Sabato 3 agosto al teatro Manzoni di Paese (Treviso) potrete ascoltare Giulio Casale e il suo Da Gaber al futuro. L'occasione di questo spettacolo mi ha fatto tornare alla mente una vecchia intervista che feci al cantante degli Estra qualche anno fa per la rivista "Che libri". Era da poco uscito un volume di racconti dal titolo, per me irresistibile, di Intanto corro e quei racconti costituivano il filo di quella nostra breve conversazione. Giulio Casale (Treviso, 1971) è figura pressoché unica nel panorama italiano: attore, scrittore, cantautore, interprete della complessa arte del teatro-canzone. Negli anni Novanta è protagonista della scena musicale quale leader del gruppo rock Estra, con cinque album all’attivo. Nel 2000 pubblica il libro di poesie Sullo Zero. Al disco omonimo che ne documenta il reading dal vivo vengono assegnati il Premio Mariposa (2002) e la Targa Premio Grinzane Cavour (2003). Nelle stagioni teatrali 2006/2008 propone nei teatri italiani Polli di allevamento di Giorgio Gaber e Sandro Luporini, spettacolo premiato come miglior atto di prosa del 2007 con il Premio Enriquez. Ha elaborato drammaturgicamente i testi di Mario Capanna sul ’68 per lo spettacolo Formidabili quegli anni, da lui stesso interpretato, che ha debuttato al Teatro Strehler di Milano nella primavera del 2008. È traduttore dei testi di Jeff Buckley (Dark Angel, 2007). Intanto corro, il libro uscito per Garzanti nel 2008 (pp. 144, euro 11,90, ancora in commercio), costituisce il suo esordio narrativo.
Smarrirsi
e ritrovarsi nella città dell’ultimo uomo
Intervista
a Giulio Casale
di
Alberto Cellotto
AC: Partiamo da una cosa che si legge nei ringraziamenti di Intanto corro. Lei ringrazia Anna Maria Carpi, una tra le più
importanti voci della poesia italiana, per averla distolta, durante un viaggio
in treno, dalla "concettualità". Com'è andata effettivamente?
GC:
Era subito dopo il bel riscontro che avevo avuto con le poesie di Sullo Zero,
mi ero preso la briga di elaborare una lunga prosa che potesse essere una sorta
di “come io vedo il mondo”. Lei fu molto benevola e affettuosa, lesse il tutto
e mi consigliò di volgerlo in senso narrativo, lasciando che le mie idee
trasparissero dal racconto e non viceversa. Ci sono voluti anni e alla fine
eccoci qua. Ma Anna Maria non lo sapeva che Intanto Corro nasce da quel
lontano suggerimento. Io pago sempre i miei tributi, e l’ho voluto scrivere in
appendice, in segno di gratitudine, e di vera stima, non solo artistica.
AC: Intanto corro è un esordio narrativo che arriva da un
artista che ha davvero provato molte strade e tutte con successo di pubblico e
critica. Ma come è arrivato a scrivere racconti? Ci pensava da molto?
GC:
Ho sempre scritto, fin dal liceo, ogni sorta di genere: la scrittura,
l’autentica “passione” (il patire) per la pagina, per la parola esatta da
scrivere è propriamente ciò che tiene insieme le mie diverse anime. Anche
l’amore per il teatro forse viene dalla forza (a volte sconvolgente) delle
parole, meglio se pronunciate nel buio, se rompono un silenzio perfetto. Perciò
sì, ci pensavo da molto, perché scrivo da molto, poi la vita è fatta di
occasioni e questa, arrivata grazie all’editore Garzanti, mi è sembrata
semplicemente bella, e ancora una volta “appassionante” al punto giusto.
AC: Questi racconti si rivolgono al lettore nella loro brevità, incisione e varietà di temi e situazioni. C'è un tema che le piacerebbe continuare ad esplorare in una forma di più ampio respiro?
GC:
In generale il filo rosso che lega tutto quanto io abbia prodotto sin qui mi
pare sia l’attenzione al nostro “di dentro”, al nostro smarrirsi e ritrovarsi,
anche un po’ misteriosamente, e non senza dolore, ahimè. Diceva Céline: come
lavoro ce n’è per una vita intera. In particolare il tema della morte, della
nostra incapacità di com-prenderla, di accettarla, lì i motivi sono infiniti,
davvero.
AC: Intanto corro è un titolo fortemente provvisorio, con quell'avverbio posto in posizione iniziale. C'è una sensazione di forte provvisorietà nei racconti del libro, c'è attenzione alle mutazioni grandi o piccole che caratterizzano quest'epoca e i nostri paesaggi, mentali o esterni che siano. Ma c'è anche un senso di stordente fissità, di immobilità quasi come le mutazioni continue del reale producessero un effetto a somma "zero". Si ritrova in questa osservazione?
