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lunedì 9 luglio 2018

Perché per far pubblicità di un libro si mostra il libro, meglio se tridimensionale, e si dicono sempre le solite cose?

Libri brevi che mi piacerebbe scrivere o trovare #16


I libri sono prodotti e, così come altri prodotti, possono essere oggetto di pubblicità. Spesso il mezzo privilegiato per reclamizzarli è la carta, forse per contiguità materiale, ma possono anche essere veicolati in televisione, in radio, con banner. (Si sente spesso dire che recensioni e passaparola restano il miglior alleato promozionale e credo sia da credere a questi discorsi, almeno per certi libri di cui si parla anche qui.) Mi incuriosiscono sempre le pagine pubblicitarie dedicate ai libri sui giornali perché sono di una semplicità tale che a tratti getta qualche punto interrogativo qua e là. Probabilmente non è solo un fatto italiano ma qualcosa di diffuso a livello internazionale. Se i pubblicitari si sono inventati decine di modi diversi per parlare di carne in scatola, compagnie telefoniche o detersivi, questo non sembra accadere nel mondo dei libri, dove ci si limita a proporre una foto del libro (meglio se in versione 3D, per dargli spessore) e qualche informazione di contorno, come l'avallo di uno scrittore o critico famoso, il numero di edizioni raggiunte o una fascetta (spesso gialla). Assai probabile è che siano gli uffici grafici delle case editrici a imbastire il layout di una pagina pubblicitaria di un libro quando questa si rende necessaria, ciononostante mi rifiuto di pensare che dentro questi uffici grafici non ci siano persone con delle idee nuove. Mi viene più facile pensare che non venga lasciato modo di esprimere queste idee nuove. La cosa buffa è che una stessa informazione, come ad esempio quella data da nome dell'autore + titolo, è ripetuta nello spazio di pochissimi centimetri quadrati, venendo meno al vittorioso principio del less is more che tanto successo trasversale ha avuto (si veda anche l'esempio in foto, dove nome dell'autore e titolo sono ripetuti e attaccati). Da questi casi credo vadano distinti i casi di editori come Neri Pozza o Raffaello Cortina che pubblicizzano spesso più titoli in una pagina pubblicitaria, rafforzando in tal modo l'idea di collezione, delle "novità in libreria" e non forzando sul caso singolo.

Da consuetudini rilevate sopra e divenute quasi prassi mi pare si possa provare a tirare qualche somma: 1) non è una regola, ma il libro è reclamizzato spesso quando è già un successo, più raramente in fase di lancio, come altri prodotti, oppure quando è un prodotto di un autore già successo o che si pensa possa raggiungere un nuovo facile successo; 2) si privilegia una comunicazione del parallelepipedo-libro, come oggetto da avere, come mattoncino indispensabile; 3) non si registrano casi di strategie comunicative particolarmente innovative, almeno in quella che si intende la pubblicità tradizionale data da una pagina, da una mezza pagina o da un quadratino e solo in determinati casi i booktrailer hanno contribuito a far esplodere l'opera in un breve, utile video; 4) queste pubblicità sembrano destinate anche agli addetti ai lavori, quindi servono sia in ottica di sell-out (favorire l'uscita del prodotto dalle librerie) ma probabilmente anche in ottica di sell-in (favorire acquisto/riacquisto da parte delle librerie stesse); 5) è curioso che in un settore che teoricamente dovrebbe vivere di idee e creatività quasi nessuno provi a innovare nella pubblicità, a cantare fuori dal coro come il Chinò San Pellegrino e a proporre qualche via alternativa a questa staticità; 6) questo modo di reclamizzare il libro e questo "gigantismo" dell'oggetto sembrano confermare ancora una volta un certo feticismo librario; 7) che sia questo feticismo oggi uno dei tanti nemici della fantomatica lettura e uno degli alleati più forti della scarsità di lettori di cui si ascoltano spesso le lamentele? 8) Infine, questo genere di pubblicità ha come principale scopo la comunicazione di un dato numerico (il numero di edizioni, le copie vendute). Possibile che nel 2018 la via maestra per reclamizzare un libro resti ancora questa? 

mercoledì 14 marzo 2018

Ancora sul vintage: la rubrica di poesia "Parole italiane" di Luca Mastrantonio su "7" del "Corriere della Sera" e un esempio con Alfonso Gatto

Libri brevi che mi piacerebbe scrivere o trovare #15
 
In commercio
Questo breve intervento fa il paio con il precedente intitolato Quanto ci piacciono vintage anche le patrie lettere! e si sofferma sulla predilezione per quanto è antico, anzi vintage, anche nel discorso editoriale-letterario. Diciamo che potrebbe essere un capitoletto di questo fantomatico e inesistente "libro breve che mi piacerebbe scrivere o trovare". Mi interessano moltissimo i vecchi cataloghi editoriali, i libri fuori commercio, le librerie dei remainders, però trovo assai meno interessanti i modi, i tempi e i luoghi in cui prevale la fascinazione per il vintage in editoria. Vediamo un esempio. 

La rubrica poetica intitolata "Parole italiane" a cura di Luca Mastrantonio su "7", settimanale del "Corriere della Sera", spesso va a recuperare poesie di un tempo passato, mostrando le copertine di prime edizioni di allora. Fin qui va tutto bene o quasi (dipende dai gusti, dalle inclinazioni, dal pensiero che si ha nei confronti di simili rubriche ecc.). Va meno bene, a mio avviso, se le opere di quel dato poeta sono regolarmente disponibili in commercio. Tra le predilezioni del curatore, già più di una volta ho rivisto certe copertine de Lo Specchio Mondadori di un tempo. È successo ad esempio di recente con Alfonso Gatto, del quale proprio lo scorso anno è però uscita per gli Oscar Mondadori la raccolta Tutte le poesie a cura di Silvio Ramat (pp. XLVIII-842, euro 26). Ora qualcuno dirà che è benemerito qualsiasi intervento che faccia riaffiorare la poesia in contesti di buona se non ottima visibilità. Può darsi, non lo so, e anche qui c'entrano gusti, inclinazioni e ambizioni, ma se la tendenza è questa emergente patina vintage, che sembra slittare  piano piano e insidiosamente in un giudizio di valore, non sono d'accordo. È vero che c'è una miriade di titoli di un tempo che meriterebbe nuova attenzione, una ristampa, una nuova edizione, una segnalazione su un settimanale importante. Però l'approccio molto vintage di questa rubrica di poesia che occupa una pagina di "7" mi è sembrato - per quello che sono riuscito a intravedere sin qui - trainato da questa fascinazione vintage poco vivace e producente. E credo vada ben distinto il rovistare tra vecchi cataloghi editoriali finalizzato alla ricerca di determinati titoli, dalla fascinazione, talvolta aprioristica, per quanto presenta una patina vintage. Se si doveva oliare un sistema produttivo nel quale anche Corriere e RCS sono inseriti, in questo caso specifico aveva molto più senso mostrare il libro regolarmente in commercio negli Oscar. Inoltre, a questi aspetti, va aggiunto che il tutto non è salutare per l'arte poetica (anzi, per questo genere editoriale). E il caso di Alfonso Gatto, del quale esiste appunto un Oscar Mondadori recentissimo, mi ha sostanzialmente spinto a formulare queste righette. Del resto tutto ciò s'accompagna a un recente tentativo di rilancio della poesia in casa Mondadori che si è palesato con tinte e toni fortemente vintage di recupero del blasone perduto, un'operazione che non può che destare grandi perplessità.

