Delle poche lettere rinvenute nella
corrispondenza Boine-Campana, salta subito agli occhi che un filo d’amicale
condivisione leghi le due anime-corpi malati, e che proprio la condizione di
sofferenza di Campana abbia in Boine aperto possibili spiragli verso i propri simili. Spiraglio-cappio che
poi stretto si richiude intorno ai loro colli, tragico e muto, perché i due
poeti prostrati dal loro personale male non troveranno sfogo e respiro. È la
febbre, che torna detta soprattutto in Boine, e che cucina entrambi, febbre
pronunciata cantata consumata con la propria carne, dentro la propria anima. E nulla
rianima e ridesta, e a scivolar via è la vita, mentre il mondo è un rumoroso
nulla: “Anche la guerra è come tutto il
resto. Fa un po’ più di rumore”.
Boine fu il primo vero estimatore di
Campana: ne penetrò le fibre perché similmente in lui palpitava l’angoscia e
l’impermeabilità alle regole dell’umano vivere. E Campana altrettanto ne intuì
la fraterna sostanza, lo testimoniano le lettere a la bella dedica di Arabesco-Olimpia.
Insomma dei più o meno conosciuti
epistolari, dei più ctoni e febbrili, merita qui riproporre quello breve
intenso tra il Pazzo di Marradi e il poeta di Porto Maurizio.
Accosto ho voluto inserire il
componimento di Campana Arabesco –
Olimpia, e la recensione completa ai Canti
Orfici che Boine scrisse per la rubrica Plausi
e botte sulla "Riviera ligure".
Chiara Catapano
***
(Porto
Maurizio, agosto 1915)
Fratello,
è
una parola che mi piace, sebbene io la usi casto. Avevo un fratello, era boxer,
picchiò mezzo mondo e morì di tifo l’anno passato. Altri fratelli non ho. Ma
facciamo la prova con lei: può darsi che riesca. Certo parecchie pagine del suo
libro mi diedero una febbre d’esaltazione che non perderò. Suo
G.
Boine
P.S.
Cerco un impiego in India. Il mio indirizzo è Porto Maurizio.
***
(Udine,
novembre 1915)
Caro
Campana,
ripartirò
di qui dopodomani. Ho visto il vedibile […]. Però è bizzarro come di nessuna
parte si trovi lo sfocio. Non c’è liberazione. Il cervello esaurisce il mondo
con troppa voracità: s’arriva al nulla da qualunque parti si tocchi. Ma lei
dice che lo troveremo questo Iddio introvabile come una fiera che s’appiatti? A
forza di scrollar le catene le romperemo? Anche la guerra è come tutto il
resto. Fa un po’ più di rumore. Suo
Boine
***
(Firenze,
dicembre 1915)
Caro
Boine,
la
sua cartolina mi è giunta all’ospedale di Marradi dove io sono stato un mese e
mezzo inutilmente. Sono assai triste. Tornato a Firenze i facili successi mi
guastarono un po’ troppo. È piaciuta qui quella Toscanità che pubblicai in Riviera.
Ho conosciuto Cardarelli simpatico e geniale. Siamo stati molto insieme
quest’oggi. Credo di condividere quasi tutte le sue idee e l’indipendenza di
questo giovane mi ha rialzato il morale. Vengo a Firenze perché è il posto più
vicino a Marradi ma mi ci trovo assai triste come dappertutto, la miseria a
parte. Vorrei come lei vivere in Riviera allora forse lavorerei tanto per me
che per gli altri. Ora in questa borsa di Firenze sono uno spettatore annoiato.
Le invio una vecchia e pur discreta cosa per la Riviera al patto che si decidano a pagarmi questa o l’altra già
pubblicata. Vorrebbe Lei interessarsi? Se non vorranno pagare la prego di
tenersi questi versi come ricordo mio senza farli pubblicare sulla Riviera e se pagheranno invierò sempre
qualcosa alla Riviera. Scusi dell’incomodo.
Se potrò esserle utile in qualche cosa si rivolga pure a me. Ho pubblicato
nella Tempra di Pistoia quel Arabesco di cui vorrei sapere il suo
giudizio e preparo qualche cosa che mi sembra un tentativo abbastanza originale
nello stesso genere. Se non fossi ammalato sento che qualche cosa forse
d’importante si potrebbe sviluppare da me ora, ma in questa condizioni lascerei
la salute sforzandomi. Assai mi piacque quello che Lei stampò insieme alla mia
critica sulla Riviera. Novaro mi
piacque più di prima in “Rari i grilli”; specialmente i primi versi. Auguri e
felicitazioni. La prego di scusare colla mia cattiva salute la bolsaggine di
questa lettera che pure le fa mille cordialissimi auguri dal suo aff.mo
Dino
Campana
***
(Porto
Maurizio, 23 ottobre 1915)
Caro
Campana,
L’India
era un’ossessione tre mesi fa. Mi disse Novaro che lei non fu contento della
mia risposta. Diamine! era una stretta di mano a modo mio. Ma insomma, Campana,
non si sa dove sfociare, non si sa per che paese partire! Su questo mondo ci ho
sputato da un pezzo. Non c’è una qualche America nuova da scoprire? qualche
delitto di liberazione? Se pensa una impresa me la comunichi. Fra quindici
giorni sono di ritorno. Faccio un giro per i carnai di lassù.
