scommettere su un'opera o finanche su un autore, con tutto ciò che l'atto di scommessa comporta, perché l'editoria più vivace non mi sembra il terreno dove fare tanti calcoli o tatticismi buonisti (qui mi sono spostato a scrivere in generale). Quello che poi a me fa più impressione è l’autoantologismo. Mi spiego meglio: sempre più spesso, anche tra autori sotto i quarant’anni, troviamo libri che radunano testi già usciti in altri libri, con l’aggiunta di “qualche inedito”. Altre volte il sottotitolo recita un arco di tempo (solitamente un quindicennio). Si comprende bene che tale scelta può essere dettata da a) la necessità di mettere in circolazione dei testi divenuti irreperibili e b) la volontà di puntare il dito sulla parsimonia e la pazienza con cui si è gestito il proprio faldone nel cassetto. Io credo che se questa prassi aumenterà non farà altro che nuocere alla vita dei libri di poesia, proprio perché eroderà ulteriormente la possibilità del libro di poesia di essere libro e non raccolta, non autoantologia, non morettiano (Marino, non Nanni) diario in versi senza le date, insomma di essere un libro di cui si può parlare perché parla di qualcosa.

Tutta questa riflessione centrale sulle antologie a mio avviso ha a che fare anche con il libro einaudiano che ricordo oggi, perché nel suo essere antologia, Liriche cinesi è prima di tutto libro, con tutti i limiti linguistici che questo comporta sul versante della traduzione. Montale, nella sua nota introduttiva, sembra curiosamente lanciare un'anticipazione su un titolo futuro (“la lirica e la satira sembrano affiancarsi liberamente in questa vastissima satura”). Allo stesso tempo, il non-sinologo Montale inanella una serie di riflessioni davvero coraggiose su un corpo poetico lontanissimo. Difficilmente ritroveremmo in poeti-critici contemporanei una simile capacità di sintesi. Ad esempio quando sostiene questo:
Limpidissime come sono, esse sfuggono a quel metro nuovo che l’età cristiana ha regalato al mondo occidentale, e forse non solo a questo. Non è solo che manchi in esse quell’umanizzarsi del tempo e della natura e quella divinizzazione della donna che son proprie della lirica europea; è piuttosto che qui, come nel miracolo della scultura egiziana e, in minor grado, in quello dell’arte greca, l’uomo e l’arte tendevano alla natura, erano natura; mentre da noi, e da molti secoli, natura ed arte tendono all’uomo, si fanno uomo.
Chiudo con un breve testo dalle poesie di Po Chu-i (772-846 D.C.):

Paralisi

Cari amici, non c’è ragione
Perché abbiate tanta pietà.
Certo, di tanto in tanto ancora
Farò qualche passeggiatina.
Quel che occorre è una mente lucida.
A che cosa servono i piedi?
Per terra si può andar anche in lettiga –
                 Sull’acqua si può vogare.

mercoledì 18 maggio 2016

Enrico Emanuelli: "Una lettera dal deserto" e le altre riproposte di Endemunde

La casa editrice Endemunde ha riproposto all'interno della collana 60/70, dedicata alla riscoperta dei titoli pressoché dimenticati di quei decenni, un libro di Enrico Emanuelli uscito inizialmente nel 1955 col titolo Le lettere del Capitano e poi, in edizione ampliata, con l'attuale titolo Una lettera dal deserto, cinque anni più tardi. Non è l'unico titolo disponibile tra quelli dello scrittore e giornalista che condivise per qualche anno con Eugenio Montale l'ufficio di direzione della pagina culturale del "Corriere della Sera", fino alla morte per arresto cardiaco la notte del primo luglio 1967, all'età di 58 anni. Sempre Endemunde ha infatti proposto qualche anno fa, nella stessa collana, Un gran bel viaggio, volume inizialmente comparso ne "I narratori di Feltrinelli" proprio nel 1967. Scrittore precoce (esordirà nemmeno ventenne nel 1928 con Memolo, ovvero vita, morte e miracoli di un uomo, ripescato da Manni non molti anni fa), autore di una biografia del Pindemonte, reporter e viaggiatore (scrive dalla Russia, dall'India e dalla Cina), traduttore dal francese (Constant, Stendhal, Gide, Voltaire), Emanuelli è uno dei tanti autori dimenticati dal sistema editoriale e quindi ripresi o ripescati che dir si voglia. (Sia detto per inciso che l'antiquariato librario o comunque il "fuori commercio" assume sempre più curiosamente i tratti di un universo parallelo, di una piscina senza corsie, così diversa dalla piscina irregimentata del "disponibile".) La casa editrice Endemunde ha inaugurato un ciclo di riproposizione delle sue opere che proseguirà con la pubblicazione del libro postumo Curriculum mortis.

Una lettera dal deserto (pp. 64, euro 8) uscì quindi nella forma in cui lo leggiamo oggi nel 1960 per Il Saggiatore. La vicenda è ambientata circa a metà del secolo scorso, in Perù. Qui vive un ex tenente e medico del nostro esercito, assieme a una moltitudine di indios e di capi di bestiame. La solitudine è rotta dall'arrivo di un giornalista che nella narrazione ha un ruolo di primo piano e parla in prima persona (anche se il vero "narratore" è l'ex tenente). La lettera del titolo è una lettera mai spedita dall'ufficiale, soltanto annunciata, sulla quale si concentra il mistero che sorregge l'impianto della storia. Via via che la breve storia si dipana ci avviciniamo all'esperienza di guerra in Libia, alla prigionia del tenente e infine all'amaro del ritorno a casa del reduce. Anche questo breve libro di Emanuelli affronta uno dei temi giganti della narrativa del Novecento, vale a dire quello del ritorno, per meglio dire del ritorno a casa dopo la guerra. I dialoghi che Emanuelli ha saputo contenere in queste poche pagine lasciano addosso stupore, se paragonati ai tanti dialoghi legnosi della prosa di oggi. La conversazione in Perù tra il tenente e il giornalista sa colpire per "eleganza e snellezza", doti già ricordate da Giacomo Debenedetti nelle sue note editoriali per la "Biblioteca delle Silerchie" de Il Saggiatore. Poco da fare: Emanuelli, giornalista dei grandi quotidiani, partito col desiderio di "diventare un letterato" e finito per "diventare uno scrittore", ci interessa e ci auguriamo di leggerlo ancora. Anche la differenza tra letterato e scrittore è gigante, e nella sua piena comprensione spesso ci giochiamo o freghiamo tutto. Qui sotto, a chiudere, il passo finale del libro e del dialogo tra l'ex tenente e il giornalista:
[...] «Ma loro» dissi «erano alla vigilia della morte.»
«Oh, se è per questo anche noi lo siamo e non vogliamo mai pensarci. Guardi i quattro indios che fingono di dormire sul primo gradino del bungalow: vivo con loro e con altri duecento che sono adesso sparsi ai margini della foresta. La mia fortuna nasce dal fatto che mi trovo in una posizione eccezionale, in un luogo eccezionale, in mezzo a uomini e donne eccezionali. Me ne rendo conto. Ma tutto ciò serve a non mettere nessuna riserva o compromesso tra i miei pensieri e le mie parole, tra le mie parole e i miei gesti. Mi sembra di toccare a ogni istante la verità, come proprio fecero Petriccione, Ognibene e Salvini nel deserto della Marmarcica.»
Il narratore, dopo un attimo di esitazione, aggiunse: «Oh, la prego ancora una volta: non mi consideri un presuntuoso e neanche un vigliacco. E adesso rientriamo, fa freddo.»