Se va avanti di questo passo, tra non molto, a fronte di un panorama distratto e non interessato alla poesia - il che ci può stare, esistono infatti i gusti e le mode anche in letteratura -, troveremo presto un fiorente mercato del libro antico di poesia. Esiste già, a dir quel che è, anche se dovrei togliere la parola "fiorente". In questo mercatino, to', ci si scannerà per la seconda edizione difettata degli Ossi di seppia (titolo sempre reperibile in edizione economica) magari lasciandoci scappare un affarone su un libro remainder di Dario Villa, Danilo Dolci o Mario Benedetti (quello italiano nato in Friuli, non l'uruguagio). È chiaro che il mercatino del collezionismo è altra cosa rispetto al mercatino della poesia in commercio, però c'è questa possibilità che aleggia, cioè che, soprattutto per certe tasche, i due mercatini vadano a sovrapporsi. Chi vivrà vedrà.

giovedì 8 febbraio 2018

Quanto ci piacciono vintage anche le patrie lettere!

Libri brevi che mi piacerebbe scrivere o trovare #14


La celebre radio "Cubo" di Brionvega
Recentemente ho letto in una rivista l'espressione "economia della nostalgia" per riferirsi al fenomeno del vintage, ovvero a tutta una serie di prodotti, pratiche e passioni che richiamano design, abitudini o comportamenti d'acquisto del passato, tornati in auge in questi anni. Collegata al fenomeno del vintage vi è una fetta di prodotti che sta generando discreti profitti (posso osservare qualcosa di questa tendenza anche nel lavoro che faccio). L'icona di tutto ciò, anche se alla fine credo che non sia corretto intenderla come tale, potrebbe essere il vinile nell'ambito della musica, un oggetto tornato ad avere un'insperata nuova vita e un mercato significativo, se paragonato ad esempio a quello del concorrente compact disc (chiaro che poi esiste tutto un altro universo di fruizione musicale, ma lì non siamo più nel mercato o comunque si tratta di un universo funzionale a altri mercati, solo parzialmente legati a una data opera musicale). L'ambiente delle lettere credo non faccia eccezione e che ricada pienamente dentro questa tendenza vintage, con l'aggravante però che è più vintage nei modi che nei prodotti che sforna (quando sforna prodotti vintage poi non sempre fa il successo dei vinili): continuiamo a fare i libri con un determinato approccio e visione, ma soprattutto continuiamo a parlare, a infervorarci e a (non) dibattere come se ci fosse un contesto simile a quello di Calvino e Pasolini, probabilmente con sterili sintesi da Bignami di quelle polemiche ancora in testa. Il mondo però è accelerato in fretta da allora e se ci interessasse davvero la letteratura in tutte le sue declinazioni - poetiche filosofiche e narratologiche per dirne solo tre - dovremmo provare una sorta di nausea per questo sfasamento che si crea tra una realtà che ci chiede di raffinare alla svelta i nostri strumenti di analisi obsoleti e un contesto culturale e editoriale (pseudoproduttivo e in tanti comparti persino antieconomico) ancora legato a quelle logiche di cinquant'anni fa, a quelle ambizioni, a quelle strettoie di pensiero che si ritrovano catapultate e inservibili in un contesto profondamente mutato. In tale scenario, anche per un critico dovrebbe essere prioritaria la necessità di riconoscere l'innovazione rappresentata da un'opera dell'ingegno o da una metodologia inedita.

Questa fascinazione per quello che è stato il passato di qualche decennio fa, per le caratteristiche di certi dibattiti, per le linee di forza di un dato campo magnetico che si era creato allora, continua a esercitare un influsso balordo sui "giorni nostri", nel modo in cui ci relazioniamo tra persone appassionate di libri e letteratura, e condiziona talvolta persino il puzzle dei temi; detiene un potere persino su quella cosa intima che ci muove quotidianamente e che si chiama desiderio. Certo, nel frattempo un social parolaio come Facebook ha fatto la sua comparsa e si è appropriato dell'attenzione e del tempo che lì si trascorre, inserendosi in molteplici interstizi della vita quotidiana (a quello è in fondo interessato, quello ciò che gli vendiamo: tempo e abitudini). Sappiamo però che demograficamente sta diventando meno rilevante, soprattutto nelle fasce d'età più giovani: i mezzi quindi passano relativamente in fretta, così come tante discussioni, e il ragionamento attorno ai mezzi non dovrebbe portarci via troppo tempo o farci perdere di vista quello che serve. Già, ecco il punto: che cosa serve, posto che qualcosa col nome di letteratura rimane in orizzonte? Cosa potrebbe rendere il mondo delle patrie lettere interessante, dentro e fuori l'Italia, oltre gli steccati sempre più insormontabili del narcisismo? Credo serva riscoprire l'abc di una discussione, far sfiatare tutto il retropensiero accumulato (anche grazie al maldestro utilizzo dei nuovi mezzi), uscire da una logica binaria di piacere/non piacere, porci in uno scenario argomentativo e tematico che sappia sganciarsi dalle ventate dell'effimero. Serve più oblio anche, non solo più memoria. La capacità di immaginare una situazione differente (non dico nuova, ma differente) è spesso imbrigliata dentro la camicia di forza del vintage, del retrò, del carosello delle best practices di quel passato che ci appare ancora glorioso e forse migliore del nostro tempo. I pozzi e le fonti però erano e rimangono tutti (o quasi tutti) avvelenati. È inoltre inutile credere che nella connessione spinta comunichiamo tutti, all'estremo opposto è anche inutile pensare che solo gli isolati comunichino. In questo contesto solo una procedura che riparta daccapo e prosegua per argomentazioni e confutazioni può ristabilire un microclima dove poter anche respirare, dove sia possibile ricominciare a imparare adesso che siamo diventati tutti saputelli. Ma come ristabilire l'argomentazione quando argomento è diventato solamente "ciò di cui si parla" e non più una porzione di pensiero o testimonianza a sostegno di una tesi? (Se questi pensieri hanno un senso, mi piacerebbe trovare chi sappia svilupparli meglio, anche in un libretto, oppure smontarli del tutto.)

mercoledì 29 marzo 2017

Più che la fame poté la fama: brama di fama e assenza di fame nel discorso letterario odierno

Libri brevi che mi piacerebbe scrivere o trovare #13

Cesare Ripa, iconologia della fama chiara
Chiediamocelo chiaramente: chi tra quelli che hanno avvicinato la scrittura di libri, siano questi di testi saggistica, prosa o poesia, non ha accarezzato almeno per qualche istante l'idea che qualcosa di queste opere rimanesse oltre il dissolversi degli amminoacidi che costituiscono le membra? Quella della sopravvivenza dell'opera dopo la morte è una questione antica, tuttavia permane sotto nuove spoglie in quest'epoca contrassegnata dall'effimero di Snapchat e degli altri social media, con nuove pieghe tutte da capire. Qualche inguaribile pura/o direbbe che lei/lui certo che no, che lei/lui manco ci pensa, che scrive solo per il presente e che non bada ai posteri, alla fama, al venir ricordato, che per lei/lui la scrittura è prima di tutto il tentativo di creare i presupposti per un confronto che risponda a una precisa necessità e a una fame di conoscenza che sta nel limbo collocato nella terra di nessuno, tra il distacco di un'opera dal suo autore e la circolazione e fruizione di questa (l'editoria allora non sarà mai sullo sfondo, ma sempre centrale). Facciamo che per praticità e soprattutto per profonda simpatia non le/gli crediamo (il perché di questa profonda simpatia emergerà nella seconda parte di questa riflessione). Facciamo anche che per questa volta l'andare a promuoversi da Fabio Fazio non c'entra (come se in televisione si potessero usare soltanto i format già pronti e bolliti senza pensare a sperimentarne di nuovi, in fondo è un mezzo così interessante e ancora inesplorato). L'invidia - pardon, il "rosicare" per usare un gergo più gradito alla capitale - qui non c'entra. Può c'entrare semmai l'agonismo, e soprattutto la vicenda della poesia è andata di pari passo col concetto di agone (e si pensi allora ai vari premi). Qui però sto provando a fare un discorso scisso tra assenza di fame e disperata, annaspante ricerca di fama e si tratta purtroppo di un discorso sbilanciato tutto a favore di quest'ultima.

