sabato 16 luglio 2011

Max Kozloff e la luce di Vermeer













Il titolo originale suona più semplice: Vermeer: a study. Dopotutto, per il pubblico di lingua inglese, il nome di Max Kozloff in copertina vale già molto. Per l'edizione italiana (Contrasto, pp. 144 con illustrazioni, euro 18) si è ritenuto opportuno optare per un'interpretazione aggiuntiva, che parlasse della luce dei quadri di Vermeer. Max Kozloff viene infatti tradotto per la prima volta in italiano, nonostante sia stato l'autore di saggi importanti sulla pittura americana durante la Guerra fredda, di un fortunato Cubism/Futurism, di studi importanti di fotografia (lui stesso da metà anni Settanta è fotografo molto apprezzato), contributing editor e poi direttore di Artforum e, più recentemente, artefice di una monografia importante sul ritratto fotografico nel Novecento intitolato The Theatre of Face.

Non stupisce questo attraversamento del Seicento olandese e del grande Vermeer, del quale Kozloff propone una lettura che prende lo spunto da interrogativi in parte nuovi, tutta tesa a comprendere la gara di resistenza di queste "icone", la capacità dei quadri del grande artista olandese di resistere nel tempo, di "parlare" a così tante persone lontane tra loro nei secoli, nello spazio, nella cultura.

Che cos'è un'icona? Da quante parti si è provato a definire questo concetto? E da quante parti si sono studiate le icone di Vermeer, cercando di sviscerarne sempre nuovi simbolismi? Io credo che dobbiamo riportare le motivazioni e l'interesse di questo libro sul solco della fotografia, dove la luce è (quasi) tutto, e dove Kozloff si è maggiormente impegnato negli ultimi anni. Partendo dalle vetrine di New York, egli si è messo infatti sulle tracce dei fotografi della città, molti dei quali di origini ebraica, e nell'organizzare un'importante mostra ha sostenuto che esiste una sensibilità tutta ebraica nel fare fotografia. Per queste affermazioni è stato pure criticato (qualche spunto interessante su ebraismo, fotografia e Kozloff lo trovate qui). Ecco, proviamo a immaginare un poligono che ha come vertici 1. la New York di Kozloff, 2. l'Olanda del Seicento, così come ce la descrive anche Steven Nadler, un luogo dove in quegli stessi anni operava un altro grande ebreo come i fotografi newyorkesi di Kozloff, l'ottico-filosofo Baruch Spinoza (Vermeer e Spinoza vivono quasi gli stessi anni), 3. l'ebraismo, centrale ora come allora nei due luoghi citati, 4. le vedute dipinte da Vermeer (la mente va ovviamente a Proust, anzi a Bergotte) o i suoi interni "immensi", i suoi ritratti, comuni e straordinari (che dire di un altro capolavoro, costruito con l'anticamera buia in primo piano, come la Lettera d'amore?) e, infine, la principale generatrice delle moderne icone, 5. la fotografia: la mia resta un'ipotesi, magari frutto di sciocco sincretismo, ma forse ci spieghiamo perché questa riflessione di Kozloff offre degli spunti inediti su un artista e su alcuni temi dove finora si è scritto tantissimo. In fin dei conti, Contrasto è un editore di fotografia. Tutto torna?

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