GC: Sì, direi di sì. In molti racconti ciò che prevale è un senso di azzeramento finale rispetto al nostro aver tanto progettato, architettato, incanalato percorsi individuali in gabbie sicure e moderne che però mostrano tutta la loro fragilità in momenti decisivi, direi “rivelativi”. Lo stile doveva essere in grado di rendere conto di tutta questa complessità, a maggior ragione dato che si tratta spesso di situazioni tratteggiate con la massima sintesi possibile. La provvisorietà è per me un sentimento ambivalente per eccellenza: noi umani siamo provvisori costitutivamente, ma è proprio in questa parzialità, e però in questa consapevolezza che si può dare, e magari diventare, un raggio di luce, per sé e per gli altri.
AC: Intanto corro è un titolo fortemente provvisorio, con quell'avverbio posto in posizione iniziale. C'è una sensazione di forte provvisorietà nei racconti del libro, c'è attenzione alle mutazioni grandi o piccole che caratterizzano quest'epoca e i nostri paesaggi, mentali o esterni che siano. Ma c'è anche un senso di stordente fissità, di immobilità quasi come le mutazioni continue del reale producessero un effetto a somma "zero". Si ritrova in questa osservazione?
GC: Sì, direi di sì. In molti racconti ciò che prevale è un senso di azzeramento finale rispetto al nostro aver tanto progettato, architettato, incanalato percorsi individuali in gabbie sicure e moderne che però mostrano tutta la loro fragilità in momenti decisivi, direi “rivelativi”. Lo stile doveva essere in grado di rendere conto di tutta questa complessità, a maggior ragione dato che si tratta spesso di situazioni tratteggiate con la massima sintesi possibile. La provvisorietà è per me un sentimento ambivalente per eccellenza: noi umani siamo provvisori costitutivamente, ma è proprio in questa parzialità, e però in questa consapevolezza che si può dare, e magari diventare, un raggio di luce, per sé e per gli altri.
AC: Da leader di un gruppo rock in un’epoca pre-mp3 ad autore della contemporaneità dei nuovi media. Un cambiamento che ha mutato anche il suo modo di rapportarsi con le persone che la seguono e la stimano da tempo? Che rapporto ha con queste?
GC:
Continuo ad essere molto poco affascinato dai nuovi media. Li uso, li frequento
come si frequenta un centro commerciale…
AC: Una
cosa che mi ha colpito subito leggendo il suo libro è che si presenta popolato
di personaggi di tutte le epoche. Sembra quasi che ogni fascia anagrafica trovi
posto nei racconti (dall'adolescente, ad un ipotetico suo coetaneo, alle
persone più anziane). Tra queste età, ce n'è una che la incuriosisce in
particolar modo dal punto di vista della ricerca artistica, un'età nella quale
ravvisa degli spunti interessanti per leggere il nostro tempo?
GC: I due estremi mi paiono altrettanto significativi, e perciò su di loro ho insistito un po’ di più nel libro: gli adolescenti e gli anziani. I primi del tutto in balìa della contemporaneità, indecisi fino all’osso se combatterla o sguazzarci dentro, sperando ancora e soltanto nel “successo”, e i secondi un po’ spaesati un po’orgogliosi di aver saputo tener duro, di aver resistito a tanto, anche a tanto orrore, con davvero infinite storie da raccontare, storie che a un ragazzo, oggi, suonano proprio come storie dell’altro mondo…
GC: I due estremi mi paiono altrettanto significativi, e perciò su di loro ho insistito un po’ di più nel libro: gli adolescenti e gli anziani. I primi del tutto in balìa della contemporaneità, indecisi fino all’osso se combatterla o sguazzarci dentro, sperando ancora e soltanto nel “successo”, e i secondi un po’ spaesati un po’orgogliosi di aver saputo tener duro, di aver resistito a tanto, anche a tanto orrore, con davvero infinite storie da raccontare, storie che a un ragazzo, oggi, suonano proprio come storie dell’altro mondo…
AC: Milano, anche se non da sola, ha una parte importante nel libro, nonostante
sia questo un libro itinerante dove la strada diventa spesso protagonista. Lei
ha vissuto per molti anni anche nella provincia (in molti ricorderanno l'album Nordest Cowboys dei suoi Estra) prima di spostarsi a Milano. Come ha influito
questo trasferimento nel suo percorso di avvicinamento alla narrativa? Che
rapporto ha con due città diverse come Treviso e Milano?
GC:
Milano, come dice Milo De Angelis, è “la città dell’ultima volta”, e io
aggiungerei dell’ultimo uomo, avamposto di una decomposizione soggettiva che
non può che essere insieme anche una ennesima trasformazione: dal mio punto di
vista Milano è il set ideale per quasi ogni vicenda, metropolitana e non solo.
