lunedì 24 giugno 2013

Patria. Ricordo di Silvio Lanaro

Era già da qualche giorno che riflettevo su una cosa: credo di non essere tra i fortunati che nella vita possano dire di aver incontrato un maestro. Certo, altre fortune e altre disavventure mi riguardano, ma non quella di poter usare serenamente l'espressione "il mio maestro". Mi dispiace. Poi stamattina mio fratello, appassionato lettore di cose di storia, mi ha mandato un messaggio: "Hai visto? Silvio Lanaro è morto". Questo accadere simultaneo dei miei pensieri e l'apprendere della notizia della morte di quello che è stato, in ambito universitario, il professore più importante, mi ha fatto riflettere e scrivere di getto queste righe. Perché Silvio Lanaro per me è stato quasi un maestro. Certo non si può dire che io sia stato allievo di Silvio Lanaro e nemmeno si può dire che lui sia stato mio maestro. Troppo breve e troppo unidirezionale è stata la nostra frequentazione, quantomeno de visu. Maestro e allievo si scelgono assieme, devono potersi chiamare per nome, in quel rapporto che proprio oggi, in burocratiche e cianotiche discussioni di didattica e tecnologie applicate alla didattica, andrebbe nuovamente riscoperto, senza la paura di sembrare "inattuali". Non sono contrario alla tecnologia applicata alla didattica (proprio ieri sera leggevo con interesse un articolo sul ruolo che possono rivestire i videogiochi nell'apprendimento scolastico). Tuttavia, credo sia sempre più urgente la riscoperta dell'importanza di chi ti insegna a pensare criticamente, una volta per tutte e una volta per sempre (e quindi continuamente), per comprendere fino in fondo l'importanza di tale rapporto, anche al di fuori dei dipartimenti di filosofia, dove il binomio maestro-allievo sembra ancora tenere, seppur in pose che spesso mi appaiono affettate (e con il proverbiale prosciutto affettato sugli occhi). Silvio Lanaro è stato, più semplicemente, mio professore di storia contemporanea nel corso di laurea in Scienze della comunicazione a Padova. Non posso scrivere "mio maestro", ma dico che mi sarebbe piaciuto averlo avuto come maestro (e quindi essere stato suo allievo), anche per la voce, la mimica, la prossemica, gli scatti e i baffi, per i sorrisi e le incazzature. Anche per il suo non detto. In fondo un maestro è anche questo: anima e corpo e tra questi una voce che trapassa.

Ricordo le sue lezioni ascoltate dai banchi scricchiolanti dell'aula N del Liviano. Correva l'anno accademico 1998-99, era già caldo (quindi credo fosse il secondo semestre). Aveva preparato un corso monografico intensissimo sugli intellettuali e la crisi degli anni Trenta. Un percorso ardito e ordito tra dati economici, letteratura, importanti libri di scienza sociale pubblicati in quegli anni. Percorreva le pagine di Keynes e Polanyi, Kelsen e Schmitt, Croce e Gentile, Koestler e Orwell, Céline e Hamsun, Gide e Malraux, Lederer e Adorno, i viaggi in Unione Sovietica dei coniugi Sidney e Beatrice Webb, il cinema della Riefenstahl e quello di Loach, le opere e la riflessione di architetti "fascisti" oggi studiati in tutto il mondo come Marcello Piacentini: difficile non appassionarsi a un corso così sapientemente intelaiato e raccontato dalla sua voce microfonata. Un giorno disse, con quella sua immodestia deliziosa per la quale penso talvolta che mi sarebbe piaciuto averlo davvero come maestro, che avremmo dovuto girare molto in Europa per trovare lezioni belle come le sue. Non ne ho la controprova, ma mi sono fidato, quasi come si fida un allievo, come ci si fida di un maestro che racconta commosso che su quegli stessi banchi, il 9 novembre 1943, in tanti ascoltarono dal rettore Concetto Marchesi il discorso inaugurale dell'Anno Accademico 1943-44. La precisione statistica unita alla sua abilità linguistica (in questo sicuramente vicino all'amico Mario Isnenghi) trasformavano ogni lezione in attenzione, una forma di "educazione all'attenzione", per usare la formula efficace che Simone Weil vuole a definizione di "cultura". La storia non era mai disgiunta da una riflessione sul mestiere di storico. Erano belle pure le sue arrabbiature, se l'attenzione mancava, quando gli studenti iniziavano a far brusio e a preoccuparsi un po' troppo per orari di autobus o treni da prendere al volo.