mercoledì 15 aprile 2015

La poesia di Srečko Kosovel: "Tra Carso e caos. Pre/sentimenti"

Mentre in Italia si dibatte e ci si sbatte - e un po', mi pare, si perde tempo e energia - attorno al Diario postumo di Montale, divisi come siamo tra chi vuole sminuire, demolire o scanonizzare il poeta diabolico che s'ingegnava a depistare i "cani da tartufo" della filologia, chi magari è spiazzato o irritato dalle manipolazioni made in Cima o chi più semplicemente chiede di sapere come effettivamente andò con le ultime poesie, per consegnare ai lettori materiali credibili dell'ultimo periodo (tifo per quest'ultimi, ma senza particolari affanni), altrove la vita continua. E sarebbe continuata comunque, per fortuna. Continua la vita della poesia successiva, va da sé e ed ovvio, e continua la vita della poesia antecedente o contemporanea a quella di Montale. Lo sapeva anche Montale - voglio credere - per quanto a volte abbia l'impressione che desiderasse una poesia in qualche modo terminante con lui, almeno per un bel pezzo. I meccanismi dell'oblio gli erano probabilmente ben noti.

Ci spostiamo allora sul confine orientale a prendere una boccata d'aria carsica e parliamo un po' di Srečko Kosovel, un poeta che è stato talvolta avvicinato a Sergio Corazzini. La brevissima vita li ha fatti accostare e questo dato ci è sufficiente per diffidare, una volta di più, del peso delle biografie nelle interpretazioni, un vero e proprio male dei secoli e non solo del secolo. Kosovel è nato a Sežana, località facilmente raggiungibile dal valico triestino di Fernetti, nel 1904 ed è morto a soli 22 anni di meningite, a Tomaj. Lo scorso anno ricorrevano i 110 anni dalla nascita e Comunicarte Edizioni gli ha dedicato Tra Carso e caos. Pre/sentimenti, un volume 11x11cm stampato in 110 copie numerate (la numerologia non è casuale) curato da Darja Betocchi e Poljanka Dolhar (pp. 136, euro 15, con composizioni costruttiviste di Eduard Stepančič). Ne scrivo volentieri a 111 anni dalla nascita. Qualche anno fa Boris Pahor gli dedicò una monografia pubblicata da Edizioni Studio Tesi, tuttavia oggi questo volume quadrato proposto da Comunicarte Edizioni risulta essere, per il lettore di lingua italiana, una delle poche porte d'accesso alla sua lirica. La breve parabola esistenziale di Kosovel interseca molti dei temi che sono cari a Pahor, vale a dire tutta quella membrana di avvenimenti che accadono in quei luoghi, Carso compreso, dopo il Trattato di Rapallo del 1920.

Una parabola di vita così breve è stata incamiciata dentro più correnti. Si parla e si scrive di fase impressionista, espressionista e costruttivista (e per questo trovate in questo volume le interessanti composizioni di Eduard Stepančič). Ma non mancano nemmeno contatti con le avanguardie e allora ecco spuntare Dadaismo, Futurismo e Surrealismo. Dicevamo del Carso, e non si può non nominare questa regione nel caso di Kosovel. Certi poeti si possono benissimo leggere al di fuori delle correnti con le quali siamo stati più o meno abituati a incorniciarli, ma non troppo lontani dalla geografia dalla quale provengono e che hanno camminato. Si badi che nessuno sta dicendo che la geografia sia sempre determinante o che, ancor peggio, sia necessario parlare di "radici geografiche" o di qualche altra sciocchezza che poi, giù giù per la scala delle aberrazioni intellettuali, può arrivare persino ai vani e pericolosi discorsi su una sorta di costume locale. Ci sono poeti dialettali che sono davvero universali (Marin è uno, Giotti un altro tanto per stare in quella zona) e possiamo trovare poeti nemmeno sfiorati dal dialetto che accusano il colpo della piaga del localismo geografico e soprattutto mentale.  Quando dico "universali" intendo anche "classici", ma con "classici" non intendo "immutabili" o altre fesserie. Io credo che un classico rappresenti invece il massimo di alterità e distanza da come siamo noi e il massimo di mutazione nel tempo e nello spazio. Solo così, a mio avviso, può essere davvero universale. La scelta della lingua è solamente uno degli elementi che concorrono a formare il metodo con cui esploriamo la vita in letteratura, per quanto resti un fattore di straordinaria rilevanza. E se è davvero centrata l'affermazione che vuole nei luoghi i nostri ultimi dèi (Bonnefoy), tornando alla poesia di Kosovel scopriamo che è nulla forse senza la geografia dei suoi pini:

VIDI DEI PINI CRESCERE

Vidi dei pini crescere
al cielo. Imperturbabili
nel fuoco dei soli.
Vidi già il rogo
che li arderà.


Su bianchi cuscini
i monti-vegliardi posarono
il capo silente. —
Bisbigliano i pini.
(Chi mai li sente?)


Erano lì —
colonne di fuoco
svettanti nel cielo...


Il mio corpo s’incenerì.



VIDEL SEM BORE RASTI

Videl sem bore rasti
v nebo. Stoike mirne
skozi ognje sonc.
Videl sem že požar,
ki jih bo požgal.


Na belo blazino so
naslonili starci-hribi glavé
in obmolknili. —
Bori šumijo.
(S kom govore?)


Videl sem jih,
kako so romali
goreči stebri — v nebo ...


V pepel se mi je sesulo telo.


Insomma, è molto più semplice ignorare tutte le categorie nelle quali la lirica di questo poeta sloveno è stata fatta ricadere che ignorare l'immagine di una dolina, così come possiamo essercela fatta al di fuori di un dizionario, per poi leggere una poesia come la seguente:

SE SOLO SAPESSI

Se solo sapessi, canterei
il pioppo che fruscia con voce argentina,
il sole del Carso
in un fresco settembre,
il grano saraceno nella bianca dolina.

Se solo sapessi, canterei
una sola, un’unica fanciulla;
le voglio un tale bene
che non la cambierei
per nulla al mondo, nulla.


PA DA BI ZNAL

Pa da bi znal, bi vam zapel
o svetlo šumečih topolih,
o kraškem soncu
v hladnem septembru,
o belih ajdovih dolih.

Pa da bi znal, bi vam zapel
o enem, o enem dekletu;
tako rad ga imam
in ga ne dam
za vse, za vse na tem svetu.


Nella poesia di Kosovel affiorano innovazioni che balzano all'occhio di chi non conosce la sua lingua (stili, colori, simboli, collages, librazioni immaginifiche degli oggetti). A più riprese si fa largo un pensiero che "crepuscolare" non sia tanto una parte della poesia che abbiamo conosciuto, soprattutto nella prima metà del secolo scorso (con evidenti succedanei nell'oggi), ma tutta la poesia, compresa quella aurorale di Saffo. Ciò è proprio dei momenti di massima trascolorazione e acutizzazione dei sensi. Il punto è semmai come quest'essere crepuscolare e corpuscolare della poesia, onda e particella, si riverberi e produca energia cinetica, movimento insomma, in chi la legge, anche in traduzione.

TUTTE QUESTE PAROLE

Tutte queste parole dovrebbero essere
come un fragrante mare di pini,
astri che si spengono sui monti
ai primi raggi mattutini...

Ma è mezzanotte appena, mezzanotte,
e io devo farle splendere ancora,
così potremo restare sul Carso
in questa nostra grigia dimora.

Avvolto nel mio scuro cappotto
le invoco nel vento dai refoli fieri —
vibrano i vetri; mia madre si desta,
e sprofonda in sognanti pensieri...

