Il testo che segue è stato pubblicato sul sito del premio di poesia "Castello di Villalta". Il 28 luglio si tiene nella cornice del castello la presentazione dei tre finalisti (questo il programma della giornata). Sono Stefano Dal Bianco con Prove di libertà (Mondadori), Enrico Testa con Ablativo (Einaudi) e Franca Mancinelli con Pasta madre (Aragno). Sono tre libri dei quali, tra l'altro, ho già scritto su queste pagine. La rosa di tre finalisti è nata a partire da una rosa di sei che prevedeva anche i libri I padri di Giulia Rusconi (Ladolfi), Città alla fine del mondo di Tiziano Broggiato (Jaca Book) e Quando avrò tempo di Anna Maria Carpi (Transeuropa). Il sito internet del premio si trova a questo indirizzo e ospita molti interventi e recensioni (costituisce uno dei più vivaci esempi di blog-sito internet dedicato a un premio di poesia). Quattro libri su sei hanno già trovato spazio su queste pagine dedicate ai libri brevi. E pure gli altri due meritano attenzione. Anzi... uno dei due libri che non recensito è... no, non vi anticipo nulla.
Mi è stato chiesto un commento sui sei finalisti del Premio di poesia
“Castello di Villalta”. Ringrazio la giuria per fidarsi del parere di uno che
talvolta scrive come un ubriacone. E non è sempre vero che in vino veritas…
Faccio allora un esperimento mentale e mi immagino un appassionato
lettore di poesia che tra duecentosettantatre anni si troverà a frugare negli
archivi del premio (o del castello) per capire cosa si scriveva e cosa veniva
premiato attorno all’anno 2013 in una certa area d’Italia. Credo che questo
curioso, che per comodità chiameremo il signor Castello, ne ricaverebbe uno
spaccato abbastanza significativo, uno spaccato utile per ripartire con altre
ricerche; troverebbe insomma sei buoni (se non ottimi) libri. Evidenzio la parola “libri” perché tornerà utile alla fine
di questo intervento. Dico questo perché sono convinto – e lo evidenzio già
nelle prime battute - che alla fine i sei titoli usciti dalla giuria rappresentino
una valida rosa per incominciare a parlare della scrittura poetica in lingua
italiana in quel frangente di tempo previsto dal regolamento del premio.
Insomma, sono anche ottimi pre-testi. Poi, si sa, è probabile che il miglior
libro della stagione sia rimasto fuori perché banalmente pubblicato un mese
prima o un mese dopo i termini previsti dal regolamento. La domanda che noi
potremmo farci suona circa così: quali di queste forme racchiuse in questi sei libri risplenderà ancora tra
duecentosettantatre anni? Quali temi faranno vibrare i nervi nel signor
Castello? La risposta è ovviamente sconosciuta ed è meglio così.
Ma torniamo al signor Castello. Potrebbe accadere che il nostro signor
Castello osservi i primi esiti della giuria incrociando una misteriosa,
ricorrente ed esoterica espressione che ha intercettato sui giornali del tempo:
“quote rosa”. (Il nostro signor Castello ha ancora l’inspiegabile vizio della
ricerca in archivi/ripostigli del passato e in questo è un tipo solitario.) E
poniamo che si interroghi sulla casualità/intenzionalità della presenza di 3
voci maschili e 3 voci femminili. Stacco e ritorno in me. Io mi auguro che
questa parità sia casuale (e ne sono in fondo abbastanza certo), anche perché
voglio sperare che alla prossima edizione del premio, se opportuno, ci saranno
sei voci femminili in finale e a quella successiva, se opportuno, 5 voci
maschili e una soltanto femminile. Insomma, giocate come volete coi numeri,
basta che la somma dia sempre 6 e basta che non cambi il regolamento. Un premio
è un gioco con una giuria, come una gara di ginnastica o tuffi, e il bello è
anche questo. A volte vince il gesto (libro) migliore, non il migliore poeta. A
volte neanche quello. In fondo un certo spirito agonistico non è mai
mancato alla storia delle poesie. Ma se gara c’è, qui non si separa la
competizione per genere, uomini e donne competono assieme. L’agonismo rimane, a
maggior ragione in un ambiente distratto dove si sgomita (e per giunta,
talvolta, dopato) come quello della poesia e della sua lettura/circolazione.
In poesia, ho sempre dato qualche chance in più all’anagrafe dell’età
rispetto a quella del genere (su binari simili mi pare scorra la ratio sottostante all’inedita
composizione della giuria del premio, con componenti senior e junior).
Distinguere, fino a farne quasi un baluardo critico, tra poesia maschile o
femminile ha per me quasi lo stesso valore della distinzione tra la poesia di
poeti biondi e mori. Parlatemi piuttosto di poeti pronatori e poeti supinatori,
ditemi come appoggiano il piede e quali parte della suola delle scarpe
consumano per prima. Esiste la poesia, quando e dove esiste. Stop. Il dato
biografico e di genere ha valore fino a
un certo punto. Ci interessano le opere.
