venerdì 10 febbraio 2012

Dova va la cultura europea? Il "magistrale rendiconto del raduno suizo" di Gianfranco Contini

Anno 1946. Il mondo della cultura si raduna a Ginevra per la prima edizione dei "Rencontres internationales", iniziativa nata sulla spinta di un gruppo di intellettuali ginevrini consapevoli della non procrastinabilità della ripresa del dialogo in un continente sdrucito. Per l'Italia c'è un cronista d'eccezione, Gianfranco Contini, che trascriverà un "magistrale rendiconto del raduno suizo" (le parole appartengono a Montale e si ritrovano nel carteggio di Eusebio e Trabucco) per la "Fiera letteraria". Il breve ma densissimo testo era ormai addormentato nei ripostigli del passato. Fu il compianto Michele Ranchetti, durante un appuntamento al centro studi Fortini di Siena, a suonare la sveglia sull'importanza di quel contributo pressoché dimenticato. E così, come ricorda Luca Baranelli nella nota introduttiva, questo volume (Quodlibet, pp. 64, euro 9) diventa anche l'omaggio della casa editrice di Macerata al "suo" Ranchetti (di Ranchetti è la cura della collana Verbarium, dove trovarono posto gli scritti di Renato Solmi, oggi purtroppo difficilmente reperibili).

Sono molti i punti che l'intelligenza critica del trentaquattrenne Contini sfiora nel suo breve reportage-analisi. Inizialmente ne ricavo tre. 1) Si inizia con l'incredibile e ingenua mancanza della politica in un congresso che si definisce dedicato allo "spirito europeo", quasi la cultura trovasse nella propria giustificazione "un alibi e un pretesto all'inazione". Qui, nel mettere il dito nella piaga, Contini conclude che "sarà lecito senza peccato di demagogico vocabolario chiamare reazionaria una cultura che, giunta alla sua presa di coscienza, si rifiuti di convertirsi in azione". 2) Scandalosa è poi l'assenza di Cristo inteso come logos: se "Cristo non è cultura", come affermava Carlo Bo in Italia, "è un po' più grave che la cultura non sia Cristo" replica Contini. 3) E quindi c'è l'incapacità, colta subito dal grande critico, di sollevare e mettere in evidenza il senso profondo delle esperienze resistenziali e del loro significato radicalmente "religioso".

Il libretto allora diventa oggi un pungolo, un dito puntato sul tema perdurante della vera o presunta decadenza europea, tema che affonda radici in pensatori ormai distanti decenni se non secoli. Contini, che ha da poco concluso la lotta partigiana dell'Ossola, sa come far vibrare una prosa che si apre in molteplici direzioni ed è persino in grado di captare a caldo il senso ultimo del sacrificio della stagione resistenziale appena terminata, di metterlo in relazione con quello "spirito europeo" che avrebbe dovuto essere il filo conduttore dell'incontro ginevrino; e lo sa fare probabilmente molto meglio - dalla sua "semplice" postazione di cronista - di tante affermate personalità chiamate a relazionare in quel primo appuntamento dei "Rencontres". In questi passaggi chiave si comprende meglio l'invito di Ranchetti a ripubblicare questo scritto, angosciosamente attuale. Se il tema della decadenza d'Europa si trascina da tantissimo tempo, solo oggi pare che il declino economico in atto sia davvero un declino in primis culturale. L'Europa dovrebbe semplicemente chiedersi dove sta andando, ma non lo sa fare, non sa porsi le giuste domande. Sono discorsi noti: se l'idea di nazione è forse giunta al capolinea, almeno sotto certi aspetti, se il tarlo persistente di un certo nazionalismo rischia di combinare seri danni anche nell'Europa attuale, è altrettanto vero che a oggi non si profila all'orizzonte alcuna alternativa desiderabile (tant'è, ad esempio, che stiamo rivivendo oggi l'eterno e mai risolto problema geopolitico del centro). Le stelle di maggiore magnitudine sono senza dubbio Lukács e Jaspers, richiami diretti ai fari del Marxismo e dell'Esistenzialismo (a proposito di esistenzialisti, gustosa l'uscita di Croce che, invitato e messo di fronte ad una possibile calata di Sartre sul suolo ginevrino, si domandò: "E allora che ci andiamo a fare?" unita a una profonda diffidenza di Contini verso l'esistenzialismo italiano). Pur scomponendo le aporie e insostenibilità di certe posizioni di entrambi, e pur prendendone anche le distanze, il giovane critico è saldamente con Lukács.