Ma io smanio come la bora —
l’insonnia fuori mi conduce.
Percorro nel silenzio carsici sentieri.
La notte li ammanta di luce.


VSE TE BESEDE

Vse te besede bi morale biti
dehteče ko borova morja,
jutranje zvezde, ki ugašajo
ob zarji iznad pogorja ...

Pa je pólnoč še, pa je pólnoč še
in jih moram prižgati,
da v tej sivi kraški hiši
nam je ostati.

V temen plašč zavit jih v burjo
govorim, ko se zaganja
v okna; pa se mati vzdrami
in pomisli in zasanja ...

Jaz pa divji sem kot burja —
proč, o proč je moje spanje.
Tiho stopam preko poti kraških.
Noč mi sije nanje.


domenica 29 marzo 2015

da "Imitazioni" di Attilio Bertolucci (una traduzione da Edward Thomas)

Una poesia da #48
Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #25

Imitazioni è un libro di traduzioni di Attilio Bertolucci che Scheiwiller pubblicò nel 1994 (pp. 126, fuori catalogo e non più reperibile; i testi sono confluiti nel Meridiano a cura di Paolo Lagazzi e Gabriella Palli Baroni). Vi potete trovare versioni, imitazioni appunto, da molti poeti francesi, inglesi o americani fra i quali Shakespeare, Wordsworth, Baudelaire, Hardy, Landor, Pound, Kipling, Eliot, MacNeice, Milton, Gascoyne, Frenaud e anche Edward Thomas. Il testo che ho scelto appartiene proprio a questo poeta "tardivo" che iniziò a scrivere poesia nel 1914 incoraggiato e incalzato dall'amico Robert Frost e che nell'aprile del 1917 morì in azione durante la Battaglia di Arras. Pochi altri traduttori e scrittori italiani si sono soffermati su questo autore che ebbe importanza nelle vicende poetiche di W.H. Auden, Dylan Thomas, Philip Larkin e Ted Hughes. Se volete, nella poesia proposta di seguito il pretesto è quel topos di rêverie poetica  sopra il toponimo, Adlestrop in questo caso, ma anche, a mio avviso, la sosta inattesa in una stazione durante un tragitto, una stazione che fra l'altro da qualche decennio non esiste più. Notavo come  la versione di Bertolucci "Adlestrop:/ un nome" echeggi la Valmorbia di Montale e inoltre come s'agganci il quinto mottetto a certi cenni di questa poesia di Thomas.



ADLESTROP


Sì, mi ricordo di Adlestrop, del nome,
Perché in un caldo pomeriggio il treno
Diretto vi fece una sosta imprevista.
S'era agli ultimi giorni di un bel giugno.

Un fischio, poi qualcuno si schiarì
La gola. Ma nessuno se ne andò
Dalla nuda piattaforma, nessuno
Salì e fu solo Adlestrop: un nome,

E salici e tanta erba profonda
E la regina dei prati e i covoni
di fieno così fermi e solitari
Come le nubi alte nel cielo estivo.

Per un istante cantò vicinissimo
Un merlo e gli risposero indistinti
Più e più lontano poi tutti gli uccelli
Delle terre di Oxford e di Gloster.


(da Poesie, 1917 - Traduzione di Attilio Bertolucci)


ADLESTROP


Yes. I remember Adlestrop
The name, because one afternoon
Of heat, the express-train drew up there
Unwontedly. It was late June.

The steam hissed. Someone cleared his throat.
No one left and no one came
On the bare platform. What I saw
Was Adlestrop—only the name

And willows, willow-herb, and grass,
And meadowsweet, and haycocks dry,
No whit less still and lonely fair
Than the high cloudlets in the sky.

And for that minute a blackbird sang
Close by, and round him, mistier,
Farther and farther, all the birds
Of Oxfordshire and Gloucestershire.

giovedì 27 febbraio 2014

La vita e l'opera di Diego Valeri nell'efficace ricostruzione di Matteo Giancotti

Ci sono forti lacune nella biografia di Diego Valeri (1887 - 1976). Lo stesso poeta e professore nato a Piove di Sacco schivò durante tutta la sua vita le occasioni per rendere più serrate le maglie di una cronologia che tuttora si fa fatica a stringere. A mettere in ordine appunti e studi approfonditi ci prova però Matteo Giancotti, che per la collana "Ottonovecento a Padova", nuova proposta dalla casa editrice il Poligrafo diretta da Mario Isnenghi, ha saputo ripercorrere seguendo il più semplice e il più insidioso dei criteri, quello cronologico, le tappe fondamentali della vita dell'uomo. Ogni fase sembra aver trovato spazio in questo studio intitolato semplicemente Diego Valeri (pp. 188, euro 18): l'infanzia e gli studi, l'episodio giustamente ritenuto fondamentale della morte del fratello maggiore, il pittore Ugo, probabilmente suicida nel 1911, la famiglia di provenienza e quella alla quale diede vita il poeta, il vasto peregrinare (impensabile per certi prof d'oggi, pur tra i più "mobili"!) del neoprofessore di liceo dopo la laurea, l'impegno intenso di pubblicista e giornalista uniti a quello politico, i viaggi e l'esilio dopo la caduta del Fascismo, le stagioni della scrittura e quelle dell'insegnamento universitario, le relazioni letterarie nazionali e internazionali, i libri scritti e quelli studiati, le traduzioni e la morte del poeta. La prosa di Giacotti abbraccia tutta una vita con l'attenzione e il rigore che la scelta del criterio cronologico, a torto ritenuto il più facile, sempre richiede.


Diego Valeri con Ezra Pound
Oggi che c'è la rete e che ci sembra facile, rapido e finanche scontato costruire una trama di relazioni umane e letterarie di un certo tipo, non pensiamo alla fatica fatta da Valeri (un primato il suo, davvero) nel costruire moltissimi ponti verso altre zone d'Italia e del mondo. Credo che una delle tante motivazioni della grande stima che Andrea Zanzotto, suo allievo degli anni difficili a Padova, ha continuamente testimoniato in vita e in morte del poeta sia dovuta al quasi ciclopico tentativo di sottrarre il Veneto e il Nordest d'Italia da una sorta di isolamento nel quale, periodicamente, sembra ripiombare. Le antenne di Zanzotto erano sensibilissime a questo problema. Va finalmente riconosciuto questo merito nient'affatto secondario di Valeri ed è questo, a mio avviso, anche uno dei meriti principali di questo lavoro paziente di Giancotti. Prova ne sia il modo in cui Giancotti esordisce, citando un Montale un po' sopra le righe, che prova a sminuire, quasi a "provincializzare", il poeta veneto in vista di una posizione di prestigio internazionale alla quale sono entrambi candidati e il modo in cui "il ligure" risarcisce Valeri, in un passaggio riportato nella parte finale di questo volume. E prova sia di questo grande merito del poeta padovano-veneziano, il fatto che ancor oggi uno scrittore come Gian Mario Villalta, che pure dirige pordenonelegge, cioè la manifestazione che è diventata negli anni il principale festival letterario della penisola, si sente di dover scrivere un libro, dal titolo evidentemente redazionale ma significativo, di Padroni a casa nostra. Perché a Nordest siamo tutti antipatici.

