domenica 26 luglio 2015

Dialogo con Gian Mario Villalta di Alberto Carollo

Le edizioni Saecula hanno pubblicato due libri appartenenti a una stessa serie con titoli e grafica sostanzialmente analoga. Uno è Dialogo con Enrico Palandri a cura di Alberto della Rovere e l'altro, di cui scrivo ora, è Dialogo con Gian Mario Villalta a cura di Alberto Carollo (pp. 104, euro 10). Si torna a parlare di nord-est o Triveneto o Venezie nella forma del dialogo e intervista. Il filo - ma l'immagine del filo è solo comoda e non regge più se si parla di memoria - è anche quello della memoria individuale e ciò che, in un frangente preciso del dialogo, è invocata come "responsabilità della memoria": in un breve passaggio, ad esempio, l'intervistato dimostra come siano i paladini della memoria e delle tradizioni i più grandi contraffattori di queste (penso di aver provato a dire qualcosa di analogo quando ho scritto in queste pagine contro la peste delle "rievocazioni storiche"). Villalta fra l'altro non è nuovo a ragionamenti del genere, visto che qualche anno fa per Mondadori pubblicò Padroni a casa nostra. Perché a nordest siamo tutti antipatici. C'è stato un tempo in cui "nord-est" si trovò ad essere etichetta e tematizzazione giornalistica pressoché quotidiana. Ora tutto ciò è scemato e in questi giorni si scrive e si legge più facilmente di Europa, di tenuta o disfacimento di questa, e si dovrebbe parlare di un lento invisibile massacro politicamente corretto degli europei fra di loro, che sotto diverse spoglie - o sotto spogli elettorali ormai esangui - sta perfezionando i massacri degli scorsi secoli. Questo non significa che sia un momento meno opportuno per parlare di queste aree e del mutamento degli ultimi cinque decenni, dei mutati cicli di lavoro e comunicazione, e da qui allargare lo sguardo e l'interpretazione. E sia detto che nelle risposte lavoro-produzione-comunicazione sono inquadrati assieme e non più in modo disgiunto: non è un fatto e un'osservazione secondaria, bensì un punto di partenza spesso dimenticato per qualsiasi ragionamento sensato che si voglia provare a fare.

Naturalmente in questo libro, completato dalle interviste a Stefano Dal Bianco e Alberto Garlini, c'è molto spazio per parlare di formazione personale, dell'infanzia e adolescenza nella campagna friulana, di letteratura o anche di premi e manifestazioni letterarie e quindi del libro, oggetto mallarmeanamente progettato affinché il mondo gli precipitasse dentro, tra le pagine, e tuttavia ora non più centrale e imprescindibile nelle trasformazioni che tutti viviamo. In questo punto si accenna naturalmente alla grande mutazione portata dalle nuove tecnologie le quali, pur rapidissime nella loro propagazione, hanno avviato in un certo qual modo una grande ma lentissima trasformazione, della quale non si vede più chiaramente un principio e non si vedrà tantomeno una fine (forse ci avvicineremo a quella che nel linguaggio delle tecnologie definiamo solitamente come "fase matura"?). Chissà se questa lenta ed estenuante trasformazione fosse stata invece più decisa, quasi una mazzata, non ci trascineremmo in certe paludi o crisi che conosciamo da tempo (questo pensiero nel dialogo investe in maggior misura i ragionamenti attorno all'editoria) o se queste supposizioni sono solo il frutto di una proiezione di una fretta. La trasformazione è comunque tale, onnipresente, e a volte viene il dubbio che i nostri mondi che descriviamo travolti dall'accelerazione, in realtà ci stordiscano pure nella loro esagerata e distratta fissità. Anche dal punto di vista della scrittura, poetica narrativa o saggistica che sia, questo dialogo mostra il non risolto della questione del contemporaneo e le molte balle che ci è piaciuto raccontarci sinora. Leggendo mi tornava in mente anche una sorta di polemica a distanza tra Covacich (il cui sodalizio è più volte citato nelle risposte di Villalta) e Goffredo Fofi, risalente ormai a diversi anni fa, nel quale lo scrittore triestino dissentiva dal critico che propugnava una maggior vitalità creativa degli scrittori del sud, a suo modo di vedere più sollecitati dai problemi veri e cocenti di quelle aree d'Italia. Questa sorta di "determinismo geografico" di Fofi oggi come ieri è incomprensibile: siamo tutti più simili e per questo dobbiamo anche prestare molta attenzione al nostro sistema di credenze e ai nostri immaginari, a come si creano, a come si consolidano e a come si infrangono nel tempo e tra gli spazi del contemporaneo.