Ammetto che forse non avrei scritto lo stesso a libro, seduto alla finestra di
una stanza trevigiana… E, se può interessare, da quando sto a Milano
(dall’inizio del millennio) sono molto più prolifico, forse molto più
sollecitato da una realtà concreta che non è affatto quella delle cronache o
dei tiggì. Direi che l’unico racconto in qualche modo riferibile alla
sociologia del Nordest d’Italia è quello intitolato Tornando indietro.
AC: Sta portando in giro Intanto corro con diversi reading musicali. Ha già detto che la forma del reading musicale le è particolarmente congeniale, che per lei è stata quasi una scoperta ai tempi di Sullo Zero. Può dirci perché? Cosa accade di particolare in questi momenti?
GC:
Accade che la parola scritta diventa suono. Accade silenzio, dialogo tra chi
ascolta e me che è innanzitutto intessuto di pause, di vuoti così intensi da
far tremare. Poi io non scrivo un racconto pensando che dovrò leggerlo ad alta
voce, non mi sfiora, è qualcosa che avviene dopo, direi molto tempo dopo,
quando un libro è finalmente fuori di me, del tutto o quasi.
AC: Ci indica i titoli di tre libri che ultimamente l'hanno particolarmente colpita?
GC:
L’ultimo di Marco Lodoli, Sorella, è davvero bellissimo, oltre alla figura
umanissima e infine perfetta della suora c’è questo personaggio non
protagonista maschile degno del più grande cinema. In poesia sono ancora alle
prese con l’opera omnia di Milo De Angelis, c’è tanto da scavare lì dentro, non
trovo ancora il fondo. Poi Houellebecq, che mi pare confonda ancor più le acque
con questo saggio La ricerca della felicità, ma sento che col suo cervello
devo farci i conti, in un modo o nell’altro.
AC: Scorrendo la sua bibliografia recente, non è difficile notare la presenza di
due numi tutelari nel suo percorso d'artista. Da un lato Giorgio Gaber e il
teatro canzone che lei sta riproponendo con successo, dall'altro Jeff Buckley,
la cui breve parabola poetica e musicale ha segnato profondamente gli anni 90.
Facciamo un esperimento mentale e facciamo incontrare Giorgio Gaber e Jeff
Buckley. Secondo lei cosa farebbero, di cosa parlerebbero? In altre parole,
cosa accomuna la loro arte se qualcosa di accomunante c'è, o, diversamente,
cosa tiene assieme in una fusione Giulio Casale della loro opera?
GC: In loro convive la fatica della ricerca e l’essere infaticabili, rigorosi nelle coraggiose prese di posizione e nell’arte che da lì scaturisce. Certo, per molti versi sono imparagonabili, ma c’è un individualismo così forte in entrambi (che a me sa già di liberalesimo, in tutti i sensi) e una così palpabile tensione verso il bello ed il giusto (per tutti) che mi sa che non sarebbe impossibile un’intesa, un dialogo che sarebbe innanzitutto un dialogo intergenerazionale oltre che internazionale. Gaber poi deve molto a Brel, e Brel come il giovane Buckley dava l’idea di cantare tutte le volte come se potesse essere l’ultima. E qui mi ci ritrovo anch’io, ecco, direi da sempre.
GC: In loro convive la fatica della ricerca e l’essere infaticabili, rigorosi nelle coraggiose prese di posizione e nell’arte che da lì scaturisce. Certo, per molti versi sono imparagonabili, ma c’è un individualismo così forte in entrambi (che a me sa già di liberalesimo, in tutti i sensi) e una così palpabile tensione verso il bello ed il giusto (per tutti) che mi sa che non sarebbe impossibile un’intesa, un dialogo che sarebbe innanzitutto un dialogo intergenerazionale oltre che internazionale. Gaber poi deve molto a Brel, e Brel come il giovane Buckley dava l’idea di cantare tutte le volte come se potesse essere l’ultima. E qui mi ci ritrovo anch’io, ecco, direi da sempre.
AC: Per finire un richiamo alle origini. Lei è laureato in filosofia. In che
modo questi studi hanno fatto da contrappunto alla sua poliedrica figura di
artista (da cantante ad attore, da poeta-traduttore a narratore)?
GC:
Credo davvero che senza quello, senza quel percorso di conoscenza tortuoso ed
eccitante, la mia arte sarebbe poca cosa, o troppo istintiva per pretendere
grazia. Ma delle cose così preziose si parla poco, e con parole che accennano
appena, se no già è un tradimento. Perciò mi fermo qui, grazie.
Ma perche' SULLO ZERO non si trova più... me lo prestarono e fu una bella lettura... ma trovarlo ora... bravo Giulio!
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