Naturalmente molti altri sono gli spunti per avvicinare questo libro che diventa quasi la prima biografia intellettuale del poeta. Giancotti è attento al contesto editoriale in cui il suo studio si situa, ovvero una collana tutta dedicata a una città, alla sua storia passata, a una città simbolo di tante cose. E di certo non va fuori tema perché trascinato dal calibro della figura di cui sta scrivendo. Già... Padova. Scrive Isnenghi nella presentazione, tra le altre cose, "Ottonovecento a Padova: questo il nostro ambito. Profili ambienti istituzioni: il ventaglio degli approcci, fra persone e luoghi identificati come quelli che definiscono e strutturano una storia. Una non piccola storia, una storia non minore: con una grande università, un grande santo, una grande piazza, un grande caffè... I ritratti stereotipati qualche volta tradiscono, lasciando fuori troppe cose; ma un po’, anche, ci pigliano, dando alveo e direzione allo sguardo." E così il volume di Giancotti, ritratto tutt'altro che stereotipato, diventa l'occasione per rileggere aspetti del Novecento padovano e della storia d'Italia recente. Si ritrovano pure certi nomi, come quello di Paola Drigo, l'autrice di Maria Zef. Il senso dei luoghi attraversati da Valeri è ricostruito minuziosamente. E allora arriva non soltanto la Padova che presta il titolo alla collana, ma anche Cremona, Roma, Parigi, il campo di Mürren, nello Jungfrau durante l'esilio assieme ad Amintore Fanfani, Dino e Nelo Risi e Giorgio Strehler (riporto in fondo una poesia dedicata a questo passaggio) e quindi Venezia, l'insostituibile Venezia, l'altra sua città.


 Officina Meccanica della Stanga
Per concludere vorrei elencare quelli che sono o saranno i luoghi, le persone e l'immaginario che ha già affrontato o che s'appresta ad affrontare la collana diretta da Isnenghi: il caffè Pedrocchi, la libreria Draghi Randi, i Vivai Sgaravatti, Alfredo Rocco, Tono Zancanaro, il Teatro Garibaldi, il Santo, Luigi Pellizzo vescovo a Padova, la Fiera, la Banca Antoniana, Palazzo Papafava, il Teatro Verdi, La Zedapa, i Colli, il Liceo Tito Livio, il Vescovo Bordignon, il Seminario, il Rettore Carlo Anti (inevitabilmente spesso citato anche nel lavoro di Giancotti), l’Antonianum, la Sala della Gran Guardia, la Breda, il Bacchiglione, le Officine Meccaniche della Stanga, Luigi Luzzati e Leone Wollemborg, il Museo Bottacin, Stefania Omboni, Filomena Cuman e Bona Viterbi. C'è da augurarsi che un'operazione editoriale del genere, lungi dal diventare motivo di schiacciare il presente sotto il peso di un passato controverso,talvolta glorioso talvolta ingombrante, diventi invece vero stimolo per ripercorrere anche l'attuale trasformazione della città, da altre angolature e da nuove altezze fotografiche. In fondo credo ce ne sia bisogno, e non solo a Padova. Nuove intelligenze e un grande coraggio sono necessari per vivere nella nostra epoca. Serve un rinnovamento radicale e quindi fors'anche ereticale dell'intelligenza. Al di là di questi conclusivi pensieri, urge, lì come altrove, e non solo nel nostro paese, un rinnovamento assiologico, il ritrovamento di architetture mirabili, su tutti i fronti del vivere e del pensare, come a ridare finalmente vita a quella progettualità che ci sembra per sempre sfuggita di mano, come a ridare forma ad un nuovo... Palazzo della Ragione.


CAMPO DI ESILIO
di Diego Valeri

Percossi sradicati alberi siamo,
ritti ma spenti, e questa avara terra
che ci porta non è la nostra terra.
Intorno a noi la roccia soffia vènti
nemici, fuma opache ombre di nubi,
aspri soli lampeggia da orizzonti
di verdi ghiacci. Le nostre segrete
radici, al caldo al gelo, nude tremano.
E intanto il tempo volge per il cielo
i mattini le sere: alte deserte
stagioni; e i lumi del ricordo, e i fuochi
della speranza, e i pazzi arcobaleni.
Come morti aspettiamo che la morte
passi; e l’un l’altro ci guardiamo, strani,
con occhi d’avvizzite foglie. E un tratto
trasaliamo stupiti, se alla cima
di un secco ramo un germoglio si schiuda,
e la corteccia senta urgere al labbro
delle vecchie ferite un sangue vivo;
tra le nubi scorrendo un dolce vento
di primavere nostre.

venerdì 24 gennaio 2014

"Segreti e no" di Claudio Magris: la custodia del segreto tra potere e diritto all'opacità individuale

64 pagine stampate in corpo molto grande (un aspetto tipografico che mi ha fatto venire in mente i tasti di quei cellulari destinati agli anziani o comunque alle persone ipovedenti) al prezzo un po' alto di 7 euro: così si presenta Segreti e no, il nuovo libro brevissimo di Claudio Magris. Scavalcato questo ostacolo del prezzo un po' antipatico, va detto che Segreti e no è un testo assolutamente da leggere, e sta bene dirlo subito prima di iniziare a parlarne. Non solo perché capita spesso che ogni cosa della produzione dello scrittore triestino s'addentelli su fondamentali muri della Storia, ma anche perché questo intervento - che non ho ben capito se nasce in inglese, visto che nel colophon è menzionato un "The secret" del quale questo breve testo dovrebbe essere la traduzione - prende di petto una sola parola quasi scomparsa dal nostro mondo, forse a causa di un pudore sbagliato o di un pudore andato a male. Chissà perché. Al di là dei bambini e dell'infanzia, dove la parola "segreto" ha ancora qualche guizzo di vitalità, legato magari a una frequente, stereotipata gestualità di mani e orecchie, sembra che il segreto sia scomparso dalla faccia dalla terra, anche se sentiamo ancora parlare di "segreto di stato", "agenti segreti", "segreto bancario" o di altri segreti legati alle faccende della politica e del potere. Se non è scomparso del tutto, il segreto è sicuramente protagonista di un processo lungo di banalizzazione. Eppure mai come ora, in tempi di massima vetrinizzazione sociale, è opportuno tornare a scrivere e a parlare del segreto.

Il merito di questo intervento di Magris è anche quello di riportare il segreto alla sua centralità nella vita di ognuno. L'autore, un romanziere, che più aiuta Magris in questo è senz'altro Javier Marías di Un cuore così bianco e Domani nella battaglia pensa a me. Non dimentichiamo che per i suoi romanzi Marías andò a studiarsi un libro introvabile di Comisso intitolato Agenti segreti di Venezia 1705 - 1797. L'indimenticato Torquato Accetto della "dissimulazione onesta", largamente amato anche da Giorgio Manganelli, offre a Magris lo spunto per il finale dello scritto. Non può essere che il segreto sia scivolato nell'oblio e nel buio, a maggior ragione in questa epoca contraddistinta da un nuovo ambiguo "potere internettiano", chiuso tra trasparenza e segreto, ed è in fondo normale che si debba tornare a parlare di segreto oltre certe pedestri e incerte discussioni sulla privacy (chi leggerà queste pagine di Magris noterà che Internet è solo uno dei tanti rimandi o echi possibili sullo sfondo di questo ragionamento, anche se probabilmente è l'eco che a un editore d'oggi fa più gola isolare e illuminare).