In questo dialogo si parla naturalmente anche di cultura e non potrebbe essere altrimenti, visto l'impegno che da anni vede Villalta alla direzione artistica di pordenonelegge, il festival letterario italiano di maggior successo. Come tutte le manifestazioni che funzionano - e qui qualcuno, compreso l'intervistato, ci vedrebbe bene un gesto apotropaico - pordenonelegge ha attirato e continua ad attirare un pubblico cospicuo ma anche critiche e a generare dispiaceri. Mi domando se così fosse anche per Mantova, quando questa deteneva il primato indiscusso tra i festival letterari e mi sento di prendere una posizione di difesa, per quel che può valere e per quanto possa capire che alcuni miei connazionali siano attratti da un masochismo guidato spesso da una superbia solipsistica: credo infatti che pordenonelegge rappresenti non solo un'opportunità di accrescimento e di ascolto bell'e buona, sia per una città in senso lato sia per chi la frequenta in quei giorni, tanto ricca è l'offerta e tante le opportunità di ascoltare autori importanti senza spendere nulla per gli incontri, ma anche un esempio abbastanza singolare di rilancio. Anche tra i tanti amici poeti, tutti quelli che hanno criticato il censimento poetico fatto da pordenonelegge secondo me hanno dimenticato tre elementi fondamentali: 1) quel censimento può favorire (per quel che mi riguarda ha favorito) la conoscenza e il contatto tra chi pratica la scrittura poetica in Italia; 2) ha contribuito a una descrizione meno impressionistica del panorama basata sulle solite lamentele che siamo in troppi a scrivere e pochissimi a leggere; 3) è qualcosa, un punto di partenza, finanche una banale ma utile "rubrica telefonica". Nel dialogo tra Carollo e Villalta allora non si leggono prese di posizione figlie di una concezione statica e "ministeriale" della cultura come potrebbe essere il parlare solo di "cultura come diritto" o "cultura come privilegio", perché la cultura è già parte fondativa di un sistema sociale, economico e di pensiero, quando questo c'è davvero e dà segni di vita. Se si parla troppo a vanvera di cultura significa che è venuto a mancare quel sistema economico e di pensiero e con esso la sua cultura. Trasformare la cultura in un alibi, in una scusa o peggio ancora in un tema di dibattito fiacco è un peccato mortale. E soffermarsi a parlare solo in termini di diritto o privilegio della cultura denuncerebbe una visione vecchia e stantia della cultura stessa, legata a parametri per lo più nozionistici, didascalici e assai statici.

Nel dialogo non manca infine un'incursione nel territorio infido, a tratti forse tossico (nel senso della dipendenza), dei social media. La posizione non è da apocalittico e nemmeno da integrato. Ben si comprende che di questi non ne facciamo e non ne faremo a meno. Quel che è semmai denunciato è ricollegabile alla superbia solipsistica di cui si scriveva poco fa, all'assenza di un dialogo, ad un'interazione che rischia ad ogni curvatura del pensiero di diventare fasulla, risolta - ma in fondo drammaticamente irrisolta - nell'irrazionalità calcolata di un like

Quasi a compendio di quanto ripreso sin qui, ricordo un passaggio racchiuso in quel bel libro di racconti ormai introvabile che segnò l'esordio narrativo di Villalta, Un dolore riconoscente, dove si leggeva questo:

"La vita che ci aspetta è piena di tutto, è come vivere dappertutto, è troppo grande per riuscire a pensarla.
La vita che ci aspetta è veloce, dovrà per forza sorprenderci continuamente. Io mi aspetto che un giorno penserò a me stesso di questi anni nel modo in cui adesso penso a mio nonno e ai miei genitori, come qualcuno che era quello che diceva e vedeva ogni giorno, qualcuno che era tutto in quelle parole e in quegli sguardi.
Eppure questo film già finito crescerà insieme a me, questi prati che sembrano fatti per seguire la curva degli occhi, questi cieli pieni di nuvole non andranno più via. Diventeranno un peso che io sarò costretto a portare dentro di me, un altro me stesso che non smetterà di restare nel suo mondo, che porterò dentro di me insieme con un mondo ormai morto, e sarò veramente come i miei nonni e i miei genitori, ma più nessuno avrà ricordi così puri. Nessuno avrà più avuto così poco, nessuno avrà avuto abbastanza spazio, silenzio, vuoto dentro di sé come loro."


Il prezzo in copertina di quel libro di racconti era ancora in lire. Credo che, in nuce, le riflessioni che abbiamo letto in Padroni a casa nostra. Perché a nordest siamo tutti antipatici o che possiamo leggere in questo Dialogo fossero tutte già in queste righe. Resta da capire, tra le altre cose, anche questo: se il mondo non è più fatto per finire in un bel libro dove diavolo può finire ora? Temo che sia fin troppo facile rispondere o pensare che possa finire nello schermo che avete davanti, grande o piccolo che sia. Io non sono del tutto convinto che questa sia la risposta esatta e definitiva, non la accendo e soprattutto non mi piace.

1 commento:

  1. Stavo per scrivere che come "rubrica telefonica" per i poeti c'è Facebook ma ho pensato che non tutti i poeti sono presenti, magari la maggior parte sì!

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