Dopo aver ricordato (qui) l'enigmatica e inesauribile opera Il pubblico, torno brevemente sul teatro di García Lorca, corpo di testi che nel tempo appare parte tra le più feconde e durature del suo lascito di scrittore. Nel 1936, a 38 anni, qualche mese prima di essere fucilato a Viznar dai falangisti, Lorca scrisse La casa di Bernarda Alba, una "tragedia in tre atti" che fece a malapena in tempo a leggere ad alcuni amici. Il titolo ci cala già nella scena unica, ovvero la casa della dispotica Bernarda Alba, uno spazio deliberatamente chiuso, apparentemente ermetico ma con ampie falle. Tra queste spesse mura Bernarda, dopo la morte del marito, ha deciso di allargarsi ed espandersi, e qui ha sostanzialmente sprangato nel silenzio del lutto la vecchia madre e le cinque figlie. Solo la figlia maggiore, che ha ereditato dal padre, potrà avere rapporti con gli uomini e in particolar modo con Pepe il romano, il più bello del paese, un personaggio che Lorca ha l'accortezza di non mandare mai in scena, lasciando questa tragedia nell'alveo di un gineceo sofferente ad alta pressione e creando un gioco interni/esterni in assenza di esterni. Pepe, che è solamente interessato all'eredità della sorella maggiore, ha in realtà una storia con la sorella minore, Adele. Questa finirà per impiccarsi quando Bernarda finge di aver ucciso l'uomo che, a causa della frequentazione con la figlia più piccola, è divenuto la causa dei mali della famiglia e potenziale minaccia dell'onore.
Dramma della segregazione (non solo quella della gioventù delle figlie, ma anche quella della madre anziana e di una serva), dell'intrico soffocante delle convenzioni nella Spagna rurale (siamo in Andalusia), del senso dell'onore, dell'abbandono e della convergenza verso uno stesso uomo da parte di più sorelle, finanche esempio all'apice di una certa gelosia raggiunta "intra moenia", La casa di Bernarda Alba è parimenti un dramma semplice, un "documentario fotografico" nella parole del suo autore, che lascia all'esecuzione scenica il rinnovarsi del guardare che reinventa, ogni volta, il prodigio stesso del teatro. Nelle voci femminili che si rincorrono e creano lo spazio chiuso e concluso della casa, Lorca ha alluso - qui più che altrove - ai drammi della pazzia e della ribellione che hanno occupato i palchi del teatro coevo, facendo emergere, più di mille discorsi, alcune riflessioni cruciali per chi si occupa di storia delle donne e femminismo (e trovo strano che non vi sia il suo nome tra quelli che si ricordano maggiormente). Continuiamo a viaggiare sparati tra le convenzioni e il teatro, che è convenzione tra le convenzioni (come il linguaggio, del resto), è ancora una volta qui a farci guardare dentro queste meccaniche convenzionali rattrappite e così poco celesti.
La casa di Bernarda Alba, la cui prima mondiale si registra soltanto l'8 marzo 1945 al Teatro Avenida di Buones Aires con l'attrice spagnola naturalizzata uruguaiana Margarita Xirgu, è disponibile all'interno della collana "Collezione di teatro" di Einaudi sin dal 1965 (pp. 67, euro 10, traduzione dell'ispanista Vittorio Bodini). In Italia la prima fu esattamente settant'anni fa, il 17 maggio 1947, al Teatro Nuovo di Milano, per la regia di Vito Pandolfi e con Wanda Capodaglio. In chiusura, è facile riconoscere che ha sicuramente più senso recensire una messa in scena di un'opera teatrale che un libro che ne contenga il testo in traduzione. Eppure nel gran discorso e metadiscorso fantasmagorico che riguarda i nostri magici libri - e nel quale anche un blog come questo è impelagato - è bene che ritornino protagonisti anche i libri del teatro: spesso nascondono più tesori della narrativa o della poesia, solo per far il nome di due generi, e funzionano meglio come attivatori di impressionanti scene mentali che possono o meno aver trovato un riscontro in una data regia e messa in scena dell'opera. Provare per credere.
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