Il dramma del segreto è la sua traslazione sull'asse del discorso, essersi spostato nella nostra epoca in posizione aggettivale, laddove ne facciamo ancora largo impiego; è come ci fossimo stancati di vederlo e sentirlo come un sostantivo. Mi pare dica anche questa cosa qui il ragionamento di Magris. E quando nel secolo scorso è prevalso il suo utilizzo sostantivale, spesso eravamo in tempi bui, sdrucciolevoli, nell'imbuto e nel tormento dei totalitarismi o di certo esoterismo poco raccomandabile. Di sicuro "segreto" è un sostantivo ingombrante e pesante, com'è giusto che sia. L'etimo di segreto rimanda al verbo "secernere", di cui il participio passato è "secreto". Un verbo strano che rinvia al nostro sistema endocrino e a ciò che emette, anche se nella lingua latina diceva di ciò che è separato e vagliato e, in fondo, di una sorta di libertà che nasce nella separazione. Agli albori della nostra letteratura un poeta fondamentale per la lirica europea, Petrarca, scrisse una prosa in latino che si intitola Secretum. Ma perché a uno dei più intelligenti scrittori dell'Italia attuale interessa così tanto il segreto? La risposta più chiara a questa semplice domanda sta nelle pagine dove Magris riprende il diritto all'opacità rivendicato da Édouard Glissant, il diritto di non essere passato da parte a parte "dai raggi X di alcuna conoscenza globale", in "umanissima difesa della propria libertà". Svelare un segreto significa deformarlo, come in una sorta di principio di Heisenberg per cui l'osservazione di un fenomeno significa già la sua alterazione. Detto con le parole di Javier Marías "[...] La verità non riluce, come si dice, perché l'unica verità è quella che non si conosce e non si trasmette, quella che non si traduce con parole né con immagini, quella celata e non controllata. Forse per questo si racconta tanto o si racconta tutto, perché niente sia mai accaduto, una volta raccontato."

C'è una poesia di Montale la cui seconda parte mi è sempre rimasta impressa, in particolare per l'utilizzo che Montale fa di due parole: "schermo" e "segreto". Avrete già capito a quale poesia intendo rimandare. Mi è tornata subito in mente leggendo queste importanti pagine di Magris, consegnate al suo ennesimo imperdibile libro.

Forse un mattino andando in un'aria di vetro, 
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: 
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro 
di me, con un terrore di ubriaco. 

Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto 
alberi case colli per l'inganno consueto. 
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

(Oggi trovo inquietante quella quasi rima tra "vetro" e "segreto", tra la trasparenza del vetro-schermo e l'opacità del segreto.)

mercoledì 25 settembre 2013

Marco Sonzogni ci racconta "La speranza di pure rivederti...": Irma Brandeis e Eugenio Montale in un libro di Archinto

Librobreve intervista #25

Marco Sonzogni
Le mie domande lo raggiungono a Wellington, in Nuova Zelanda dove insegna, nel bel mezzo di un lavoro febbrile di revisione. Sarà sua infatti la cura e traduzione del Meridiano di Seamus Heaney in uscita per Mondadori nel 2014. E non potrebbe essere diversamente. Marco Sonzogni mi scrive che ha sentito il grande poeta nordirlandese pochi giorni prima che morisse, lo ricorda come maestro nella vita e anche nella morte. Nelle risposte che seguono però parla anche di come ha accolto la notizia, in preghiera, diversamente dalle troppe persone che "sono subito corse a raccontare su carta stampata e online quanto bene lo conoscevano, dove avevano mangiato e bevuto con lui". Lo distolgo però per qualche attimo da Heaney (anche se non dal dolore) per poi farci ritorno con l'ultima domanda di questa intervista. In Italia è da poco uscito per Archinto un suo lavoro intitolato La speranza di pure rivederti... Clizia, Montale e l'impossibilità di dirsi addio (pp. 83, euro 12). Sento di doverlo ringraziare ancora, da queste poche righe introduttive, per l'intervista che leggerete, forse la più bella che ho sin qui pubblicato (siamo alla 25esima, forse sto esagerando, ma mi rendo conto che le interviste attorno ai libri brevi sono un bel sistema per lasciare spazio ad altre voci, risparmiarvi la mia e per risparmiare a me tempo). Sono certo vi catturerà e vi inietterà il desiderio della rilettura, sia delle risposte, sia dei testi di cui qui si parla.


Il libro pubblicato
da Archinto
LB: Potresti tratteggiare per i lettori le scosse principali della vicenda umana Montale-Brandeis? Se sappiamo bene o male chi è e cosa ha scritto Montale, possiamo sapere da te, brevemente, chi è Irma e come incontra Eugenio?
RISPOSTA: Sono le scosse “normali” che scandiscono le vicende umane di un uomo e di una donna che si innamorano, vorrebbero stare insieme, ci provano, ma alla fine per una ragione o per un’altra, non ci riescono. Nel caso di Irma e di Eugenio, come per tutti, la prima scossa è senz’altro quella del primo incontro, del famigerato colpo di fulmine, nel luglio del 1933, a Firenze. Eugenio Montale non ha la più pallida idea di chi sia questa giovane, colta e affascinante americana di nome Irma Brandies che chiede di incontrarlo (lui è direttore del prestigioso Gabinetto Vieussuex, che lei frequenta). Lei invece sa già abbastanza di lui: gliene hanno parlato Gino Bigongiari (con cui ha una relazione piuttosto complessa) e Leo Ferrero (anche con lui ha una breve relazione), da cui riceve una copia di Ossi di seppia (quella stampata da Carabba nel 1931, quindi la terza edizione) che subito divora. La lettura instiga il desiderio di conoscere personalmente l’uomo che ha scritto poesie così belle: e se da un punto di vista estetico Eugenio non fa certo colpo su Irma, da un punto di vista poetico e intellettuale tra i due si instaura un legame che è subito forte, profondo, necessario ma anche difficile, problematico – un oceano di distanza li separa per buona parte dell’anno, colmato all’inizio da una corrispondenza fittissima, e poi un mare di problemi (soprattutto di Montale) piano piano li separerà per sempre. La seconda scossa è sicuramente la scoperta da parte di Irma – inquivocabilmente solo nel 1935, dopo due anni, quindi, di sentimenti, speranze e progetti – che Montale è legato a un’altra donna, quella che lei continuerà a chiamare “X”: la Mosca, Drusilla Tanzi Marangoni. Valgono poco le tardive spiegazioni di Montale: sarebbero anche state, in un certo senso, comprensibili, ma l’averle taciute non lo mise in buona luce, diciamo così. La terza scossa è il mancato incontro quando Montale si reca negli USA a bordo del volo inaugurale Roma-New York nell’estate del 1950. Di questa occasione persa ci restano solo ricordi avvolti in parte nel mistero e sui quali dubito si possa arrivare a mettere la parola fine. Certo è che Montale, nelle poche ore in cui si trova nella Grande Mela, telefona a un’amica, sua e di Irma, Giovanna Calastri (la stessa che gli telefona nei versi di Una musa oltreoceano) ma non ha il coraggio di chiamare Clizia – o meglio, fa il numero ma poi riattacca. Chissà perché (soprattutto per poi raccontare l’accaduto a Irma in un biglietto purtroppo andato perso). La quarta scossa, silenziosa, è la morte della Mosca – con lei in vita Irma, che in Italia di tanto in tanto faceva ritorno (per esempio va a fare la volontaria in occasione dell’alluvione di Firenze del 1966), non aveva mai cercato di riallaciare i contatti con Montale. La quinta e ultima scossa – dopo le crescenti attenzioni che gli studiosi (in particolare Luciano Rebay e Glauco Cambon) riversano su di lei, a volte con irrispettosa insistenza, soprattutto a seguito dell’assegnazione a Montale del Premio Nobel per la Letteratura – è la pubblicazione dell’edizione critica dell’Opera in versi di Montale nel dicembre del 1980. Irma riceve una copia con la dedica di uno dei due curatori, Gianfranco Contini, e un biglietto quasi illeggibile dello stesso Montale, che le dice di considerarla ancora la sua divinità, e le chiede quando e come si sarebbero riincontrati. Siamo nel giugno del 1981. Da quel momento, con la mediazione di amici “di lunga fedeltà”, Irma ed Eugenio cercano di riincontrarsi per guardarsi negli occhi un’ultima volta, mezzo secolo dopo il loro primo incontro. Ma il 13 settembre, quando Irma sta per mettersi in viaggio alla volta di Milano, Cambon le telefona per dirle che Montale è morto.