Con
affetto, suo
Boine
***
(Albergo
Sanesi Lastra a Signa – Firenze, 19 aprile 1916)
Caro
Boine,
avendo
scritto senza risultato alcuno a Novaro, immagino sia soldato, ecco le ripeto
quanto scrissi a lui. Sto abbastanza bene ora benché non possa ancora scrivere
e vorrei trovare una piccola occupazione anche meccanica, per due o tre lire al
giorno, laggiù dove si respira l’aria di Francia, perché oggi o domani prenderò
la cittadinanza francese. Le cause, oltre a quanto le scrissi del mio stato
d’animo (irremovibile) sono che venuto dalla Svizzera in Italia per arrolarmi
benché riformato, e riformato una seconda volta allora in Giugno dopo dieci
giorni d’ospedale militare, chiesi inutilmente il passaporto (l’unica cosa che
io abbia mai chiesto all’Italia) e mi venne rifiutato e restai prigioniero
delle belve clericali del mio paese che naturalmente ne approfittarono per
finire di assassinarmi e avendo io la congestione cerebrale venivano a
fischiare sotto le finestre dell’ospedale, e il medico per fregarsi di me
diceva che avevo la nefrite. Quindi questa ignobile commedia dello spirito che
si ridesta proclamata dalle varie conferenze Coppa (giornalista e conferenziere, n.d.c.) mi fa un profondo schifo.
Della letteratura in generale poi in Italia mi hanno disgustato i lordi cafoni
di Firenze. Ora non potendo andare in Francia vorrei avvicinarmi almeno. Mi
venga in aiuto, mio padre mi dà due lire al giorno. Io una piccola occupazione
la prenderei volentieri e farei il mio dovere. Salutandola e pregandola di
difendermi nel suo pensiero dalle eventuali calunnie sono suo
Dino
Campana
***
(Porto
Maurizio, 22 aprile 1916)
Caro
Campana,
le
sue lettere sono sempre così dolorose! Non so mica che cosa risponderle. Sono
io stesso povero che tiro innanzi alla bell’è meglio e spesso per aiuti. Quanto
a salute tutte le malattie le ho addosso cominciando dalla tisi.
Così
ridotto tra tormenti morali e fisiche forse appena i suoi sono più opprimenti,
medito le epistole di S. Paolo le quali dicono che si risorgerà: “Poiché
sappiamo che fino ad ora tutt’assieme la creazione geme ed è come in doglie di
parto: e non soltanto lei, ma anche noi, anche noi stessi gemiamo in noi
medesimi aspettando redenzione del nostro corpo” (Rom. VIII, 22.23).
Leggo
anche il De civitate Dei, e lo
traduco, poiché ormai questa città degli uomini mi è insopportabile. Creda a
me, Campana, è insopportabile qui, e le sarebbe insopportabile la Francia.
Dirò
a Novaro di questo suo desiderio: anche in Riviera la disoccupazione si fa
sentire: trovar lavoro è difficile più che mai. Le scriverò in ogni modo.
Della
dedica all’Arabesco che mi piacque
così decisamente fuor del mondo com’è
sempre la sua poesia, la ringrazio ora fraternamente. Non pigli mai per
inimicizia il mio silenzio: le voglio bene, Campana, ed ho grandissima stima di
lei e delle sue cose ma sono un amico inutile. Suo
Boine
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ARABESCO-OLIMPIA
A Giovanni Boine
Oro, farfalla dorata polverosa perché sono spuntati i fiori del
cardo? In un tramonto di torricelle rosse perché pensavo ad Olimpia che aveva
i denti di perla la prima volta che la vidi nella prima gioventù? Dei fiori
bianchi e rossi sul muro sono fioriti. Perché si rivela un viso, c’è come un
peso sconosciuto sull’acqua corrente la cicala che canta.
Se esiste la capanna di Cèzanne pensai quando sui prati verdi
tra i tronchi d’alberi una baccante rossa mi chiese un fiore quando a Berna
guerriera munita di statue di legno sul ponte che passa l’Aar una signora si
innamorò dei miei occhi di fauno e a Berna colando l’acqua, lucente come un
secondo cadavere, il bello straniero non poté più sostare? Fanfara inclinata,
rabesco allo spazio dei prati, Berna.