Tutta la sua produzione è meritevole di attenzione, lettura e rilettura. Non spetta certo a me, ora, stabilire l'orografia della sua bibliografia, che tutta s'attesta ad altezze rimarchevoli. Penso ora al bellissimo saggio su L'idea di contemporaneo che chiude con una sorta di lectio magistralis il manuale Storia contemporanea Donzelli (un esperimento che rappresentò un modo nuovo di intendere la manualistica storica). Accanto ad opere ponderose come la cura del volume dedicato al Veneto per la Storia d'Italia. Le Regioni di Einaudi, alla più recente raccolta di saggi intitolata Retorica e politica uscita due anni fa per Donzelli, al fondamentale Nazione e lavoro (uno dei suoi libri più discussi) e al più volte ristampato Storia dell'Italia repubblicana, ritorno col pensiero ad alcuni suoi libri più brevi e altrettanto belli e azzardo l'ipotesi che in questi libri più brevi Lanaro esprimesse ancor meglio la sua statura di storico. Si prenda ad esempio L'italia nuova. Identità e sviluppo (1861-1988), uscito nella collana "Nuovo Politecnico" di Einaudi, uno studio dove si abbraccia la grande capacità di sintesi, la crepuscolare (e perciò più acuta, dolorosa e intensa) abilità di far cozzare proficuamente il dato numerico con quello letterario, le statistiche nude e crude suonate come una partitura accanto all'analisi di un romanzo o ad un'opera di inventiva (ora mi ritornano alla mente le sue scorribande sull'opera di Vitaliano Brancati o la grande lettura dedicata al fenomeno Guareschi), per giungere a quel suo contributo di epistemologia storica intitolato Raccontare la storia. Ma per ricordare Silvio Lanaro oggi, vi lascio con il suo libro forse più breve ed enigmatico. Uscì nel 1996 per Marsilio con il titolo magnificamente inattuale, e forse genialmente surrettizio, di Patria. E quel titolo ovviamente non era né inattuale né surrettizio. Il sottotitolo: Circumnavigazione di un'idea controversa. Il periplo compiuto da Lanaro con quell'opera assai breve era notevole. E rilanciava nel dibattito la patria. E non mi riferisco alla generica idea di patria, bensì alla parola "patria". Mirabile fu la perlustrazione di una letteratura mai scandagliata in precedenza e relativa al caso francese. Proprio quel volume costituisce oggi uno dei più bei lasciti di un maestro così lontano dal conformismo giornalistico di tanti sedicenti storici; quelle tesi sulla non ancora possibile agonia della patria e, anzi, sul ruolo primario della patria a garanzia e protezione delle parabole umane suonano oggi ancor più chiare, nitide, proprio come la bellissima citazione di Piero Calamandrei che Lanaro isolò per chiudere quel libro. Forse Patria ora si può intendere come un estremo tentativo di salvare dalla pattumiera lessicografica della storia una parola che non ha affatto esaurito il proprio battito. Che io sappia, non sono molti gli storici che dobbiamo ringraziare per un simile gesto, in fondo così generoso e curativo dei malesseri europei e internazionali.

2 commenti:

  1. E' stato pure mio professore, a lettere. Mi ritrovo in più passi di questo tuo ricordo. E' stato un grande

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  2. Grandissimo docente

    Margherita

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