Il punto è circa questo: più che la fame poté la fama e le sue brame. E come stanno le cose allora? Non so esattamente come stiano, perché ci sono sempre diversi casi, però proviamo con un esempio e prendiamo uno scrittore tra tanti possibili: Goffredo Parise. Parise è morto trent'anni fa e i suoi libri, tutto sommato, si trovano ancora. Ha avuto una discreta fortuna in vita, con alti e bassi come tutti, e la sua opera rimane abbastanza presente a trent'anni dalla morte. Ma cosa vuol dire "abbastanza presente"? Ogni tanto mi pongo domande come le seguenti e non so se sono domande utili: quanti in questa settimana dell'anno 2017 avranno letto in Italia una sua opera? Qualche decina o centinaia di persone? Migliaia addirittura? Quale capacità ha l'opera di Parise di provocare e sostenere una riflessione o una polemica utile alla contemporaneità, quantomeno a quella dell'Italia (tralasciamo qui gli aspetti legati alla traduzione e alla diffusione di un'opera scritta in una data lingua fuori dai territori in cui quella lingua è letta e capita). Quale la capacità di incidere? So bene che il destino dei libri è incalcolabile e so che mi si può obiettare che tante opere hanno i tempi lunghi della permanenza nei cataloghi editoriali o, per usare un'altra parola, nei canoni e nelle traduzioni (se opere di lingua). So che tante opere sono un tesoro per i pochi che le scoprono e questa cosa va benissimo. I classici poi non nascono a tavolino, per fortuna, anche se certe novità editoriali recenti come Le otto montagne di Paolo Cognetti sono state salutate sin dall'uscita come "classici" (a prescidendere dal valore dell'opera di Cognetti, questa fuffa di marketing va denunciata a tutti i livelli della filiera editoriale). Tutto questo per dire che, foscolianamente, pochissimo resta e ogni secolo produce pochissime opere durature. Una forza operosa le affatica di moto in moto e le opere e gli sforzi dei nostri giorni sono così digeriti e espulsi attraverso retto e ano dalla peristalsi del consumo. Ad alimentare e a contribuire alla formazione di nuovi amminoacidi di pensiero e azione resta ben poco, anche se è quel poco che diventa di volta in volta importante. Ora come ora non sappiamo se il caso di Parise, preso qui a mero esempio, rientrerà in queste poche opere di cui si parlerà tra settant'anni e più oppure se sparirà, ma serviva a ribadire che pochissimo resta. L'effimero ha varie gradazioni e poche sfumature in quanto è esso stesso ciò che sfuma.

E allora? Perché questi pensieri? Mi viene da dire che tutto il pensiero (e arrière-pensée) che riguarda la fama e i tentativi di indurla, magari con i moderni gratuiti strumenti di promozione, dovrebbe soccombere sotto il peso e la necessità di qualcosa di più concreto e immediato: la fame. Intendo fame di confronto e fame di leggere per rielaborare e interrogare, fame di nuovi dubbi e polemiche, di nuovi dossier che riguardino l'umano, il post-umano e l'extra-umano. La brama di fama, che oggi trova humus puzzolente nelle bacheche virtuali, è davvero il grande nulla con cui quotidianamente facciamo i conti ed è quello che ci sta divorando.

Sgomberato il campo da questi ostacoli e strutture d'impiccio - se mai sarà possibile lo sgombero - potrebbe diventare più facile parlare più o meno serenamente di temi plausibili e reali come la scarsità di risorse quali tempo e attenzione, la promozione (che non dovrebbe solo coincidere con l'autopromozione o col suddetto Fazio), i soldi, le vendite di un libro e la notorietà, che comunque resta necessariamente legata a una parentesi temporale circoscritta nella stragrande maggioranza dei casi. E potrebbe diventare più facile parlare dei temi e degli scopi che ci interessano quando sviluppiamo un progetto legato ancora alla forma del libro. Se le cose stanno circa così, perché non sfruttare le occasioni che la scrittura, la lettura e l'editoria offrono per riportarne il discorso su quello che ci interessa veramente fare, leggere, approfondire e possibilmente capire? Prima di tutto è un discorso di economia e igiene degli sforzi che profondiamo nei nostri giorni. Quanta energia viene quotidianamente profusa e sprecata nel tentativo di veicolare un qualche germe di fama o popolarità? Questo desiderio è trasversale e prende sia i giovani sia i più vecchi, ormai preoccupati (ossessionati?) dall'idea di poter in qualche modo gestire e veicolare la loro eredità letteraria. Si dimenticano però che l'eredità, se c'è qualcosa da ereditare, non apparterrà al morto ma da lui proverrà soltanto
.  

Riassumendo: le opere che non sono nate da una qualche necessità e da una qualche fame hanno avuto le gambe corte nei sentieri della chiara fama. Tutto il resto è noia (non ho detto gioia, ma noia).

giovedì 15 settembre 2016

La strana assenza della marca nella narrativa e nella saggistica. Riflessioni a margine di un incontro con Filippo La Porta e Riccardo Staglianò

Libri brevi che mi piacerebbe scrivere o trovare #12


Questa mattina ho assistito a un incontro con Filippo La Porta e Riccardo Staglianò. Sulla scia dei loro recenti libri, rispettivamente Indaffarati (Bompiani, pp. 180, euro 12, un estratto qui) e Al posto tuo (Einaudi, pp. 246, euro 18, un estratto qui), si sono affrontati i temi caldi del lavoro, delle nuove generazioni, del rapporto con la tecnologia e finanche il caso di qualche intellettuale che solipsisticamente crede che dopo di sé ci sia soltanto il nulla. Il mondo però va avanti anche senza di questi intellettuali e finalmente si inizia a parlare di questi temi con qualche sovrastruttura mentale in meno, evitando quella facile sociologia che diventa presto l'anagramma "ciò lo so già". Non ho ancora letto i due libri per intero, per cui può benissimo succedere che smentiscano quella che è la riflessione centrale del post, però l'incontro è risultato interessante e ha stimolato la lettura, anche in virtù di due diversi sguardi su una materia magmatica e sfuggente come quella del lavoro e del muro di cambiamento radicale su cui andranno a sbattere le generazioni di chi ha meno (ma anche più) di vent'anni oggi. Il fatto che debba ancora leggere i libri non è così fondamentale ai fini di questo post, per ora basterà darne notizia e riprendere i discorsi della presentazione odierna. Così l'appuntamento è descritto nel sito di Pordenonelegge:
Web e robot, dopo globalizzazione e finanza, stanno uccidendo la classe media. Perché piú le macchine diventano a buon mercato, piú gli esseri umani sembrano cari in confronto. Ma nello stesso tempo ognuno di noi è "indaffarato": sia nell'ansioso tentativo di restare sempre connesso sia nel condividere, nello scambiarsi qualcosa. Le nuove generazioni chiedono alle idee di incarnarsi in pratiche di vita e tentano di rideclinare il concetto di intelligenza e quello di impegno.
Insomma, dopo le "famiglie di operai licenziate dai robot" de Gli altri siamo noi di Umberto Tozzi si arriva a falcidiare anche i colletti bianchi. Lo spunto dell'incontro verteva infatti su uno studio che afferma che circa la metà delle professioni oggi conosciute verrà meno nel giro di vent'anni (Staglianò ricordava che ci sono ad esempio software che scrivono automaticamente perfetti articoli di sport e finanza, vale a dire le materie giornalistiche più ricche di dati). L'incontro è risultato interessante anche perché ha saputo evitare i soliti binari di "apocalittici" contro "integrati" su cui si incanalano spesso discussioni che partono da simili premesse.