La lettura è anche opportunità di scoperta di un Contini che, in seguito, faremo più fatica a ritrovare. Si dimostra infatti un narratore e ritrattista insospettabile, brillante, che con pochi tratti restituisce visi, capigliature e posture dei principali protagonisti: Francesco Flora rappresentante per l'Italia, Julien Benda che nell'entre-deux-guerres aveva scritto proprio del rapporto tra intellettuali e potere ne La Trahison des Clercs, riedito proprio in quel 1946, i già citati Karl Jaspers e György Lukács, lo stucchevole George Bernanos definito addirittura "clown perfetto" o "energumeno", Maurice Merleau-Ponty, il futuro direttore dei "Rencontres", Jean Starobinski, o l'inglese del gruppo, Stephen Spender, al quale è dedicato un importante paragrafo. Tutto ciò rende la lettura ancora più memorabile. Se poi aggiungiamo l'entusiasmo delle riscoperte che la buona editoria sa ancora regalare, capirete perché stiamo parlando di un libro la cui importanza oggi è inversamente proporzionale al volume occupato. Ma ricordare cosa rappresenti Contini per la cultura italiana ed europea è lavoro sterminato e non è cosa qui fattibile (basti però ricordare la sua formidabile fucina di allievi, con in testa - almeno per chi scrive - una figura raramente ricordata nei dibattiti ma eccezionale come Giovanni Pozzi, che si spinse a definire questo breve contributo cronachistico un moderno "conte philosophique"). Questo libello ci consente di capire perché a trentaquattro anni il giovane Contini si candidava ad una posizione di grande rilievo nel panorama europeo anche sul versante politico: "come non accorgersi che un certo culto di Virgilio (della bellezza immobile, prodotto oggettivo, con sede fisica) ha correlati politici inevitabili?". Proprio su questo versante, già pressante in questa precoce cronaca svizzera, ritorna Daniele Giglioli nel contributo che chiude il volume, intitolato "Pedagogia della forma". In tutte queste pagine aleggia il profumo di quel fiore reciso che fu, in Italia, il Partito d'Azione, l'eco di quei vagiti che preludevano a un lavorio dinamico sui valori, sulla dialettica a essi collegata e collegata persino a quella "critica degli scartafacci" o "critica della varianti" che ha reso celebre il lavoro del Contini critico. Un lavoro che, per ritornare brevemente al "religioso" di cui sopra, si collega persino all'etimo forse più attendibile di religio, che, come ricorda Giglioli sulla scia di Benveniste e del suo Vocabolario, può essere ricondotto a relegere (Cicerone) anziché a religare (Lattanzio, Agostino). "Religioso" come contrario di negligente quindi. Come ricorda opportunamente Giglioli, religiosità come aver cura, come fuga dalla trascuratezza e quindi come responsabilità.

Dove va la cultura europea? Un titolo-domanda che dovrebbe, oggi come allora, provocare una scossa tellurica.

(Interessante questa pagina web del sito dei "Rencontres Internationales de Genève", con la possibilità di download dei pdf degli atti delle varie edizioni.)

1 commento:

  1. Onore al merito di Quodlibet! Questa casa editrice sta pubblicando libri interessantissimi. Saluti a tutti, Massimo

    RispondiElimina