A più di cinque anni dalla morte di Andrea Zanzotto (1921-2011) rimane ancora molto da chiarire sul modus operandi di un autore la cui difficile opera — da Dietro il paesaggio (’51) fino all’ultima raccolta, Conglomerati, pubblicata due anni prima della morte — ha spesso sfidato, superandoli, i confini del “poetabile”, ma ha anche dato adito a interpretazioni talvolta più attente ad allinearsi a questo o quel principio teorico che a confrontarsi con i testi. Imprescindibile viatico e chiave d’accesso all’ardua poesia del veneto restava finora il “Meridiano” delle Poesie e prose scelte (1999), che conteneva un commento a ogni singola poesia ad opera di Stefano Dal Bianco. Ma, precisava Dal Bianco in quella sede, «le strade sono ancora aperte e nessuno ha avuto l’ardire di mettere ordine nelle carte dell’autore».
Il libro di Francesco Venturi intraprende per la prima volta organicamente questa via con un’approfondita analisi filologica e critica dei manoscritti e carte autografe custoditi oggi al Centro Manoscritti dell’Università di Pavia. Ne emerge il ritratto d’un autore che, oltre a rivelarsi tormentato correttore dei suoi testi (come già si poteva arguire da alcune dichiarazioni: «io non sono mai stato affezionato al concetto di definitività del testo poetico. Pronunciare il ne varietur mi turba»), vede il moltiplicarsi delle varianti e dei potenziali percorsi poetici da percorrere come «sensazione quasi persecutoria per colui che scrive»: «Nel mio modesto caso prevale una volontà, a un certo punto diventa impellente, di troncare: basta, stop, non si varia più, che il testo sia pure “meno” riuscito non importa».
L’importante studio di Venturi mostra per la prima volta “come Zanzotto lavorava”, mettendo in campo una critique génétique che si rivela alquanto efficace sia per la comprensione dei tortuosi sentieri dell’invenzione sia per illuminare il testo ultimo. Venturi focalizza l’attenzione sul frutto della piena maturità del poeta, la “trilogia” o “pseudo-trilogia” formata da tre raccolte molto dissimili per temi e stile — il Galateo in Bosco (’78), Fosfeni (’83) e Idioma (’86) —, ma che Zanzotto dice composte nello stesso arco di tempo e definisce alquanto misteriosamente «tre rami non contigui di uno stesso stesso albero». La stessa dicitura di “trilogia” e “pseudo-trilogia” costituisce da sempre un enigma per i lettori di Zanzotto: come interpretare questa definizione? In che tempi e modi le tre raccolte si sono formate, e come si è sviluppato nell’arco di un decennio un ambizioso progetto che si indovina essere inizialmente unitario? Quali le segrete connessioni tra tre libri così diversi — l’uno sprofondamento nel bosco del Montello, l’altro salita a Nord verso le abbaglianti dolomiti, l’ultimo ritorno nei luoghi familiari di Pieve di Soligo?
Per rispondere al primo quesito Venturi rintraccia da un lato elementi che possano connettere (pur in maniera intermittente) le singole raccolte alle cantiche dantesche, dall’altro richiama l’immagine del ‘rizoma’ impiegata da Deleuze e Guattari nel ’76. Fornisce poi risposte precise e intelligenti interpretazioni critiche sulla modalità di formazione del corpus ricostruendo la cronologia interna delle liriche, operazione facilitata dalla puntigliosa abitudine di Zanzotto di apporre date precise sulle sue carte e sintetizzata efficacemente nel libro in numerose tavole. Impossibile dare conto di tutte le novità emerse da questa preziosa ricognizione dei segreti del laboratorio del poeta, ma Venturi arriva a mostrare la contiguità temporale tra gli ardui testi metafisici di Fosfeni, i manieristici sonetti del Galateo e le umili poesie in dialetto trevigiano di Idioma, e a individuare nel biennio 1976-77 il periodo di massimo fervore creativo per il poeta. Ci viene poi mostrato come testi notevoli della “trilogia” risalgano già a diversi anni prima e si riconnettano alle raccolte precedenti: è il caso di Rivolgersi agli ossari… del Galateo, camminata tra gli ossari della prima guerra mondiale, già scritta nel 1965 e strettamente connessa con La Beltà (1968); o della splendida Verso il 25 aprile di Idioma, che affronta il trauma della Resistenza e il senso di colpa per la rimozione della storia nelle prime raccolte ermetiche, risalente ai primi anni Settanta e originariamente destinata alla raccolta Pasque (‘73).
Ciò che emerge sono una miniera di dati inediti, indispensabili per i futuri studi e commenti ai singoli testi. Di particolare interesse risultano, oltre ai capitoli in cui vengono rintracciate le fonti filosofiche e poetiche che hanno alimentato la trilogia (Derrida e Heidegger da un lato, Rimbaud e Celan dall’altro), le sezioni sul rapporto con il cinema di Federico Fellini e sulla querelle con Fortini del ’75-’78. In generale, vengono delineati con maggior chiarezza i referenti dei componimenti – oggetti, luoghi e eventi reali –, spesso oscurati dal turbinio del significante della poesia zanzottiana, ma sempre sotterraneamente presenti. Alla base sta la convinzione della lucidità intellettuale di un acuto interprete del nostro tempo, la cui poesia è sempre sorretta da un strenua volontà di comunicazione. A chiarirlo è la poesia che dà il titolo a Idioma, Alto, altro linguaggio fuori Idioma?, attraverso cui Zanzotto rispondeva a suo modo alla questione del “grande stile e lirica moderna” posta nell’83 da Gian Luigi Beccaria: «Ma che m’interessa ormai degli idiomi? / Ma sì, invece, di qualche piccola poesia, che non vorrebbe saperne ma pur vive e muore in essi».
Eloisa Morra
Nessun commento:
Posta un commento