Mi è stato chiesto di essere breve e allora concluderò il mio intervento
con qualche frase legata a ciascuno di questi libri, alle opere appunto. Di
quasi tutti questi titoli ho già parlato sin troppo diffusamente nel blog Librobreve. Provo a farlo però con
le parole/appunti del signor Castello nell’anno 2286. Ecco le sue brevissime
schede di lettura:
Ablativo: “Ora vivo all’ablativo” scrive l’autore. Ed è un pensiero
molto intrigante, anche oggi che la lingua latina è in pieno “revival”. Che
cosa significa “vivere all’ablativo”? La risposta pare contenuta in queste
poesie lessicalmente lontane dagli altri cinque autori del “gruppo”.
Città alla fine del mondo: Questo partecipante e finalista ha scritto un libro
dal titolo curioso. Parla di Parigi, Milano, Londra, o di cime dell’Alto-Adige
ma forse i suoi testi più memorabili sono quelli dove scrive di sale d’aspetto
e camere d’albergo. Strano quel suo riferirsi a un certo Celan (Paul Antschel),
poeta che deve essere stato un tempo molto noto e apprezzato e di cui da un po’
di tempo mi pare si parli un po’ meno…
I padri: quest’autrice, la più giovane del sestetto, parla di
tantissimi padri e pochissime madri. Suppongo che all’epoca sarà parso un
ragionamento abbastanza controcorrente. Non lo so, è una sensazione. Ma oggi
sento regolarmente tante persone enumerare serenamente “tanti padri e tante
madri” (come nella canzone La comune di Giorgio Gaber, colonna sonora di
un recente spot di vacanze). La prefatrice, che è nella rosa dei sei finalisti,
parla di epoca transgender. Credo ci avessero visto e sentito bene
entrambe. Un libro di una sicurezza abbagliante. Ho amato però tanti poeti
insicuri, impauriti e tentennanti.
Pasta madre: è interessante questo libro dove certi fermo-immagine
della poesia dell’Ottocento e Novecento diventano fermo-immagine meno lirici,
meno “congelati”, più con il senso di un’immagine mossa. Il prefatore, Milo De
Angelis, poeta di cui regolarmente leggiamo ancora testi nelle antologie,
dev’esser stato una lettura decisiva per Franca Mancinelli. Si dà in queste
pagine un senso di inevitabile pressione della vita, come se contenuto e forma
avessero trovato, per qualche rapido istante, un loro accordo. Per parafrasare
un poeta quasi coevo che amiamo molto oggi, Clemente Rèbora, qui si ha la
sensazione di una cosa detta “ove l’uomo e la vita si intendono ancora”, anche
se non senza dolore.
Prove di libertà: gran bel libro, il mio preferito. Si legge molto
bene ed è un libro che si accompagna bene dal principio alla fine
(caratteristica che forse manca ad altri volumi). Deve esser nato dopo
carotaggi e ragionamenti linguistici e metrici. Anima curiosa questo Dal
Bianco, mi sarebbe piaciuto conoscerlo.
Quando avrò tempo: mi ha mosso subito il titolo di questo libro del
febbraio 2013, la persona nata prima in questo gruppo di poeti (nel 1939).
Questo è il libro che probabilmente restituisce più vita tra tutti quelli letti
ed è stata una lettura significativa per questo. Si legge benissimo anche oggi,
anche se è profondamente diverso dal libro di Dal Bianco. Questo è un libro che
ti lascia il desiderio di andare a leggere tutto il resto pubblicato
dall’autrice.
Se siete giunti sino a qui significa che siete stati pazienti verso
l’espediente del signor Castello, un signore allampanato, sudato e col diabete
mellito. Chiedo scusa per l’esperimento mentale, soprattutto al signor
Castello, abitante del mondo nel 2286, per la presunzione di scrivere pensando
con la sua testa. Forse avrei dovuto fare un esperimento mentale proiettandomi
in un abitante della Corea del Nord di oggi? Chissà. Chiudo con me, e non
posso/non potevo fare diversamente. Se fossi da solo in giuria e dovessi
scegliere in questo sestetto di finalisti ricorrerei (vilmente?) all’espediente
dell’ex-aequo tra le due giovani autrici Rusconi e Mancinelli. Farei questa
scelta nell’ottica di isolare un libro particolarmente significativo di una
stagione breve, concentrata nel tempo, un libro forse incompleto ma luminoso,
un fiore sbocciato all’improvviso o una supernova. Un volo di farfalla.
Premierei l’effetto sorpresa, dunque. La promessa. E questo non significa che
ritengo I padri o Pasta madre superiori a Prove di libertà
o Ablativo. Se però l’ex-aequo non fosse contemplato dal regolamento
della giuria (e sotto sotto so che me lo augurerei), farei un’operazione
leggermente forzata e premierei nel libro di Anna Maria Carpi, Quando avrò
tempo, tutti i libri che questa grande autrice ci ha regalato sino a qui,
pieni di cose importanti, a partire dal meraviglioso A morte Talleyrand
uscito vent’anni fa (libro splendido al quale si torna di rado, purtroppo). Lo
so che probabilmente, così facendo, traviserei il senso del premio che è quello
di premiare un libro, e so anche che la mia scelta assomiglierebbe da
vicino al classico “premio alla carriera”. Ma non di premio alla carriera si
tratterebbe, bensì di un semplice premio ai libri attraverso un libro:
per come la vedo io (e anche per come la vede il signor Castello) non esistono
carriere in poesia.
Infatti... la Carpi non e' in finale... peccato
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