LB: Quando nasce e come prende forma il progetto di questo libro pubblicato da Archinto e dedicato al rapporto tra Montale e Clizia, l’ispiratrice del sesto mottetto de Le occasioni dal quale è stato preso il titolo del volume? A tuo sentire, il costrutto celeberrimo di “visiting angel” tiene ancora bene con il passare degli anni o forse andrebbe rivisto dalla critica?
RISPOSTA: Nel 1999, grazie alla mediazione dell’amico Bill Weaver, che era Irma Brandeis Professor of Literature a Bard College, sono entrato in contatto con Jean Cook, amica ed esecutrice letteraria di Irma Brandeis. Ci siamo sentiti per email e per telefono, per qualche anno, e poi ci siamo conosciuti di persona: prima a Dublino, dove io abitavo e dove lei aveva accompagnato una scolaresca, e poi a New York (sto per tornarci tra poche settimane, proprio per parlare di questo libricino alla Fordham University e per rivedere Jean e altri amici newyorkesi). Un rapporto di amicizia e di fiducia subito forte e trasparente: a me, come a lei, premeva far conoscere la storia di Irma Brandeis – quella di Clizia l’aveva già raccontata in versi Montale; e dalle lettere di Montale a lei, pubblicate nel 2006, di Irma non emerge più di tanto. In tutti questi anni, quindi, ho avuto modo di studiare le carte di “I.B.”: lettere, diari, traduzioni, racconti, studi accademici – e, allo stesso tempo, parlare con persone che l’avevano conosciuta. Così è stato quasi come averla conosciuta anch’io e spero, con i miei lavori, di aver contribuito a far conoscere una donna il cui valore umano e intellettuale va ben oltre quello di musa montaliana... Quindi, se si vuole davvero capire e apprezzare chi è stata Irma Brandeis, non solo la definizione di salfivico visiting angel – perfettamente legittima, con l’intercessione di Beatrice e Laura – ma anche il nome stesso “Clizia” – scelto per Brandeis da Montale sempre sulla scia del poeta sommo, come ha chiarito Contini – vanno ad un certo punto messi da parte. Del resto Irma stessa, ormai vecchia ed esasperata, ha cercato di liberarsi, una volta per tutte, delle responsabilità mitopoietiche di cui l’ha investita Montale.

LB: Nel libro trovano spazio materiali inediti? Da dove provengono e come li hai montati nel tuo discorso?
RISPOSTA: In tutti i miei scritti su Montale e Brandeis ho presentato carte inedite. In questo caso di stratta di tre lettere – due di Gianfranco Contini e una di Cesare Vivante – e di fogli sparsi con prove di traduzione di poesie di Montale. Come tutte le altre carte che ho studiato e pubblicato anche queste sono in possesso di Jean Cook. Credo fermamente nell’autorità del documento: la mia lettura e le mie interpretazioni sono quindi state costruite intorno a queste carte. Sono loro a parlare, io ho fatto solo da tramite.

The Ladder of Vision,
il saggio su Dante
di Irma Brandeis
LB: Qual è stata per te la cosa più bella, la scoperta più emozionante nella scrittura di questo libro?
RISPOSTA: Sicuramente la lettera di Cesare Vivante, trovata quasi per caso in un folder gonfio di fogli e ritagli di giornale che non promettevano niente di interessante (tra l’altro era l’ultimo faldone che mi era rimasto da scartabellare e non so proprio spiegarmi come sia finita lì). E poi l’incontro con Cesare (e sua moglie Mirella), a Milano: un momento davvero emozionante e commovente. L’affettuosa accoglienza affetto, il nitido ricordo di Irma e di Montale nella casa dei genitori, Leone e Elena Vivante, a Villa Solaia, in Toscana, e poi il ricordo della figlia, Elena anche lei, tragicamente morta giovane, inseguendo l’amore... Tra le carte mi ha sicuramente colpito anche la testimonianza – in poche lucide righe manoscritte – del triangolo in cui Irma finì suo malgrado a trovarsi: lei, lui (Montale) e l’altra (la Mosca), e la risoluzione del dispiacere per quanto successo affidata a Dante.

Irma e i gatti...
LB: La speranza di pure rivederti... titola il libro. Il mottetto si chiude con quei tre versi tra parentesi del servo gallonato tra i portici a Modena. Per me è sempre stata una delle immagini più nitide di Montale. Ci parli un po’ proprio del Mottetto VI?
RISPOSTA: È stato scritto tanto su queste due bestiole. Montale stesso, camuffato da Mirco, ha raccontato la cosa e credo che in questo caso gli si possa credere. Altri hanno poi confermato (appartenevano a un tizio di Modena ma questo tipo di dettaglio, poeticamente, conta poco o nulla). A Irma piacevano gli animali, i gatti soprattutto, ma anche quelli meno comuni, come appunto i due sciacalli portati a spasso dal servo gallonato sotto i portici di Modena. Ci sta quindi che siano un suo senhal. Ho provato a frugare nella simbologia dello sciacallo – animale che nella cultura occidentale ha un pedigree non troppo positivo. Qualche traccia interessante l’ho trovata, e l’ho seguita, coinvolgendo mezzo mondo, con il conforto di una foto davvero intrigante, ma per ora non ho trovato prove sufficienti a validare un’interpretazione alternativa. Un giorno forse ne scriverò comunque – magari ne esce un racconto piuttosto che un saggio critico. Vediamo. Tornando al mottetto: credo che il titolo dica tutto. Eugenio si sta già rassegnando a perdere Irma – in un certo senso la perde ogni volta che la vede ripartire per gli Stati Uniti. Lo strappo sarà anche, come da tradizione, poeticamente fertile, ma umanamente parlando Montale soffre come ognuno soffrirebbe nel doversi separare dalla persona amata. L’amor de lonh, per dirla con Jaufré Rudel, ha senso e tiene fino a un certo punto: insomma, le poesie non bastano e infatti Irma vuole di più e quando si rende conto che le cose non sarebbero mai cambiate, mette fine alla relazione. Detto questo, mi ha sempre colpito, fin dalla prima volta che ho letto questo mottetto, il presentimento di Montale – sentiva che ogni saluto, come presto sarebbe stato, poteva essere l’ultimo. È come se, in un certo senso, avesse rimosso anche la possibilità della speranza. Un mottetto in momentanea absentia di lei che prelude, anzi annuncia, la sua absentia definitiva – quasi fosse inevitabile.