Si è quindi parlato di lavoro, economia, del rapporto col "tempo libero" e anche della cosiddetta ossimorica sharing economy. Si è discusso a lungo del caso di Uber, in Italia ancora non così noto o così dibattuto, ma che ha raggiunto ormai una capitalizzazione di borsa vertiginosa e si è parlato della commissione che Uber chiede ai suoi tassisti "free lance". Insomma, non sono mancati spunti. Se però qualcosa è mancato nella discussione è il rifarsi alle marche (o ai brand, se preferite la parola facile inglese). Troppo spesso, a mio avviso, questi dispositivi e questi "attori" sociali così pervasivi nel mondo (e anche tra le generazioni più giovani) restano fuori da letteratura, saggistica e dibattiti in generale. Ripeto: potrebbe essere che i due libri trattino diffusamente delle marche e lo scoprirò leggendo (diciamo che se ci fosse stato il tempo, una domanda sulle marche ci poteva stare sulla scia dei discorsi emersi). Uno studioso come Vanni Codeluppi, nelle sue analisi biocapitalistiche, non ha mancato di studiare alcune marche come fondamentali attori del mondo d'oggi. Tuttavia, al di là di studi specialistici, mancano dei contributi che sappiano parlare delle marche come generatori di senso, valore e esperienza (oppure, se vogliamo rovesciare la frittata, di insensatezza, disvalore e inesperienza). Resta incomprensibile la ritrosia che riscontriamo davanti alle marche in tanti scrittori contemporanei. Voglio anche aggiungere che citare una marca in un romanzo o racconto non può più essere solo il facile giochino di affibbiare uno status symbol a un dato personaggio di una storia (ad esempio "indossava un Rolex" oppure "calzava le All Star" oppure "beveva un succo Alce Nero" oppure "anziché prendere un taxi aprì la app di Uber"). Le marche sono organismi complessi che ovviamente hanno a che fare con l'economia. I social network, tutti quanti, sono brand, anche se dobbiamo considerarli dei brand con delle caratteristiche innovative. Le marche hanno una lunga storia ormai alle spalle (pensate a Disney). In linea teorica, in un mondo piatto, ultra-informato e trasparente ci sarebbe sempre meno bisogno di un dispositivo come la marca, perché l'informazione facilmente accessibile renderebbe meno significative le caratteristiche storiche di orientamento e attrazione esercitate dai brand. Detto diversamente, un mondo del genere dovrebbe condurci a valutare più la sostanza e le caratteristiche di certi prodotti, a svantaggio dei motivi più irrazionali. Eppure non è così e lo vediamo sempre più, nei tanti piccoli o giganti brand che ci circondano e nelle relazioni che intratteniamo con loro. Inoltre, gli stessi architetti sono brand, gli autori sono costruiti come brand dagli uffici stampa altrimenti faranno fatica a esistere, le stesse case editrici sognano di posizionarsi come brand. Non parliamo di certi artisti che spesso coincidono con un mero brand name. Insomma, chi voglia confrontarsi con queste tematiche del lavoro e del cambiamento sociale credo debba prendere maggiormente in considerazione i grandi attori globali, nuove "mani invisibili", che stanno dietro un nome e un logo. Rimanendo nel campo della letteratura, che è quello maggiormente coinvolto in questo blog, fa impressione la distanza a cui le marche sono ancora tenute, quasi fossero parole impure che vanno a contagiare la purezza di un testo. Naturalmente ci sono delle eccezioni e ora mi torna in mente qualche libro di Romolo Bugaro, tanto per citarne una.

lunedì 12 settembre 2016

Un festival sulla traduzione dedicato a scrittori che risiedono a Londra?

Libri brevi che mi piacerebbe scrivere o trovare #11


Pieter Bruegel il Vecchio, Grande Torre di Babele, 1563
Settembre e in generale l'autunno sono periodi ricchi di festival. Ognuno di questi è ispirato di solito a un tema principale: scienza, letteratura, filosofia, storia, economia, politica ecc. Può succedere che la direzione di un festival accosti al tema principale anche un motivo o una linea guida alla quale intitolare l'edizione di un anno. Tra tutti i festival, fortunatamente ne esiste anche uno dedicato alla traduzione: si chiama "Babel" e si tiene in settembre a Bellinzona da dieci anni. Ho letto ieri nel sito "Le parole e le cose" che l'edizione 2016 "è dedicata agli scrittori di ogni lingua e provenienza che risiedono a Londra". Mi ha subito lasciato perplesso la scelta della linea guida: è sensato improntare, anche ad un livello comunicativo e promozionale, un'edizione di un interessante festival dedicato alla traduzione attorno a un criterio di "residenza in una città"? Non mi è sfuggito quel "di ogni lingua e provenienza" (aspetti coerentemente in linea con il nome del festival), non mi è sfuggito che siamo ancora freschi di Brexit (e difatti alla Brexit si fa riferimento nel sito della manifestazione) e non mi è nemmeno sfuggito il fatto che la città in questione sia Londra, ovvero un nodo importante, fondamentale e sicuramente vitale come possono essere anche New York, Berlino, Shanghai ecc. (chi dipingeva un secolo fa passava per Parigi, sempre e comunque, e il peso di certe città nel gran giro di quella cosa che chiamiamo cultura e economia della cultura si registra ancora oggi). Insomma, chi vi scrive è senza ombra di dubbio un provinciale, anzi, un campagnolo che vive in un posto dove la sera si levano ancora odori di letame frammisti a quello del nylon surriscaldato delle serre, ma non è così sprovveduto da non provare a immaginare quale caleidoscopio e molteplicità di esperienze possa offrire una città come Londra; tuttavia non riesco proprio a capire il criterio unificatore di questa edizione e mi sorprende ancor più che tale criterio, basato sul parametro della "residenza londinese", venga adottato in un festival dedicato proprio alla traduzione. Per anni ho pensato che la traduzione fosse tutto fuorché qualcosa di legato a un parametro burocratico come il posto di residenza. 

