Rievocando i suoi esordi di lettore, Javier Marías non ha potuto fare a meno di ricordare quanto il bizzarro paesaggio della biblioteca di famiglia abbia contribuito a dar forma al suo destino. Steso sui suoi oggetti d’amore era un immenso tappeto formato da dipinti e disegni adibiti a sportelli-finestre: anziché limitarsi a prendere un libro dallo scaffale, in casa Marías si doveva per prima cosa spostare una tessera del mosaico d’immagini sovrapposto alla libreria dai suoi genitori. «Ogni volta» continua lo scrittore spagnolo «che vedo un dipinto a una mostra o in un museo, devo reprimere il riflesso condizionato che mi porta ad ‘aprirlo’ per tirar fuori un volume di Kierkegaard o Aristotele, come se le immagini non fossero che casseforti dietro le quali scoprire i più grandi tesori bibliografici». Sogno segreto degli amanti dell’ecfrasi alla rovescia (così Calasso in L’impronta dell’editore), la biblioteca-Wunderkammer di Marías riporta alla mente il rapporto decisivo tra l’oggetto libro e l’immagine che ce ne svela la soglia. Scegliere una copertina, spiegava Calasso, richiede un’abilità negromantica: come scovare un’immagine che trasmetta l’eco ottica dell’atmosfera d’un romanzo o d’una raccolta di racconti, aprendo uno spiraglio che incuriosisca il lettore? È più opportuno dare un’interpretazione letterale, o è lecito discostarsi dal testo di partenza? Quali le conseguenze di una decisione sbagliata?
Jhumpa
Lahiri è tornata
su questi temi in Il vestito dei libri (Guanda 2017, pp. 78), sinuoso
saggio da aggiungere a un ideale scaffale sui rapporti inter artes, tra
Il capolavoro sconosciuto e Il rosa Tiepolo. La gestazione del libro
è già di
per sé interessante.
Pensato in italiano per il Festival degli Scrittori Gregor Von Rezzori nel
2015, è stato
tradotto in inglese e poi pubblicato da Knopf e da Penguin Random House col
titolo The clothing of books dopo un’attenta revisione d’autore;
da questa versione Lahiri è partita per
autotradursi nuovamente in italiano. A questo salto linguistico-editoriale
corrispondono - sommo potere dell’ecfrasi - tre
traduzioni visive del testo. Il libello bilingue del festival è una
pubblicazione volutamente in minore: caratteri neri e rossi si stagliano su un
neutro sfondo beige, velato solo dal logo della manifestazione. Da un
cortocircuito dell’inglese, per cui sovraccoperta è “jacket”,
prende invece le mosse la copertina italiana; il titolo è avvolto
in due lembi d’una
giacca blu, trasposizione sans serif dei dipinti di Domenico Gnoli. L’edizione
Penguin rende più astratto il gioco
verbo-visivo dell’italiana: le uniche forme presenti
sono il nome dell’autrice e il titolo, presentati in un
carattere che evoca le cuciture dei vestiti (e l’infinito taglia-e-cuci
di ogni scrittura).
A
legare i tre elementi - testo, lingua, copertine - è il
concetto di traduzione, fondamentale in questo e in altri libri di Lahiri.
Indagare il rapporto con gli equivalenti visuali della sua opera in diversi
paesi significa innanzitutto interrogarsi sulla propria identità:
«Come sono vista, percepita, letta? Scrivo per evitare la domanda, ma anche
per cercare la risposta».
Associare l’idea
della copertina a quella della divisa sarà allora
inevitabile. Lahiri si trova a rievocare l’invidia provata da
piccola per quelle dei suoi cugini di Calcutta, in grado di garantire un’identità forte
e un anonimato impossibile da raggiungere per lei, di famiglia indiana ma
cresciuta in America. La scelta dei vestiti non è che
una spia del suo incessante oscillare tra due lingue e culture in cui mai è riuscita
a riconoscersi del tutto — unico
rifugio, la parola scritta. Tra le sue copertine, non è un
caso che all’autrice
piaccia molto quella dell’edizione americana
di In altre parole, sua prima prova narrativa in italiano:
la vediamo perfettamente a suo agio in uno dei luoghi del cuore, il Centro
Studi Americani di Roma, circondata da una calda coltre di
libri.
Come
il precedente, anche Il vestito dei libri è legato
a doppio filo con le nuove prospettive aperte dal soggiorno italiano: l’idea
di scrivere su questo tema è nata,
oltre che dalla lettura d’un saggio di Lalla
Romano sulla grafica Einaudi, dal fatto stesso di avere pochi volumi in casa
(sistemati sugli scaffali con le copertine in vista, come i quadri-sportello di
Marías).
Nell’analizzare
il rapporto con la prima immagine che lo scrittore dà agli
altri di sé,
Lahiri traccia un autoritratto che contiene quel che è stata
e non è più.
Ne emerge una forte nostalgia per il libro nudo, letto nel silenzio d’una
biblioteca e non oscurato dal pulviscolo dei blurbs e da altri elementi
della grammatica pubblicitaria. «La copertina è superficiale, trascurabile, irrilevante rispetto al
libro. La copertina è una componente
vitale del libro. Bisogna accettare il fatto che entrambe queste frasi sono
vere»,
conclude Lahiri, svelando una diffidenza difensiva derivante dallo scarso
controllo che in ambito anglosassone l’autore esercita sull’aspetto dei propri libri.
Eppure non si può dire che non sia
stata fortunata, almeno in Italia (le sue edizioni sono state ‘vestite’ dai
bravi grafici Guanda). Forse però la
voce arieggiata di queste pagine avrebbe meritato le visioni d’un
pittore: sembra già sentirla risuonare
nei riflessi d’un
Morandi, nelle marine con conchiglie di De Pisis.
Eloisa Morra
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