Il giovane 
Seamus Heaney
LB: Sei reduce da un ciclopico lavoro di traduzione da Heaney in uscita tra qualche mese nei Meridiani Mondadori. In questo libro si sviluppa invece un appassionato inseguimento montaliano. Se mi passi il termine scolastico di “collegamenti”, quali “collegamenti” faresti tra poeti lontani nello spazio e nei tempi come Seamus e Eugenio?
RISPOSTA: Il lavoro ciclopico – come lo hai giustamente descritto tu, e non solo per me ma per tutti quelli coinvolti in un progetto come questo – si era concluso il 26 agosto in vista della pubblicazione per il 75° compleanno del poeta nell’aprile del 2014. Ma pochi giorni dopo, la mattina del 30 agosto, Seamus se ne è andato per sempre. Ti confesso che stato un colpo durissimo, e che mi ci vorrà tanto tempo a smaltire anche se, te lo dico sinceramente, non mi ha colto del tutto di sorpresa. Ora il lavoro ciclopico si è raddoppiato: i cantieri del Meridiano sono stati riaperti per accogliere traduzioni e commenti a tutta l’opera in versi di Heaney, inclusa una sezione di inediti (due poesie giovanili, due poesie recenti e due traduzioni completate pochi giorni prima della morte). Sarà il modo migliore di ricordarlo. Anche se lo conosco, lo leggo e lo studio da più di 20 anni ho preferito restare in silenzio, e in preghiera, pensando a Marie, Michael, Christopher e Catherine Ann. Troppe persone sono subito corse a raccontare su carta stampata e online quanto bene lo conoscevano, dove avevano mangiato e bevuto con lui, quante volte lo avevano incontrato o gli avevano parlato, cosa di lui avevano letto, scritto o tradotto (c’è addirittura chi ha ristampato le proprie traduzioni il giorno stesso della morte) – finendo per parlare più di se stessi che di lui. Ma anche in questo forse inevitabile karaoke dell’ego c’è del giusto e del bello: Seamus sapeva toccare tutti, già al primo sguardo, e lo tsunami di testimonianze da ogni parte del pianeta e da ogni fascia sociale e professionale ha dato conto del segno lasciato da un uomo e da un poeta straordinario, e del vuoto che dobbiamo ora accettare, colmandolo almeno in parte con la sua opera in versi e in prosa.
Mi chiedi di Montale e Heaney. Sono due poeti molto diversi – già per nascita (e non mi riferisco alle condizioni delle rispettive famiglie, per altro diverse anche quelle): uno nasce in riva al mare l’altro nel cuore della terra. Ecco, paradossalmente, quello che forse più li accomuna risiede proprio in questa differenza, per così dire, topografica: entrambi partono, umanamente e poeticamente, dal paesaggio che li circonda e che ne determina le coordinate esistenziali ed intellettuali. La strada della poesia che intraprendono, e che porta entrambi a Stoccolma, segue poi percorsi piuttosto diversi, ma qualche intersezione c’è. Montale muore (1981) poco prima che Heaney raggiunga una notorietà mondiale – anche se la fama del poeta nordirlandese è in rapida crescita dopo che Helen Vendler (Harvard University) ne recensisce la quarta raccolta, North (1975, l’anno in cui a Montale è assegnato il premio Nobel per la Letteratura), sul «New York Review of Books». L’incontro più significativo tra i due poeti è quello nel segno l’anguilla, animale che Heaney conosceva bene (il padre della moglie gestiva un pub ad Ardboe, sulle rive di Lough Neagh, in Irlanda del Nord, frequentato da pescatori di anguille, con cui aveva anche rapporti di lavoro, e che Heaney stesso ebbe modo di frequentare). La traduzione della poesia montaliana (una versione, per altro, ai limiti della riscrittura, secondo me neanche troppo convincente) da parte del poeta americano Robert Lowell – che il poeta nordirlandese ammirava, ricambiato – ha messo in moto qualcosa nell’immaginazione di Heaney, che ci ha a sua volta lasciato due bellissime poesie incentrate sull’anguilla: ‘A Lough Neagh Sequence’ (‘Sequenza di Lough Neagh’), nella seconda raccolta (Door into the Dark, 1969) e, trent’anni dopo, ‘Eelworks’ (‘Anguilleria’), nella dodicesima e ultima raccolta (Human Chain, 2010). Heaney ha letto Montale, non soltanto l’opera in versi ma anche i suoi scritti in prosa. E poi il titolo che Heaney aveva scelto per la Frank Kermode Lecture che avrebbe tenuto a Londra il prossimo novembre la dice lunga: “The Second Life of Art” – è il titolo di un saggio di Montale del 1949 pubblicato sul «New York Review of Books» nel 1981 nella splendida traduzione di Jonathan Galassi (incluso con altre prose nel volume eponimo pubblicato presso i tipi newyorkesi di The Ecco Press l’anno successivo). Solo per dire che i grandi poeti sono sempre in dialogo, in un modo o in un altro, indipendentemente dal fatto che si siano incontrati, sulla pagina o di persona.

martedì 3 settembre 2013

I "Fuochi d'artifizio" di Corrado Govoni sparati in e-book. Un'intervista a Francesco Targhetta

Librobreve intervista #22


Chissà se il lettore dalla palpebra pesante apprezza gli e-book, chissà se gli e-book rendono la palpebra più o meno pesante. Finora se ne è parlato poco qui. Tanto vale cominciare, con un e-book quantomeno singolare. Invio le domande di questa intervista a Francesco Targhetta mentre è alle prese - così mi scrive - con la stesura della quarta di copertina per la nuova edizione dei Fuochi d'artifizio di Corrado Govoni da lui curata. Si curva tra i miei muscoli facciali un punto interrogativo: ma come la quarta di copertina? Il libro è infatti in uscita in questi giorni per Quodlibet esclusivamente in formato e-book, nella collana "note azzurre" diretta da Giuseppe Dino Baldi, Elena Frontaloni e Paolo Maccari. Proprio grazie all'interessamento di Paolo Maccari è oggi possibile leggere, in rosso e in verde, come prevedevano gli inchiostri dell'edizione originale, una delle opere principali dell'eccentrico poeta-contadino ferrarese. Introduco così questa chiacchierata, all'insegna delle improbabili "quarte di copertina degli e-book". E per citare il nome del file con le risposte giunto al mio pc: Govoni for president!

Corrado Govoni
LB: Andiamo diritti al sodo (e anche al soldo): perché fa bene leggere/rileggere Govoni e perché, a tuo avviso, l'editoria potrebbe iniziare a occuparsi di questo grande del Novecento con più sistematicità, senza troppi timori?

RISPOSTA: Leggere Govoni fa bene perché la sua è una poesia di continuo stupore, che nasce a contatto con le cose di ogni giorno e i paesaggi più familiari. I suoi versi esplodono di oggetti, colori, immagini, a cui solo di rado, nelle poesie più tarde, si aggiungono riflessioni personali e la presenza dell’io. In un tempo di iper-intellettualismo e iper-egotismo, una scrittura che lascia così tanto spazio alle cose e alla sensibilità del lettore mi sembra molto salutare. L’editoria ha sempre tenuto a distanza Govoni perché ha scritto troppo, stando (apparentemente) sempre in superficie. Troppo naïf, insomma, e troppo dispersivo. Lui se ne rese conto e subì l’emarginazione, sviluppando verso il mondo editoriale e culturale un’acredine violenta che di certo non gli giovò. Ma ormai è riconosciuto come uno dei poeti più influenti del primo ‘900. Fare ordine nella sua vastissima produzione non è facile, ma i grandi editori (a partire da Mondadori e da un auspicabile Meridiano) dovrebbero e potrebbero iniziare a lavorarci.

Il celebre Autoritratto
LB: Quando hai iniziato a posare gli occhi sul poeta di Tamara e come si sviluppa il tuo percorso govoniano? 

