Rileggere
dopo quasi vent’anni Liriche cinesi (1753
a.C. – 1278 d.C.) (a cura di Giorgia Valensin, prefazione di Eugenio
Montale, Einaudi, pp. 256, libro fuori catalogo) ha sortito due binari di
riflessioni e effetti. Da un lato ritrovare queste liriche, alcune davvero
memorabili, a distanza di tempo, porta a interrogarsi sull’intervallo in cui non
si legge ma si ricorda di aver letto qualcosa. Dall’altro lato, con questo oggetto in
mano, è partita una serie di riflessioni sullo statuto dell’antologia
poetica di cui proverò a dar conto nel prossimo paragrafo, con un lungo inciso che tuttavia dovrebbe servire a mostrare, in modo contrastivo, i presupposti attuali del "fare antologie" se paragonati a pubblicazioni come questa einaudiana, tra l'altro rivolta a un passato lontanissimo e sprofondato. Mi è chiaro che i tempi sono cambiati di brutto, ma questo non significa che non possiamo interrogarci, ora come allora, sul concetto di "antologia poetica" e fare dei raffronti. La prima ragione per cui ricordo questo volume
è perché tuttora rappresenta un libro di base per chi voglia avvicinare,
per scansioni dinastiche, l’antica poesia cinese, da Il libro delle Odi, a Chu Yuan, fino a uno sventolio di dinastie
(Han, T’ang, Sung) e i nomi più noti di Li Po, Tu Fu, Lu Yu e il grande corpus poetico di Po Chu-i. Il volume ebbe un discreto successo, per cui si può ancora trovare nei circuiti dell'usato. Lo scritto introduttivo di Montale poi si può leggere in tutte le pubblicazioni che radunano i suoi contributi critici sulla poesia.
Con
il libro in mano ho provato a immaginare l’operazione editoriale che fece all’epoca
Einaudi. Mi è parso di leggere tra le righe un “Caro Lettore, affido a una
sinologa di valore la cura di un'antologia e la traduzione di un importante numero di testi poetici cinesi e al
nostro poeta di spicco la prefazione del volume; inserisco il risultato dell'operazione nella prestigiosa
collana NUE, quella con le righette rosse disegnata dal "nostro" Bruno Munari, confidando nella tua benevolenza”. Ecco, il volume
che ho acquistato l’altro giorno da una bancarella a 12 euro è del 1963 (ma la prima edizione risale al 1943, mentre l'apposizione della nota montaliana è del 1952) e riporta la dicitura "undicesima
edizione". Anche non conoscendo le tirature dell’epoca, "undicesima edizione" mi
sembra un dato notevole, perché si tratta pur sempre di un’antologia poetica. Oggi
cosa resta di questo costrutto di antologia poetica? Sorvolando sui casi fortunati che hanno
lasciato il segno, come l'antologia di Pier Vincenzo Mengaldo, e i casi meno fortunati ma pur sempre interessanti
nell’impianto come quello di Dopo la lirica, antologia curata da Enrico Testa per Einaudi, le antologie
collettive di poesia (contemporanea o antica) hanno via via perso importanza di pari passo con la marginalità della poesia e, al netto delle polemiche
che ogni antologia solleva, si può dire che oggigiorno l’antologia collettiva
di poesia rischia di diventare un libro che i) serve principalmente a
rafforzare la posizione critica e curatoriale di chi la assembla; ii) cristallizza e fotografa un dato gruppo di lavoro e interessi e, nel migliore dei
casi, iii) potrà interessare e solleticare il pensiero di qualche frequentatore
di bancarella dei fuori catalogo di domani. Se le cose stanno circa così, qualsiasi discorso sulla militanza nell'atto di compilazione di una data antologia rimane per sempre nel retrobottega. Diverso è il caso di volumi
antologici periodici come i Quaderni di poesia italiana di Marcos y Marcos, i quali,
dopo un percorso pluridecennale meritorio, hanno mostrato una strana virata
votata alla trasparenza, all’affissione di un tabellone dei playoff delle
selezioni, all’insegna di un procedimento che si addice di più alla bacheca di
un’amministrazione comunale chiamata alla trasparenza dai contribuenti e meno
a un comitato editoriale chiamato a rispondere di un gesto critico e curatoriale coraggioso. Ne dobbiamo dedurre
che la critica e la curatela sono diventate poco più che operazioni di normale
amministrazione? Se così fosse, sarebbe inquietante, tanto più se le parole d’ordine che
girano sono le perniciose “lealtà” e “onestà”. Preferisco di gran lunga chi dice di scommettere su un'opera o finanche su un autore, con tutto ciò che l'atto di scommessa comporta, perché l'editoria più vivace non mi sembra il terreno dove fare tanti calcoli o tatticismi buonisti (qui mi sono spostato a scrivere in generale). Quello che poi a me fa più impressione è l’autoantologismo. Mi spiego meglio: sempre più spesso, anche tra autori
sotto i quarant’anni, troviamo libri che radunano testi già usciti in altri libri, con l’aggiunta
di “qualche inedito”. Altre volte il sottotitolo recita un arco di tempo
(solitamente un quindicennio). Si comprende bene che tale scelta può essere
dettata da a) la necessità di mettere in circolazione dei testi divenuti
irreperibili e b) la volontà di puntare il dito sulla parsimonia e la pazienza con cui si è
gestito il proprio faldone nel cassetto. Io credo che se questa prassi aumenterà non farà altro che nuocere alla vita dei libri di poesia, proprio perché eroderà ulteriormente la possibilità del libro di poesia di essere libro e non
raccolta, non autoantologia, non morettiano (Marino, non Nanni) diario in versi senza le date, insomma di essere un libro di cui si può parlare perché parla di qualcosa.
Tutta
questa riflessione centrale sulle antologie a mio avviso ha a che fare anche con il libro einaudiano che ricordo oggi, perché nel suo essere antologia, Liriche cinesi è prima di tutto libro, con tutti i limiti linguistici che questo comporta sul versante della traduzione. Montale, nella sua nota introduttiva, sembra curiosamente lanciare un'anticipazione su un titolo futuro (“la
lirica e la satira sembrano affiancarsi liberamente in questa vastissima satura”). Allo stesso tempo, il non-sinologo Montale inanella una serie di riflessioni davvero coraggiose su un corpo
poetico lontanissimo. Difficilmente ritroveremmo in poeti-critici contemporanei una simile capacità di sintesi. Ad esempio quando sostiene questo:
Limpidissime come sono, esse sfuggono a quel metro nuovo che l’età cristiana ha regalato al mondo occidentale, e forse non solo a questo. Non è solo che manchi in esse quell’umanizzarsi del tempo e della natura e quella divinizzazione della donna che son proprie della lirica europea; è piuttosto che qui, come nel miracolo della scultura egiziana e, in minor grado, in quello dell’arte greca, l’uomo e l’arte tendevano alla natura, erano natura; mentre da noi, e da molti secoli, natura ed arte tendono all’uomo, si fanno uomo.
Chiudo con un breve testo dalle poesie di Po Chu-i (772-846 D.C.):
Paralisi
Cari
amici, non c’è ragione
Perché abbiate tanta pietà.
Certo,
di tanto in tanto ancora
Farò
qualche passeggiatina.
Quel
che occorre è una mente lucida.
A
che cosa servono i piedi?
Per
terra si può andar anche in lettiga –
Sull’acqua si può vogare.
Che bella "Paralisi"
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