giovedì 24 maggio 2018

"Tra le pieghe dell'orologio" di Heidi Julavits: siamo composti da liste

Heidi Julavits è una scrittrice americana nata a Portland nel 1968, editor della nota rivista bimestrale "The Believer" (con Dave Eggers), con un curriculum che si potrebbe dire in piena regola e il cui nome è presente in quelle liste che poi influenzano molte cose, comprese le traduzioni. Insegna scrittura a Columbia e in italiano ci sono diversi suoi titoli disponibili. Incominciò Baldini&Castoldi con Il palazzo dei cristalli nel 2001, poi Dalai con L'effetto di vivere al contrario proposto nel 2004, poi venne Elliot con The Vanishers nel 2012. Da due mesi abbondanti è disponibile anche la traduzione, curiosa sin dal titolo, di The Folded Clock: A Diary, che nel catalogo di 66thand2nd prende il titolo Tra le pieghe dell’orologio (pp. 280, traduzione di Gabriella Tonoli, euro 17). La traduzione del titolo ha almeno due motivi degni di nota: da un lato si passa da "l'orologio piegato" a "tra le pieghe dell'orologio" e dall'altro si elimina la parola "diario", pericolosissima per l'editoria italiana, dove tutto deve un po' rientrare nella logica del romanzo. Proprio quest'ultimo dato è interessante, perché a tutti gli effetti questo libro è un diario, con le date, anche se poi non vi è sempre uno stretto ordine cronologico nell'apparizione dei giorni. Si può persino leggere a singhiozzo come si legge un diario, senza timori di perdere il filo tra un giorno e l'altro della vicenda o tra un giorno e l'altro del nostro filo di lettura. Inoltre un avvertimento: non vi è necessariamente una trama, ma tale avvertimento rischia di suonare superfluo ai frequentatori di diari. Insomma, ci sono degli elementi che rendono questo scritto curioso, sebbene la parola "diario" e la mancanza di una trama evidente siano due fattori che possono inquietare gli addetti ai lavori quando si prova a veicolare e promuovere un libro di prosa, il quale per rassicurare dovrebbe sempre riportare in copertina la parolina magica "romanzo". Suppongo che sia anche per questo motivo che la parola "diario" non appare nella copertina e nella titolazione italiana.

Una volta aperto il libro e incominciata la lettura non si scappa, e si ha la nitida esperienza di lettura di un diario, che come quelli dei bambini o degli adolescenti di un tempo attacca ogni giorno con l'avverbio di tempo più diffuso nei diari: oggi. Questo dato è anche un vantaggio per un lettore che frammenta il libro in varie dosi. In un flusso così tratteggiato è la scrittura - assieme alla lingua resa da Gabriella Tonoli - che torna protagonista della "vicenda narrata", la quale diventa un accumulo di liste di cose fatte, comprate, desiderate, pensate, dette o non dette, scritte e non scritte. Ecco, tutti noi siamo composti da liste, molto più di quanto siamo disposti ad ammettere. Liste, sì, banali liste, anche se banali non lo sono affatto. Il primo "post" del libro allora è una riflessione sull'unità di tempo minima: se fino a un certo punto della vita questa poteva coincidere con il giorno, nel caso di Julavits è la settimana a diventare l'unità di misura fondamentale del tempo. Il giorno non ha più senso, non è più significativo per misurare il tempo, anche se poi la scrittura di questo diario procede effettivamente per scansioni giornaliere, come vuole la tradizione dei diari. E proprio qui si sente il rumore di fondo dello sfregamento tra quanto offre la vita, la settimanalità per l'appunto, e il flusso della quotidianità: è come se il palinsesto della settimana, divenuto preponderante da adulti, si scontrasse con quel che resta del palinsesto del giorno che via via perde di senso e di potere nel nostro immaginario, senza smettere tuttavia di portarsi dietro quell'alone che il giorno, immenso e abbagliante, aveva nelle nostre infanzie. Mi pare sia qui uno dei nuclei più curiosi che questo libro mette in scena.

Giunti a questo punto credo sia utile dar conto di qualche incipit dei "post" giornalieri del diario di Julavits, lasciando al lettore la curiosità di scoprire come si sviluppa e si avvita un libro che, nel suo complesso, si pone come proposta alternativa al protagonismo sempre più insostenibile e goffo del romanzo. Mica sto sostenendo che il romanzo sia morto o poco interessante, ma si saluta positivamente un libro che dimostra come, così vicini al terzo decennio degli anni Duemila, non sia poi tanto necessario inquadrare la maggior parte degli scritti di invenzione in prosa dentro la cornice del romanzo acchiappatutto. Ecco allora una veloce campionatura, o per meglio dire un'ulteriore lista:

- ______ Oggi mi sono chiesta, Qual è il valore di un giorno? [...]
______ Oggi un'amica mi ha chiesto: "Sono pazza?". [...]
______ Oggi, o meglio stasera, io e mio marito guarderemo The Men Tell All[...]
______ Oggi sono andata alla biblioteca della Columbia per la prima volta in quattro mesi. [...]
______ Oggi sono andata in bici in un negozio vintage. Ho comprato: [segue lista]
______ Oggi ho ordinato dieci stetoscopi giocattolo a una società di forniture per feste. L'ho fatto per telefono. [...]
______ Oggi ho spettegolato con una nuova amica sulla malattia di una donna che a stento conosciamo. [...]
______ Oggi una mia amica mi ha raccontato della sua cotta per il suo analista gay. [...]
______ Oggi ho sentito la sirena di un'ambulanza. A New York le sirene non allarmano, ma in Maine sì. [...]
______ Oggi ho indossato una giacca che non indossavo da anni. [...]
______ Oggi sto recensendo Le carnet d'adresses, dell'artista francese Sophie Calle. [...]
______ Oggi sono andata a bere con una ex studentessa che mi ha chiesto, "Sei orgogliosa delle tue mani?" [...]
______ Oggi ho cercato di consolare mio figlio. [...]

(E così via, così sia.)

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