(Probabilmente mi starà sfuggendo qualcosa e mi piacerebbe trovare un breve libro-guida o qualcuno che mi spieghi perché invece ha senso strutturare il palinsesto di un festival sulla traduzione attorno al criterio di residenza in una data città degli scrittori invitati.)

giovedì 31 marzo 2016

"...del cul fatto trombetta": peti per poeti (qualche appunto sull'aria che tira)

Libri brevi che mi piacerebbe scrivere o trovare #10

Il dibattito attorno alla poesia e il meta-discorso che la avvolge da qualche tempo a questa parte stanno prendendo delle pieghe pericolose nonché, alla fine, assai noiose. Il fatto che siano pieghe noiose dovrebbe scoraggiare un intervento che le riguardi, ma la noia non si è ancora trasformata del tutto in indifferenza. Non sto parlando del discorso critico, bensì del discorso fatto da poeti e "operatori del settore" attorno alla poesia. Sembra che il piccolo mondo antico di chi nutre qualche interesse per la poesia (interesse intellettuale, ma anche economico o di prestigio e riconoscibilità) provi improvvisamente a mondarsi di tutti i risaputi vizi che lo attanagliano e che sono - ne elenchiamo alcuni così vediamo se è vero che repetita iuvant - un banale do ut des, clientelismo, logiche di cartello-servizio-favore, altre scorciatoie e situazioni in cui giudizio fa fin troppo rima con orifizio, il trascurare il progetto e l'opera, concetti troppo difficili ai quali si preferisce un più semplice ammaliamento per l'immagine di un autore o editore. Sono tutte problematiche di sfondo facilmente superabili, non sostanziali, a patto che si voglia veramente superarle o lasciarle sullo sfondo, dove possono tranquillamente rimanere senza troppo disturbare. Attenzione va prestata affinché queste problematiche di sfondo non intacchino la sostanza, se c'è, e non infestino tutti i pozzi. In questo scenario, mancava solo che si iniziasse a parlare di editori, collane e selezionatori "leali", di poesia "onesta" (vecchio cavallo di battaglia sabiano buono per tutte le stagioni, non importa se completamente avulso dal suo contesto originario), addirittura di poesia e poeti difesi e salvati da una legge apposita. Chi più ne ha più ne metta ed è prevedibile che a ridosso della Giornata mondiale della poesia si alzi il tiro e se ne sentano di cotte e di crude. Ognuno può raccogliere dati del genere da più fonti (siti, comunicati stampa delle case editrici, profili di social network, quarte di copertina, discorsi a festival e presentazioni ecc.). Si salvi chi può. E poi il c'è il fantomatico "lettore", questo Carneade: nominato, invocato, ripetuto come un mantra come se la ripetizione ne generasse miracolosamente di nuovi, protetto con un piglio da WWF o come ennesimo presidio Slow Food. Quanta inutilità e, nei casi peggiori, quanta velenosa approssimazione si cela tra questi discorsi? 

Nella maggior parte dei casi tutti questi dibattiti, discorsi e annunciazioni si riducono a grasso che cola, ad aria fritta, a peti centripeti buoni soltanto per gli stessi poeti, in un circuito che come noto si dipinge solitamente chiuso e centripeto, appunto. Bisognerebbe capire come si fa veramente a spalancare le finestre per cambiare l'aria viziata di quelle scoregge concettuali che insiste tra le stanze e i poetici salotti. Prendete il discorso attorno al lettore, questa (compatibile?) creatura sacrificata al moloc della lettura: il "lettore" non può essere dato una volta per tutte e studiato solamente con parametri sociologizzanti. Per me il lettore è una persona che in un dato momento della propria vita mette in gioco la propria intelligenza nella lettura (o rilettura) di un'opera testuale. Ora come ora non saprei trovare una definizione più aderente, tetragonale, puntellata sulle quattro parole che ho messo in corsivo, con particolare accento su opera, dal momento che persona, intelligenza e lettura sono chiamati in causa anche per leggere un commento su un social network o una comunicazione dell'Agenzia delle Entrate (e non fa male continuare a pensare che ogni OPUS è zero più pus, come scriveva Zanzotto). E poi il testo, il benedetto testo: dov'è finito in tutti questi discorsoni sulla poesia? Parimenti, la lingua: dove si è spostata la questione della lingua, la quale non può mancare in qualsiasi riflessione o dibattito sulla poesia che siano degni di questi appellativi?

Non è il caso di dilungarsi, basti esprimere ora un disagio ma soprattutto la necessità che si inizi a dibattere in termini mutati. Questo intervento non è uno sfogo. Di sfoghi abbiamo piene le tasche e non sappiamo bene cosa farcene ormai. Ognuno saprà trarre le proprie riflessioni e nei casi più fortunati le proprie conclusioni. Credo che sia utile sollevare dei dubbi sull'utilità di una certa "antifona delle virtù" che ci stiamo abituando ad ascoltare e a leggere ogni volta che l'argomento è la poesia e i guardiani del suo tempio salgono in cattedra. Io penso che la poesia stia di gran lunga meglio nell'incerto, soprattutto quando non è più di tanto invocata e tirata per la giacchetta per esplicitare strategie e visioni del mondo "leali", "buone", "generose", "eque", "politically correct" o "oneste". Ci manca solamente che a questa serie di aggettivi s'aggiunga la "purezza" e poi la palude sarà esiziale. In questo panorama il tanto vituperato "censimento dei poeti" di Pordenonelegge - criticato anche da chi ha poi partecipato - è meno problematico e pericoloso di quel che si possa pensare, è una pratica finalmente "empirica" e asettica (nonché un'operazione di web marketing semplice, economica ed efficace come poche altre ai tempi di Google). Molti discorsi ruotanti attorno alla poesia stanno diventando pericolosamente noiosi, ottundenti e ridondanti. Poco interessanti, in ultima analisi. La situazione è così già da un bel pezzo, ma mi pare che stia peggiorando a vista d'occhio. Lealtà e onestà restino fuori dai discorsi, restino sullo sfondo e in orizzonte, ma si eviti di nominarle troppo, perché più si tirano in ballo più si sente puzza di bruciato e di flatulenza nauseabonda. E infine non c'è niente da salvare e tutelare se non il testo poetico, che fra l'altro si salva e si tutela benissimo da sé, se è aggrappato a tappe e boe inaggirabili del pensiero e della storia, di un dato immaginario, di una lingua.

sabato 12 settembre 2015

Su una ipotesi di Pier Vincenzo Mengaldo, su lacerazioni e omologazione, su trauma e non trauma

Libri brevi che mi piacerebbe scrivere o trovare #9

Pier Vincenzo Mengaldo
Qualche settimana fa sul settimanale del Corriere della Sera "La Lettura" è apparsa un'intervista a Pier Vincenzo Mengaldo. Verso la fine lo storico della lingua e critico confessa la passione per gli scrittori israeliani sostenendo questo: "Parecchi anni fa ho formulato un’ipotesi: che cioè la narrativa migliore nasca in Paesi in cui la società e la politica pongano seri problemi nazionali, per esempio contrasti etnici, politici, religiosi. Paesi in cui le lacerazioni sono profonde, come Israele. Alla letteratura non fa bene un tipo di società omogeneizzata, come sono quella italiana o quella francese". Mi verrebbe da chiedervi banalmente se siete d'accordo con questa ipotesi, ma non avrebbe molto senso. Anche per Mengaldo - mi par di capire - si tratta pur sempre di un'ipotesi che andrebbe suffragata con un lavoro lungo, accurato e sicuramente controverso. Per restare sulla traccia, quale spinoso breve libro mi piacerebbe scrivere o trovare attorno a questa affermazione e al nucleo di riflessioni che la presuppone?

