Con il senso della parsimonia (e dell'ecologia) di un'abitante del New England, Emily Dickinson vergava ritagli e lembi di buste che sono state preservate. Le minute, assieme alle trascrizioni e alle traduzioni, si trovano ora anche nel volume Buste di poesia pubblicato da Archinto, nostro editore epistolare (pp. 120, 25 euro). Nadia Fusini ha curato e introdotto l'edizione di quello che sostanzialmente è Envelope Poems, libro editato da Marta Werner e dall'artista visiva Jen Bervin, il quale si rifà a The Gorgeous Nothings, un volume montato su quello che ci consegna l'archivio dei manoscritti tardivi. Ora, tralasciando il fatto che parliamo della più importante autrice di poesie d'America, sarà bene ricordare che questa scrittura lacerata e, almeno inizialmente, sparpagliata non è certo un caso isolato. In tempi più vicini a noi, vi sarà magari capitato di vedere qualche verso, poi finito nelle opere più importanti di Zanzotto, vergato inizialmente su scatole appiattite di medicinali o su altro materiale di risulta. È facile convenire sul fatto che non è il lussuoso taccuino Moleskine o il MacBook Air che fanno uno scrittore e non è nemmeno questo il punto quando si affronta quest'accezione del come e dove si scrive. Queste scritture forse estemporanee, eventualmente radunate e messe in opera oppure rimaste così, senza rilegatura, ci parlano di una configurazione rizomatosa dell'atto di scrivere e dei suoi cicli (per restare a Zanzotto, in periodi di apparente silenzio editoriale, scrisse molti haiku quasi con funzione defaticante e preparatoria, come chi allena un certo tono ed elasticità muscolari). Per usare una parola d'oggi, viene da domandarsi: come si concentrano i tentativi detox di chi scrive poesia oggi? E questo genere di scritture marginali che senso hanno per chi le lascia e per chi le ritrova? E come si mettono in relazione al fatidico libro?
La lettura e la visione di questo volume a colori ci pongono di fatto più di un interrogativo e non ci lasciano in compagnia delle sole considerazioni esposte nelle righe qui sopra. Ad esempio, meditare su questo volume significa anche riporre il tendine della scrittura fuori da una fascia muscolare che spesso pare già predestinata agli automatismi di scrittura/pubblicazione (e poi presentazione, promozione e così via, fino ai casi in cui una scrittura diventa film o sceneggiato). Non si tratta di rimestare le fascinazioni perverse che colgono la scrittura come atto solipsistico, solitario, romantico (la famigerata "cameretta dei poeti" tanto vituperata... peccato che parlare di camera per Emily Dickinson vuol dire parlare di una stanza fondamentale). Semmai affrontare tutto ciò significa porsi un radicale interrogativo sul senso del pubblicare: è qui che questo libro pone, quasi in modo subliminale, i suoi interrogativi più drastici e efficaci. (Per inciso, su ragionamenti analoghi torna anche uno scrittore come Saul Bellow, nel volume di saggi Troppe cose a cui pensare. Saggi 1951-2000 proposto recentemente da SUR, e su ragionamenti del genere sarebbe bene tornare più spesso tutti quanti.) Su questa scia, Emily Dickinson forse qualche pensiero l'ha fatto (oppure nessuno) se di un corpus di circa 1800 poesie né pubblicò in vita solo una dozzina. La nota introduttiva di Nadia Fusini, che giustamente ricorda anche il bisticcio comune a inglese e italiano attorno alla parola "lettera", incomincia col chiedersi come vadano considerate queste parole di grafite che Emily Dickinson segnava in buste scollate, strappate o rivoltate, le quali diventavano, con le loro forme imprevedibili (o forse predeterminate), il perimetro di scritture nuove e piccole, piccole solo per lo spazio che occupano. Il libro qui presentato diventa un'opera nell'opera (un'opera grafica) ed è persino troppo evidente che si possa leggere anche come controcanto al furioso digitare su tastiere più o meno rumorose. In realtà non sono certo queste le speculazioni che più ci devono interessare. Emily Dickinson ha compiuto un'interessante azione sulla busta, su quanto è finalizzato a proteggere e anche a celare. La parola scorre su ciò che deve proteggere, accompagnare e nascondere, la busta è parola e la parola diventa busta. E nei bordi o negli orli irregolari, alcuni segnati dalla colla, abitano quei fantasmi che memorabilmente infestano la sua poesia. In questo, almeno in parte, le buste sono diventate qualcosa di simile agli schermi di dimensione variabile che guardiamo ogni giorno per scopi diversi?
Emily Dickinson ha scritto molto e chi l'ha conosciuta era al corrente di questo, tuttavia non ha pensato di pubblicare. Scriveva in assenza del feticcio del libro e in presenza del pensiero di un'opera infinita, al centro di un postulato che ci dice ancora oggi che la scrittura non è fare il libro, non è pubblicarlo e non è promuoverlo perlopiù parlandogli addosso (la recensione come l'abbiamo conosciuta è quasi sparita e le "recensioni" sono diventate delle righe che lasciamo in un sito di ecommerce dopo un acquisto, magari con lo scopo di ottenere un coupon di sconto). Nessuno vuole intraprendere una battaglia contro l'atto di pubblicare, di veicolare o di promuovere un libro, perché queste sono tutte attività essenziali e trainanti. Qui si vuole soltanto distinguere nella filiera il momento dalla scrittura, che ha risorse e fisicità proprie. Non si venga a dire che distinguere e ricordare ciò, nel caso di un'autrice che ha trascorso buona parte della vita nella camera di Amherst, significa rinverdire il mito della "poesia scritta nella cameretta". E se anche fosse, non credo esista un luogo più eletto di un altro dove la scrittura accade. Nonostante i grandi rivolgimenti che hanno investito la pratica della scrittura, questa resta ancora incredibilmente un fatto di dita e di polso. Fino a prova (o anatomia o locomozione o psicocinetica) contraria.
[Nel pezzo di busta sopra si legge "One note from / One Bird / Is better than / a million words / A scabbard / needs / has - holds / but one / sword" (Una sola nota / di un solo uccello / è meglio di / milioni di parole / Un fodero / ha bisogno / di necessità contiene / una sola spada)]
L'Amherst College Library ha intrapreso un lavoro di digitalizzazione dell'archivio Emily Dickinson consultabile a partire da questo link.
Consiglio il film A quiet passion.
RispondiEliminaGrazie del consiglio. (Chiedo la cortesia di firmare i commenti, grazie.)
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