RISPOSTA: Govoni è un poeta che compariva (e compare tuttora), per la sua disposizione visiva e metaforica, in molte antologie delle scuole medie, e fu già allora che mi incuriosii ai suoi versi (quelli di Crepuscolo ferrarese, mi pare). L’approfondimento avvenne all’università. Mentre lavoravo alla tesi sulla simbologia religiosa nei poeti crepuscolari mi resi conto che le opere di Govoni erano introvabili; per consultarle dovetti andare alla biblioteca Ariostea di Ferrara. Un giorno andai in corriera a Tamara, dove una maestra locale mi portò a vedere la casa dove Govoni era nato e quella dove era vissuto prima del trasferimento a Milano, e poi un negozio di abbigliamento (di quelli piccoli, da paese di campagna: immensamente triste) che esponeva alcuni suoi libri in vetrina, disposti sopra abiti per anziane e sottovesti. Meraviglia. Lì cominciai ad appassionarmi alla figura di questo poeta-contadino del tutto fuori dagli schemi, e decisi di incentrare sulle sue prime quattro raccolte il mio progetto di dottorato.

LB: Proprio in questi giorni, in edizione e-book nella collana "Note Azzurre", Quodlibet pubblica i Fuochi d'artifizio da te curato. Ci parli di questo libro, che tra l'altro nel catalogo Quodlibet segue le Poesie elettriche uscite qualche anno fa? 
RISPOSTA: È il terzo libro di Govoni (che allora aveva appena 20 anni), ed è senz’altro uno dei più sconvolgenti, non solo perché uscì stampato con inchiostro verde. Offriva, nel 1905, una poesia mai sentita prima in Italia: visionaria e assieme provinciale, piena di errori e immagini scioccanti, tra liriche che descrivono in modo allucinato i pranzi contadini della domenica e fantasie macabre à la Rollinat (una quartina: «Una vedova in una stanza osserva attenta / la sua dentatura guasta in uno specchio. / Nella sala d’un ospedale un uomo canta / mentre i chirurgi gli cavano un occhio»), versi sulla nonna e vaneggiamenti di tisici, l’euforia della fiera e la tristezza dei conventi, e tutto assieme, senza nemmeno una divisione in sezioni. Si tratta, come cerco di spiegare nell’introduzione, di una specie di libro-labirinto, che costruisce sul caos e sul disorientamento il proprio stesso senso. Govoni divenne, dopo la pubblicazione, un caso letterario: molti, sulle riviste, lo criticarono aspramente fino alla derisione, sostenendo, con toni denigratori, che si trattasse soltanto dei deliri di un campagnolo un po’ tocco. C’era anche questo, eh. Ma non solo. Govoni aveva una conoscenza diretta e approfondita dei simbolisti franco-belgi che pochi altri in Italia avevano al suo tempo.

LB: Un altro libro di Govoni da te curato anni fa per San Marco dei Giustiniani è Gli aborti. Potresti collocare brevemente anche quel titolo? Qual è, a tuo avviso, l'opera più importante del Govoni poeta?
RISPOSTA: Gli aborti (1907) sono il libro successivo ai Fuochi. Marino Moretti, all’uscita della raccolta precedente, scrisse che Govoni, ai suoi occhi, non avrebbe potuto andare oltre, ma avanzò il sospetto che forse, in realtà, lo aveva già fatto. E infatti Gli aborti superano le oltranze dei Fuochi. Anzitutto perché riuniscono sotto lo stesso tetto due libri diversi (Le poesie d’Arlecchino e I cenci dell’anima: si tratta, quindi, di una doppia raccolta, la prima di soli sonetti e la seconda in versi liberi), e poi perché il furore visionario raggiunge apici impareggiabili. È un libro che oggi si definirebbe dark, con alcuni passaggi persino splatter, tutto concentrato a esplorare le zone d’ombra, le brutture, i canali di scolo, le creature della notte, e a riportarle sulla pagina deformate e sfatte. Govoni qua esaurisce il codice del decadentismo più noir elevandolo all’ennesima potenza. Ci sono vedove morte per annegamento, preti impiccati, ubriachi sgozzati, rospi, pipistrelli, fantasmi, mendicanti, malati, pazzi suicidi, città fatte di lupanari e obitori, mentre il sorriso dell’amata viene paragonato a «dei legumi gettati / dalla finestra del castello dentro la palude». Per me è un libro meraviglioso (in un’accezione quasi barocca, se vuoi): lo si apre a caso e si rimane incantati. Ma la raccolta più importante di Govoni, e nel complesso quella più riuscita, rimane L’inaugurazione della primavera del 1915.

LB: Ti chiedo adesso una risposta secca, poco più di un monosillabo: ci consigli anche il Govoni prosatore?
RISPOSTA: No. A Govoni mancava del tutto il talento narrativo. Nei racconti e nei romanzi si ritrovano le stesse immagini presenti nei versi, ulteriormente diluite.


Guido Gozzano
LB: "...abbassamento di tono apportato al verso tradizionale e la quasi parodia della rima ricca di tipo dannunziano o parnassiano". Poi, sempre Montale su Govoni, recensendo un'antologia curata da Spagnoletti: "Ho suggerito che probabilmente non si formerà una leggenda di Govoni.". Aveva visto bene? Se sì, perché? Il ponte (fondamentale?) tra Govoni e Gozzano, come si salda (se si salda)?
RISPOSTA: Uhm, dunque: l’abbassamento ci fu senz’altro, favorito da un mix di autodidattismo, irresponsabilità giovanile e marginalità provinciale (ma era anche nel dna di una nuova generazione). La quasi-parodia rimica mi convince meno: il contropelo ironico in Govoni manca. C’era in Gozzano, ma Gozzano fu tutt’altra cosa. E lo fu, come suggerisce proprio Montale in quella recensione, perché Gozzano era un poeta nella storia, che poté chiudere un periodo e aprirne un altro, lasciando ben visibili gli snodi, e con una notevole coscienza di sé. Govoni, nella fase più importante della sua produzione (1903-1915), agì di istinto, senza filtri. Leggeva e scriveva di getto, in furie grafomani che il suo Fondo testimonia. Ne è perciò rimasta un’immagine, e una poesia, più anarchica, meno inquadrabile, meno riducibile a formula; costretta, per essere spiegata, all’antologizzazione e all’epitome (come scrive Montale, con un giudizio critico che è diventato una condanna). Di Gozzano Govoni anticipò alcune immagini, prese a prestito dai francesi che leggevano entrambi, ma in comune non hanno nient’altro: la strada di Govoni è lirica e impressionistica, quella di Gozzano narrativa e prosastica.


Il libro curato
da Paolo Maccari
LB: Abbiamo già scritto e ripetuto che Fuochi d'artifizio esce soltanto in e-book. Quali idee e aspettative ti sei fatto in merito a questa scelta?
RISPOSTA: L’idea della pubblicazione digitale dei Fuochi era già nel progetto accademico originario che portò, nel 2008, a riproporre Gli aborti. Poi però, per varie ragioni, ci furono ritardi e non se ne fece niente. Grazie a Paolo Maccari, che aveva curato la riedizione delle Rarefazioni e parole in libertà (sempre per San Marco dei Giustiniani), Quodlibet si è interessata alla ripubblicazione del libro, mantenendo l’idea dell’uscita solo in e-book. E in effetti Govoni a me sembra un autore ideale da divulgare in digitale, non solo per la modernità e la stravaganza delle sue edizioni (i Fuochi sono un libro di 95 poesie stampate in verde e rosso: quale editore avrebbe mantenuto questi criteri su carta?), ma anche per l’interesse che dimostrò verso l’aspetto grafico della poesia (penso ai calligrammi delle Rarefazioni, ma non solo).