Provo ad andare con ordine, premettendo che di primo acchito non mi sono trovato in accordo con Mengaldo e che per nulla sono rimasto affascinato dall'ipotesi. La sua è un'affermazione che ci si aspetta da un uomo della sinistra che fu, come lui stesso si definisce all'inizio dell'intervista, quando giustamente lamenta la barbarie preoccupante a cui siamo giunti, anche in Italia. Si tratta di una ipotesi in larga parte ancora in scia ad una critica letteraria marxista: il contrasto e il conflitto da un lato, l'omogeneità e l'omologazione dall'altra, l'aspettarsi che la letteratura dia il meglio di sé nel conflitto, nello sporco, nel disastro. Fin qui niente di nuovo, mi pare. Ora, da Boccaccio in giù abbiamo tutti ben presente che cosa significhi il ritrovare nella letteratura il cosiddetto tessuto sociale, e lo avevamo appreso anche dallo studio della letteratura latina o in altre ancora. Se questo tessuto sociale è omogeneo (omologato?), poco contrastante, come potrebbe essere il caso attuale di Italia e Francia, ne deriverà anche una letteratura meno interessante e meno increspata, piatta (i dati sulla disoccupazione e disuguaglianza, italiana e francese, non mi spingerebbero a parlare in questo modo, ma tralascio, anche perché si rischia di riesumare i disastri della "letteratura del precariato" e del suo fetido marketing mix). A sostegno di tutto ciò, potremmo inoltre ricordare che dalle lacerazioni dell'epoca di Dante è scaturito quel poema inarrivabile che è la Commedia. Ma c'è una qualche originalità in un'affermazione come quella di Mengaldo? Si può considerare interessante a sua volta questa ipotesi? Vi ricordate Orson Welles ne Il terzo uomo? Intendo quella celebre battuta che vuole l'Italia delle lotte intestine, dei massacri, dei Borgia in grado di produrre Michelangelo, Leonardo e il Rinascimento, contrapposta alla pacificata Svizzera che in cinquecento anni non è stata in grado di produrre qualcosa di più rilevante degli orologi a cucù? Anche quella battuta può vicendevolmente stimolarci come anche lasciare il tempo che trova (magari domani potremmo scoprire che il vicino di casa dell'inventore degli orologi a cucù scrisse un poema magnifico). A mio avviso la debolezza dell'ipotesi sta nel continuare a far derivare una letteratura interessante da un contesto problematico di contrasti "etnici, politici, religiosi". Il punto su cui non possiamo più andare così lisci e tranquilli è la facile derivazione dell'interesse di una data letteratura nazionale dal coefficiente di lacerazione del contesto sociale nel quale questa sorge e si nutre.


Mengaldo definisce la sua come un'ipotesi, e allora mi chiedo anche quale genere di ipotesi sia un'ipotesi che collega con disarmante linearità la "narrativa migliore" ai "Paesi in cui la società e la politica pongano seri problemi nazionali". Interessante notare come nell'intervista Mengaldo parta dalla narrativa, per poi concludere più genericamente che "alla letteratura non fa bene un tipo di società omogeneizzata". Inoltre, in che senso intende questa ipotesi Mengaldo? Se, come credo, la intende in termini di ipotesi scientifica, non gli mancano certo gli strumenti o i dati per verificarla (cioè le opere dei narratori che spinti da contesti realmente problematici producono una narrativa migliore), se invece la intende dal punto di vista della logica, cioè come un enunciato assunto come dato allo scopo di verificarne le conseguenze e a prescindere dall'effettiva correttezza dell'enunciato, mi chiedo che cosa potrà sprigionare questo enunciato e dove potrà condurre. In altre parole, in questo secondo caso, mi domanderei se la sua ipotesi sia una buona, promettente e originale intuizione critica.

C'è da aggiungere, infine, che il ragionamento di Mengaldo, pur rimandando curiosamente e in modo interessante a contesti nazionali, si colloca in una cornice che è quella che ha elevato il trauma o l'assenza di trauma a grimaldello critico principale per spiegare pressoché ogni cosa in letteratura. E a me pare che abbiamo chiesto di spiegare un po' troppo al trauma e che ormai non ce la faccia più a darci delle dritte interessanti, nemmeno se con un'intuizione critica interessante, furba ma miope si pone l'assenza di trauma come centrale (si veda ad esempio lo stimolante libro di Daniele Giglioli, emblematicamente intitolato Senza trauma). In un librino allora mi piacerebbe provare a verificare quest'ipotesi, non tanto come ipotesi scientifica da suffragare coi dati, quanto piuttosto come enunciato secco che viene assunto per indagarne le conseguenze, a prescindere dalla sua correttezza e corrispondenza alla realtà. E quale sarebbe dunque il mio enunciato? Questo:  

Le potenzialità esplicative ed euristiche del concetto di trauma (e parimenti quelle del concetto di assenza di trauma) nella critica letteraria sono pressoché esaurite. Questo non significa espungere il trauma, reale o immaginario, dalla nostra epoca (così come non significa escludere comunque delle possibilità di "riabilitazione"). Significa, forse più banalmente, porre dei dubbi sulla progressiva inservibilità di un concetto abusato.

(Comunque scherzavo: sarebbe una perdita di tempo scrivere un libro del genere, mi bastava scrivere questo post.)

giovedì 16 luglio 2015

Meglio di uno specchio. Riccardi, Buttafuoco, Berardinelli alla notte bianca e fonda della poesia?

Libri brevi che mi piacerebbe scrivere o trovare #8

In questo spazio così titolato provo, di tanto in tanto, a fermare pensieri che mi vengono spesso su libretti che mi piacerebbe scrivere se avessi capacità, tempo, spazi o persino, ancora più presuntuosamente, un committente. Oppure, meglio ancora, librini che vorrei trovare già scritti brillantemente da altri. Libri piccoli, che provino ad affrontare temi o autori che già hanno una bibliografia, ma con la voglia di provare a dire cose nuove, magari correndo qualche rischio. Non occorre scrivere tanto, pensate a certi articoli filosofici brevissimi, a come hanno cambiato tutto. Scrivendone così brevemente qui, mi faccio passare l'idea di intraprendere tortuosi percorsi inconcludenti.

Prima è arrivata la notizia della fine del rapporto tra Antonio Riccardi e Mondadori, di cui era direttore letterario. Poi gli articoli di Alessandro Zaccuri su "Avvenire", di Pietrangelo Buttafuoco su "Il Fatto Quotidiano" e di Alfonso Berardinelli su "Il Foglio". Un piccolo fuoco è stato buttato attorno attorno alla poesia, al suo fiacchissimo mercato e attorno a un lutto probabile, ovvero quello immaginato per la più gloriosa delle collane di poesia italiane, Lo Specchio Mondadori (da tempo in queste pagine ne ho registrato agonia e cure palliative, pur tra alcune uscite interessanti). L'articolo di Berardinelli non è che un coacervo di cose risapute e ridette attorno alla poesia contemporanea, un facile gioco al ribasso che non aggiunge granché. A mio avviso rappresenta assai bene quel genere di articoli che non serve davvero a nulla, tantomeno a sorridere. Prendete ad esempio quel provare a dare dei numeri sulla quantità di poeti pubblicabili o prendete il raffronto con la narrativa (ma che senso ha? Che senso ha in quel punto dell'articolo?), o prendete l'ormai tipico deviare in corner sull'artigianalità (tipico rimedio da difensore cotto di stanchezza?) o il raffronto con l'opera d'arte la quale, fra l'altro, se vogliamo parlare di mercato, si trova in una situazione diametralmente opposta a quella della poesia, visto il suo essere oggetto di frequenti speculazioni del tutto analoghe a quelle della finanza. Questi ragionamenti che si pensano provenire da un critico sono normali pezzi giornalistici, poco critici e poco interessanti a mio modo di leggere, e non sono dissimili da quelli della stampa sportiva o musicale che da sempre crea le rivalità ad hoc, all'interno di una stessa squadra o band o tra due squadre o band diverse, per vendere qualche copia in più (la stampa giornalistica ha sviluppato se non altro un linguaggio originale e i titoli de La Gazzetta dello Sport talvolta sono uno spasso).