Come la quercia all’ombra i suoi ciuffi per conche verdi l’acqua
colando dei fiori bianchi e rossi sul muro sono spuntati come tra i fiori del
cardo i vostri occhi blu fiordaliso in un tramonto di torricelle rosse perché
io pensavo ad Olimpia che aveva i denti di perla la prima volta che la vidi
nella prima gioventù.
***
68)
DINO CAMPANA. Canti Orfici.
Tipografia F. Ravagli, Marradi 1914.
Copertina
su carta gialla droghiere. Sul retro fra parentesi proprio in mezzo è stampato Die Tragödie des letzten Germanen in Italien
(ci hanno da ultimo incollata su una strisciolina rossa come una pudica
camicia, ma l’ho, da buon Gobinista, che diamine! grattata via con cura). Il
ringraziamento prefazionale ai signori sottoscrittori è messo in ultimo al
posto dell’indice, il quale come inutile non è stato fatto; e lì è pur
ricordato “il coscienzioso, il coraggioso, e paziente stampatore sig. Bruno
Ravaglia” a cui dunque nemmeno noi lesineremo le nostre cattedratiche lodi,
sebbene parecchie lettere del testo sian capovolte ed a pag. 151 la riga che
nientemeno dice “diosa virginea testa
reclina d’ancella mossa” sia, com’è confessato, “andata all’aria” – La
carta a piacer suo muta di qualità tre volte in centosettanta pagine, brache,
giacca, gilet di tre diversi vestiti. Inoltre è utile aggiungere che il libro è
finito con queste sacramentali parole messe fuori testo a mo’ d’epitaffio o di chiusa:
They were all torn and cover’d with the
boy’s blood: cosiché BLOOD rosso e pauroso come una stilla od una ditata,
sta lì (traccia d’assassinio o di liturgico sacrifizio?) come il tragico
sigillo dell’opera.
Per
constatare, in conclusione, che l’autore è certo un poverissimo e che i segni
del suo squilibrio anche dall’esterno del suo volume appaiono evidenti.
Che
so a caso apriamo il Trattato di
psichiatria del Prof. Leonardo Bianchi (Napoli ed. Pasquale) ai capitoli
che così dottamente dissertano, fra le malattie mentali, della paranoia, delle
demenza precoce et similia, ci sarà
facile provare come qualmente la trasposizione illogica delle parole nel discorso, la sintassi a
salti, nonché il salto dei vocaboli ed eziandio di intere proposizioni, è la diagnostica
caratteristica delle scritture dei pazzi. La qual cosa è confermata mi pare
oltreché dal preterito Lombroso, dall’autorevole Dott. Max Nordau nell’ormai
celebre volume della Degenerazione,
dove se ricordo, che Mallarmé sia un deficiente
è a soddisfazione per analogia dimostrato
allegando da verificati freniatrici documenti questa memorabile frase di
ricoverato: “Mi sembri uno zuccherino dato a balia!” La quale certo è, semmai,
imagine più ragionevole di ciò che si legge ad es. qui in Dino Campana a pagg.
169 e 70, dove infine si legge (e bisogna citare)
Come nell’ali rosse dei fanali
bianca e rossa nell’ombra del
fanale
che bianca e lieve tremula salì.
E
l’ali e i sali, e il bianco e il rosso; e i vichi e i fanali: il sale marino
e l’ombra e la notte, fan per due pagine uno spettrale intrico di così macabra
sarabanda che non è possibile fuori trarne un qualunque normale costrutto.
Ciò
infine, di nuovo, per dire che se dall’esterno si passi all’interno i sospetti
di squilibrio son chiari e fondati, e questo povero Campana, stabilito per
pazzo. – In altri termini pare cioè, come corollario, assodato, che la poesia
non sia più ormai che dei pazzi e dei poveri.
È
qui infatti una poesia allucinata non sai di che fatta, che se ti ci chiudi
entri in un’atmosfera d’ansia, sei a balzi via trascinato di là dai confini del
tuo consueto andare, chissà dove, chissà dove per disperazioni d’irrealtà. Non
so che febbre si divori le imagini e le accavalli; che cosa si dica,
precisamente non vedi; i fantasmi lampeggiano e fuggono, il luogo ove sei si
tramuta: - sei nella Pampa, sei fra le stelle, un diretto in corsa ti porta, la
turbolenza dei venti ti strappa. Ma insomma una strapotenza bizzarra di lirica,
via ti solleva fuori di te in dimenticanza del mondo per morbosità
fosforescenti.
