mercoledì 26 agosto 2015

da "e allora?" di Carlo Crosato

Una poesia da #52

Pubblico due testi del ventisettenne trevigiano Carlo Crosato, tratti dal libro e allora? uscito nel 2014 per Editrice Zona. L'autore si è presentato direttamente con una mail, ormai diversi mesi fa, e questa presentazione spontanea unita alla lettura del suo libro è stata una sorpresa, non soltanto per motivi di vicinanza geografica (e linguistica). Ho scelto un testo in dialetto e uno in lingua, perché entrambi coabitano nel libro. L'autore presenta questi componimenti come "elogio della spontaneità". Una parola subdola e difficile "spontaneità", tanto più in poesia. Se c'è spontaneità nell'arte deve allora per forza avere a che fare con quanto in Nietzsche coincideva con la volontà di potenza e l'eterno ritorno. Ma chi può dirsi davvero spontaneo? Eppure c'è un movimento volontario verso l'altro e gli altri, in questi versi ricolmi di persone che sembrano andare da qualche parte, proprio come le teste e i colli ripresi nella foto di copertina (resta comunque un gran peccato che Editrice Zona non si sia mai troppo preoccupata in questi anni dell'aspetto grafico e materiale dei propri libri, spesso importanti, come quando era il solo editore a offrire in lettura Giuliano Mesa). E c'è timore e pure quella necessaria "violenza" che si instaura in ogni rapporto umano, quando questo inizia (alcuni pensieri a riguardo sono finiti in questa nota che scrissi tempo fa su Le voci di Claudio Magris). E allora il problema è anche questo: quando inizia un contatto, un rapporto, dove sta la spontaneità, la volontà (compresa quella "di potenza"), e dove stanno sovrastrutture di pensiero e relazionali, pregresse e nuove, che trasciniamo all'interno di un nuovo rapporto? Me lo chiedo, lo chiedo a voi. (A me fra l'altro è capitato quello che Crosato descrive nella seconda poesia qui riportata. A voi no?) Buona lettura.


Vardando basso (18 giugno)


Quéo che parchégia
fòra dàe strìsse
e st’altro che ghe dìse drìo.

A vècia che spacca
a botìlia de l’azéo:
un odór dentro pa’ e finestre...

Del to can
che patìsse el caldo
non me ne frega gnénte.

A siòra che xe restàa vedova,
e a vièn in botéga, ma
no a desmònta dàea màchina.

El postìn che riva de corsa,
sensa gnànca el casco indòsso,
e’l’assa el motorìn impissà.

A tósa, do ore al teèfono,
a se tocca i cavéi
e dopo a se nàsa i déi.

El vècio che va dentro,
postàndose a camìsa
e controeàndose el cavàeo dée bràghe.

El tosàto che ghe córe drìo
ai pómi dea vèccia,
che li gà pèrsi dàea casséta.

D’ogni tanto un putèo,
coe gambe fòra
pa’i bùsi del carèo.

Màre e fìa in botéga insieme:
xe pì bèa so màre
de so fìa che a gà vìnti ani.

A fémena che sbèrega
co’ ’na vóse che me pàr
quéa de un’aquila inrabiàda.

L’òmo che contròea el scontrìn
sentà sóra ’na fiorièra.
A paróna che ghe crìa.

Marìo e mojèr,
i va dentro ciapài par man,
i vièn fòra sbarufàndo.

El móna co’ l’aràdio alto,
el vièn fòra dàea màchina,
ma l’aràdio no’ lo stùa.

Cossa ve metìo l’alàrme,
che co’l sóna no’ ghe sì pa’ sentirlo,
e gà da sorbìrseo st’altri?

Paré formìghe da qua insìma,
che córe, parla, ride e piànze. E mi,
stamatìna, no’ gò combinà gnénte.

’na matìna a vardàrli.
Tàsi che xe mèrcore
e dopo magnà i sèra.




Con vista sul parcheggio (18 giugno)


Quello che parcheggia/ fuori dalle strisce/ e l’altro che lo sgrida.// La vecchia che rompe/ la bottiglia dell’aceto:/ un odore dalle finestre...// Del tuo cane/ che soffre il caldo/ non me ne frega niente.// La signora che è rimasta vedova/ e viene al negozio, ma/ non scende dall’auto.// Il postino che arriva di corsa,/ senza nemmeno indossare il casco,/ e lascia il motorino acceso.// La ragazza, due ore al telefono,/ si tocca i capelli/ e dopo si annusa le dita.// Il vecchio che entra,/ aggiustandosi la camicia/ e controllandosi il cavallo dei pantaloni.// Il ragazzo che rincorre/ le mele della vecchia,/ che le ha perse dalla cassetta.// Ogni tanto un bambino,/ con le gambe a penzoloni/ dai buchi del carrello.// Madre e figlia nel negozio assieme:/ è più bella la madre/ della figlia che ha vent’anni.// La signora che urla/ con una voce che mi sembra/ quella di un’aquila arrabbiata.// L’uomo che controlla lo scontrino/ seduto su una fioriera./ La padrona che lo rimprovera.// Marito e moglie,/ entrano presi per mano,/ escono litigando.// L’insulso con la radio alta,/ esce dall’auto,/ ma la radio non la spegne.// Perché vi mettete l’allarme,/ se quando suona voi non ci siete per poterlo sentire,/ e devono sopportarlo gli altri?// Sembrate formiche da qui sopra,/ che corrono, parlano, ridono, piangono. E io,/ stamattina, non ho combinato niente.// Una mattina a guardarli./ Per fortuna che è mercoledì/ e dopo pranzo chiudono.



Amare per distrazione


Mi ha sempre divertito il ricordo
di quel giorno, in cui mi hai confessato
che lo amavi perché ti aveva detto
certe parole.
E quelle certe parole, invece,
erano mie, le avevo parlate io.

Ho sempre trovato curioso
che si possa amare una persona
per sbaglio,
per interpolazione delle fonti
se così si può dire.
Amare per dimenticanza, insomma.

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