Ci sono molti discorsi più interessanti che si potrebbero affrontare, al posto di prolungarsi in simili articoli, occupando le pagine dei quotidiani e perdendo così il tempo (beninteso, uno il tempo può perderlo come gli pare, a maggior ragione se gli viene pagato, ma almeno si senta dire che quello che scrive non è interessante). Ad esempio potremmo ragionare attorno al "libro" come opzione paradigmatica; parallelamente potremmo ragionare attorno all'istituzione editoriale della "collana"; poi potremmo occuparci con più attenzione dei contesti in cui si continua a proporre la poesia; potremmo infilarci dentro anche qualche discorso sui nostri desideri (perché no?); poi potremmo smetterla di lamentarci ripetendo la solita solfa e potremmo fare molte altre cose. La vita è breve, si dice, e pare anche a me, anche se la nostra vita (media) è l'unità di misura con cui siamo soliti stabilire ciò che ha vita lunga o breve, aforismava Oscar Wilde. Se avessimo un po' più coscienza di tutto il nostro nulla, potremmo vivere con maggior profitto, economico ed etico, l'avventura della poesia sulla faccia della terra. Questa "arte e tecnica di comporre versi o, più generalmente, di esprimere in forme ritmiche estranee alla prosa idee, sentimenti e realtà" potrebbe infatti aiutarci a spaccare il mondo per vedere meglio che cosa c'è dentro e riesaminarlo dopo un po'.

Da un punto di vista personale mi interessa chi continua a scrivere e pubblicare poesia senza troppe fisime, paure e paranoie, cercare di ascoltare e scoprire prima ancora di capire, senza continuare a vivere circondato di tutte queste sovrastrutture vecchie come il cucco, intrise di discorsi raffazzonati, un patchwork che ora para sul mercato, ora sui rapporti di potere (potere?), ora sulle amicizie, su giochetti sporchi o sull'alternativa secca tra l'essere distrattamente mainstream vs. l'essere fieramente underground. Sono cose note che ormai lasciano davvero il tempo che trovano. Ci fa schifo provare a scrivere e basta? Ci fa schifo provare a leggere e basta? Ci fa schifo, se capita, vendere? Ci fa schifo capire quali sono i meccanismi della produzione e promozione di un libro e osservare cosa accade alla poesia nella sua attuale scompaginazione? Ci fa schifo provare a criticare con criterio, argomentare con argomenti, domandare con domande e magari rispondere con risposte che riformulino meglio le domande, sempre guidati da una incrollabile fede nel nostro nulla? Ci fa schifo tornare a conoscere quali poesie si scrivono in altre lingue e magari tradurle? Per ora non mi fa schifo nessuna delle attività elencate, per cui mi rammarico della sterilità di articoli come quello che adesso finalmente vi indico e per il quale sviluppo solo un senso di stanchezza inaudita. 

Se la collana Lo Specchio chiude allora non è, come scrive Berardinelli, perché non ci sono più poeti pubblicabili, ma magari per altri motivi meno notiziabili e meno sensazionalistici: avrà esaurito la propria funzione e l'energia, avrà smesso di produrre un pur piccolo utile all'interno di un gruppo editoriale che ha determinate logiche di utile e marginalità, avrà pure esaurito la forza attrattiva del brand e magari verrà solo silenziata per qualche anno, per essere rilanciata fuori tempo massimo quando il vintage non andrà più di moda, magari con l'originaria grafica di copertina. Chi vivrà vedrà: morto un Papa se ne fa un altro. L'unico punto di interesse sembra essere dove Berardinelli si pone il problema di cosa significhi essere leggibile, anche se, alla fine, mi è sembrato pure quello un problema mal posto. Meglio tornare a parlare di "opera" e di "abitazione/coabitazione di un'opera", e da parte di un autore e da parte di un lettore, anziché porre simili domande. Infine, al di là del verosimile calo dell'argent de poche dedicato ai libri, riflettiamo piuttosto sul perché ci sono molte più inibizioni ad acquistare (anche d'impulso) un libro di poesia, rispetto ad un romanzo o a un saggio. Forse perché la poesia manca di storia e manca di idee? Eppure a me pare che niente più della buona poesia - che ancora si fa in giro per il mondo - sia d'aiuto a chi si interessa di storia-delle-idee.

mercoledì 8 luglio 2015

Scienze della comunicazione o lo stile Fosbury

Libri brevi che mi piacerebbe scrivere o trovare #7

In questo spazio così titolato provo, di tanto in tanto, a fermare pensieri che mi vengono spesso su libretti che mi piacerebbe scrivere se avessi capacità, tempo, spazi o persino, ancora più presuntuosamente, un committente. Oppure, meglio ancora, librini che vorrei trovare già scritti brillantemente da altri. Libri piccoli, che provino ad affrontare temi o autori che già hanno una bibliografia, ma con la voglia di provare a dire cose nuove, magari correndo qualche rischio. Non occorre scrivere tanto, pensate a certi articoli filosofici brevissimi, a come hanno cambiato tutto. Scrivendone così brevemente qui, mi faccio passare l'idea di intraprendere tortuosi percorsi inconcludenti.

Appartengo alla popolazione dei laureati in Scienze della comunicazione, forse il corso di laurea più bersagliato e stigmatizzato d'Italia. Ci troviamo davanti a un paradosso: questo corso non ha saputo comunicare se stesso, tanto che molti - compresi gli imprecisissimi italici giornalisti della carta stampata - lo chiamano "scienza delle comunicazioni" o "scienze delle comunicazioni". In questo post non intendo addentrarmi sulle statistiche relative all'impiego di chi è laureato in scienze della comunicazione o sulla sensatezza del piano di studi. Immagino ci siano tanti occupati, disoccupati e inattivi per ogni corso di laurea attivato negli ultimi anni in Italia. La cosa che ogni tanto mi chiedo è come può questo corso di laurea essere via via diventato lo zimbello fra tutti i corsi di laurea, esempio paradigmatico del mutamento peggiorativo dell'università italiana, tanto da guadagnarsi epiteti e varianti come "scienze delle merendine" o "scienze della parlantina". Inizialmente è stato sicuramente osteggiato dall'imprecisissima corporazione giornalistica (vedi sopra), poi a livello trasversale tutti quanti si sono divertiti, in un crescendo assai conformista che non dovrebbe stupirmi in quanto comune, a dirne peste e corna, con una facilità che è simile a quella che comunemente si chiama in causa quando si dice "sparare sulla croce rossa".

Ho detto che non mi sarei addentrato ad analizzare il piano di studi, anche perché da quel che so questo corso aveva accenti assai diversi a seconda dell'ateneo in cui veniva attivato. Io ad esempio l'ho frequentato a Padova e posso dire che ho avuto docenti preparati. Una volta il più importante tra i professori che ho avuto disse, quasi per celia, che a Padova il corso era stato attivato da un gruppo di ubriaconi una sera a casa di qualcuno in un clima festaiolo. Non mi importava se fosse vero: in fondo, quale miglior viatico? Dico solo che a ben vedere forse non ha giovato alla storia del corso di laurea la presenza "organizzatrice" di Umberto Eco e forse nemmeno il volgere in negativo del paradigma (paradigma?) strutturalista nel campo delle scienze umane (eppure si studiava tanto De Saussure e Barthes quanto Adorno e Horkheimer). Se fossi banalmente mosso da istinti comparativi, potrei chiedere a quanti lo chiamano in causa con compiaciuta ironia, per ripicca, quanti laureati in lettere brillanti hanno incontrato nella loro vita, quale trasformazione abbia portato al pensiero il numero non esiguo dei laureati in filosofia, quale spinta innovativa ed economica abbia portato il numero dei laureati in economia oppure quale ingegnere vi abbia rapito con un'intelligenza senza pari. Sarebbe un esercizio insulso e una provocazione stupida. Ciò che non riesco però a spiegarmi bene è come e perché un singolo corso di laurea, un corso come altri e per di più istituito a numero chiuso in molti casi (quindi con un numero non esagerato di laureati), possa essere diventato paradigmatico di un certo modo di riferirsi alla cattiva università. Ad un livello pratico-organizzativo posso dire questo: dove ho studiato io si producevano molti testi scritti e il numero maggiore dei respinti si trovava proprio nelle prove di scrittura. In quante facoltà si scriveva prima della tesi? Pochissime e si tratta di un problema arcinoto.

