Simone
Burratti, Silloge senza titolo
Una
citazione, attribuita ad un regista cinematografico, precede le quattro prose
di Simone Burratti, chiamando in causa superbia ed eccesso di umiltà. Dopo
questo, forse, un individuo; o una presenza-assenza, poiché fuoricampo; oppure la ripetizione ad libitum del
calco di se stesso, che ci ritrova tutti uguali. Gioco o son desto? AVATAR, 11H
(NUOVI MODI PER USCIRNE), ESORCISMI e TRUE ENDING sono i titoli dei testi dal
linguaggio medio e senza punte, in cui solo poche spie, distrattamente,
rimandano ad aree più specifiche (avatar, gandharva, kitsune, jinn,
trickster, Majora's mask, I Ching, azioni prerenderizzate). Se l'intenzione
è di scrivere o parlare di una condizione di quasi divina indefinitezza, S. è
il personaggio pretesto per farlo, caratterizzato a principio da una realtà che
è tangibile grazie almeno ai suoi moti corporali, ed il cui pensiero si
confonde con i gas intestinali. Se è mai veramente comparso, S. riappare solo alla
fine, nell'unica azione volitiva di eclissare il sole del cielo-schermo,
collocandogli sopra la sagoma-icona del cestino. Da dove proviene la voce che
scrive? Dove risuona la voce inscenata dall'autore? Se di scena si tratta, essa
è sfocata, anche se nitida (ma senza più pareti) è la stanza-corpo dove
l'individuo si colloca, bloccato in profezie che si autoavverano,
impossibilitato ad uscire da un luogo che non è chiuso, ma con quel poco di
nozioni in saccoccia per farsi beffe anche della propria condizione d'inetto.
Tra «mura invisibili che si alzano virtualmente» e «realtà in bianco e nero»,
la contemplazione
si riduce ad un'attesa presso il cellulare-oracolo, nella dilatazione temporale
data dalla prevalenza del tempo verbale presente.
Alessandra Conte
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