Ci
sono pagine limpide di osservate serenità: ci sono lirici idilli dove Piazza Sarzano a Genova col ponte dei
suicidi lì sopra, e gli intrichi di vicoli bui; dove Faenza e Fiorenza e la Verna si trasfigurano in tremiti di
lievi colori quasi in musica stemperati: pagine di prosa fresca tra
l’impressionismo scorri-via e (sempre) una sotterranea commozione come di
scatenato respiro. – Ma jam furor humanos
nostro de pectore sensus expulit… giungono momenti che il respiro nella gola
s’affanna e la vertigine vince. Allora le parole ossessionano come gli incubi,
si dilatano come occhi di paura, si puntano come riluttanti vite all’abisso;
finché l’onda via le travolge, meravigliosi frantumi in un gorgo canoro. La
musica vince i discorsi, i vocaboli son fatti di voce; son simboli di suono
come un polline vago d’imagini. Nuotano spersi come echi, si richiamano si
ripetono sinfonizzano sciolti senza badare alle logiche; si rincorrono, si
frantumano in ansia d’espressione, ti danno lo spasimo dell’inesprimibile, ti
sfanno in una liquidità di respiri; - finché t’accorgi che il respiro è
respirato, e la cosa da dire è l’allucinata febbre, la lirica frenesia di una
cosa ormai detta.
Io vidi dal ponte della nave – i
colli di Spagna – svanire nel verde – dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra
celando – come una melodia: - di questa scena fanciulla sola - come una melodia – blu, su la riva dei colli
ancora tremava una viola… - Illanguidiva la sera celeste sul mare; - pure i
dorati silenzi ad ora ad ora dell’ale – varcaron lentamente in un
azzurreggiare. –Lontani tinti dei vari
coloridei più lontani silenzi. – Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d’oro;
nave – già cieca varcando battendo la tenebra -
coi nostri naufraghi cuori –battendo la tenebra l’ali celesti sul mare.
– Ma un giorno…
-
Poiché ci sono le fonti di tutto certo sarà facile assegnarle anche a questa
smarrita e decadente musicalità (Samain
e compagni). Dico se mai che questa sorta di decadenza mi piace qui che di più
non si può; e che la stessa rozzezza violenta, la stessa primitività impetuosa
con cui è come in assaltoqui in più luoghi realizzata (cfr. Quiere usted hierba mate?) dimostra che
non è d’accatto, risponde ad un intimo bisogno e del vecchio malfranzese non ha
che l’apparenza.
S’attaglia
cioè con spontaneità al mondo d’incubo e di libertà che il poeta s’è foggiato,
alla risolutezza vagabonda di anima senza speranze, di là da ogni tradizione,
di là da ogni acquitamento, nave ebbra e disancorata, gabbiano tra raffiche e
cavalloni. Passano, qui di mezzo, i rombi delle lontananze; sei dove? Alle
Antille, sei in Argentina; il viaggio non è qui coi luoghi e le films ma cogli
abbandoni e gli acquisti, colle liberazioni: - è una spirituale categoria di
perdizione e di disradicamento. – A Genova città di partenza, è avvenuto l’Incontro con Regolo: “Impestato a più
riprese, sifilitico alla fine, bevitore scialacquatore con in cuore il demone
della novità che lo gettava a colpi di fortuna che gli riuscivano sempre,
quella mattina i suoi nervi saturi l’avevano tradito ed era restato per un quarto d’ora
paralizzato dalla parte destra, l’occhio strabico fisso al fenomeno toccando
con mano irritata la parte immota. Si era riavuto, era venuto da me e voleva
partire… - Mai ci eravamo piegati alla mostruoso assurda ragione. Il paese
natale: quattro giorni di sguattero, pasto di rifiuti, tra i miasmi della
lavatura grassa. Andiamo!” -Ed Andiamo! pare
il motto di tutta questa ispirazione che procede a barbagli e in folata, non ha
altra formula oltre quella dell’inquietudine, né altra logica se non quella irreale e vagabonda del sogno.
C’è
in giro per l’arte contemporanea (compresa l’italiana, parlo dell’italiana) un
fermento d’esaltazione come un’ansia di novità e d’anarchia, un tumore
d’angoscia che cerca sfocio. Ma c’è anche, ed assai più la preoccupazione di
metterlo in mostra e di affermare la propria modernità spregiudicata colla
rettorica dell’espressione. La ansiosa modernità di parecchia gente comincia
dal di fuori e resta soprattutto al di fuori come la dignità ed il valore di
molti restan nel vestito e nei titoli. C’è infine gente che finge la libertà
essendone dall’intimo schiava sprovvista; e poiché s’è persuasa dell’ovvia
verità più sopra enunciata che la poesia è dei pazzi più pazzi, si finge dunque
per pazza e lo fa con scioltezza.
Ma
questo Campana, per lo stesso impaccio del suo parlare, questo che di
elementare ed ingenuo che la coltura ha lasciato in lui e nel suo stile (non
l’ha cancellato), è, se dio vuole un pazzo sul serio. Epperciò Te deum.
[Boine, Garzanti, aprile 1983. Giovanni Boine Carteggio, IV amici della
“Voce”, Roma 1979]
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