Sarebbe interessante che qualcuno (magari proprio un laureando in scienze della comunicazione) indagasse sulle cause di questa cattiva fama, insomma, vorrei capire perché si va a parare sul caso particolare e non si resta sulla cattiva fama che investe il sistema universitario e scolastico nel suo complesso, il quale non può limitarsi a cercare facili capri espiatori da sbeffeggiare. Scrivendone ora dico anche questo: ho l'impressione sempre più netta che questa cattiva fama tragga origine della "corporazione" giornalistica la quale, agli albori del corso di laurea in Scienze della comunicazione, non tardò a mettere in opera una vera campagna diffamatoria, probabilmente dettata dalla più banale delle ragioni: la paura di una nuova concorrenza giovane, magari preparata, magari meno imprecisa. Fra l'altro molte teorie impartite a futuri insegnanti tramite SSIS SOS o TFA si insegnavano regolarmente a Scienze della comunicazione, che tuttavia non prevedeva alcun sbocco nell'ambito dell'insegnamento. Di sicuro Scienze della comunicazione ha scontato la mancanza di heritage e si sa che quello di heritage è un concetto "fuffoso" ma portante, tanto per vendere un corso di laurea quanto per vendere un paio di jeans. Molti corsi erano mutuati da corsi di laurea esistenti da decenni ai quali non era riservato un così feroce e sarcastico trattamento. Non si capisce perché questo corso, spesso a numero chiuso, dovesse diventare la quintessenza del peggio. Nell'impolverato bricolage dell'università italiana il corso di laurea in Scienze della comunicazione non è affatto lontano da quanto è accaduto in tutta l'università italiana nel suo complesso e pochi corsi di laurea, al di fuori di alcuni corsi scientifici, si sono attrezzati per interpretare il mondo di oggi. Da par mio, se mi fossi iscritto a scienze geologiche come inizialmente pensavo, ora sarei forse più cool. Mi chiedo poi: se avessi fatto fisica andrei in giro con quella rarefatta, indetermintata e distratta eleganza di certi fisici che sembrano sempre con la testa altrove? Mi piacerebbe. Confesso che nei momenti di maggiore sconforto più che alla fisica penso all'educazione fisica e mi domando se iscrivermi a scienze motorie e trasformare un po' la mia vita diventando un prof di ginnastica delle medie che insegna lo stile Fosbury.

martedì 28 aprile 2015

Giornate mondiali, libri, lettura, oscuramenti (e giramenti). Note sulla spettacolarizzazione di una pratica intima

Libri brevi che mi piacerebbe scrivere o trovare #6

In questo spazio così titolato provo, di tanto in tanto, a fermare pensieri che mi vengono spesso su libretti che mi piacerebbe scrivere se avessi capacità, tempo, spazi o persino, ancora più presuntuosamente, un committente. Oppure, meglio ancora, librini che vorrei trovare già scritti brillantemente da altri. Libri piccoli, che provino ad affrontare temi o autori che già hanno una bibliografia, ma con la voglia di provare a dire cose nuove, magari correndo qualche rischio. Non occorre scrivere tanto, pensate a certi articoli filosofici brevissimi, a come hanno cambiato tutto. Scrivendone così brevemente qui, mi faccio passare l'idea di intraprendere tortuosi percorsi inconcludenti.

Giornate mondiali spuntano come funghi, di questo e quello. Mi pare stiano aumentando. Spesso nascono da un flebile tentativo promozionale e non di rado rischiano di fallire l'obiettivo per il quale erano sorte. Tutto rischia di ridursi e tradursi in qualche "viralità" internettiana e ben che vada in qualche nuovo #hashtag. Il mondo legato all'editoria libraria, ad esempio, mi pare affronti con imbarazzo e scelte annaspanti (o quantomeno discutibili) tutto questo sconquasso che ha investito il mondo della carta. Nessuno sta insinuando che sia facile far navigare le barche delle case editrici nelle acque del presente, si sta solo insinuando il dubbio che certe mode e tendenze siano davvero efficaci ad un livello promozionale. Alcuni di voi avranno notato l'oscuramento del sito Treccani durante la recente giornata mondiale del libro, con un invito chiaro: "Andate a leggere". Questa mossa, sicuramente forte e sicuramente pubblicitaria, mi pare però viva chiaramente su un fraintendimento vecchio come il cucco, ovvero sul continuare a intendere Internet e libro come mondi separati, quando non addirittura conflittuali. Ad un livello tecnico è l'interruzione volontaria di un servizio solitamente erogato da Treccani 24/7; ad un livello pratico il rischio della mossa di quella giornata è stato un cortocircuito, ossia l'eventualità di creare utenti indispettiti soprattutto fra coloro che i libri continuano ad alimentarli (leggendoli, scrivendoli, traducendoli e soprattutto comprandoli!). Io non credo che Internet abbia ucciso il libro (posizione degli apocalittici?) o che Internet sia un formidabile alleato per la rinascita del libro (posizione degli integrati?). Bisogna poi capirsi bene, visto che non c'è alcun bisogno di "rinascita del libro", semmai si persegue la "ripresa del mercato librario" che è una cosa diversa e si indagano le cause della disaffezione ad un certo tipo di lettura (per altri aspetti viviamo in un'epoca che legge molto più di altre, non ce ne rendiamo conto?). Quello che so è che di calendari me ne basta e avanza uno, che in un certo modo già subisco. Quello che vedo come un futuro non distante è che oltre al calendario normale potremo avere un calendario parallelo che ci ricorderà che il giorno tal dei tali è la "Giornata mondiale di questa cosa", mentre il successivo la "Giornata mondiale di quest'altra cosa". Non sto dicendo che qualsiasi ricorrenza sia inutile, ma c'è questo rischio di vanificarne il senso. E anche questa nuova "calendarizzazione" in realtà obbedirà a criteri promozionali (criteri nemmeno della più nobile specie). Probabilmente, quando scopriremo di aver tirato troppo la corda, torneremo indietro e ci inventeremo qualcosa di diverso. E così via. Il ripensamento comunque non può essere attorno all'oggetto libro, oggetto e tecnologia già formidabile (davvero una killer application, con buona pace dei libri Flipback®, simpatica idea in tempi di smartphone). Il ripensamento passerà allora per forza altrove, anche nel dirsi chiaramente che nessuna iniziativa promozionale o giornata mondiale decisa a tavolino potrà aumentare la lettura come pratica di intimità: direi dunque che #ioleggoperché sono affari miei (semmai #ioparlodiunlibroperché). Insomma, si prova a rilanciare la lettura fraintendendone clamorosamente la natura. Del resto tutto ciò si cala in un processo più generale e trasversale che non riguarda solo i libri e la lettura, ma che travolge, nella chiassosa e ridanciana tregenda che stiamo attraversando, anche altre sfere come quelle della cucina e del cibo, del lavoro, dei viaggi, delle relazioni sociali e non ultima quella della sessualità.