sabato 20 maggio 2017

"L'antagonista" di Edoardo Zambelli

Gioca bene la carta del proprio esordio Edoardo Zambelli ne L’antagonista (Laurana, pp. 222, euro 15), costruendo un romanzo che corre su due linee che convergono verso un comune punto di fuga. Qui la fiction (quella che possiamo chiamare la "vicenda principale") e la meta-fiction (le pagine del romanzo che il protagonista anonimo sta scrivendo, finzione nella finzione) si intervallano creando un inedito gioco di specchi, retto sempre con attenzione e controllo in ogni fase della narrazione, in una prosa che si distingue per come lascia precipitare l'incerto dentro la certezza di un nugolo fitto di descrizioni, fino all’allucinato e allucinante epilogo. Quanto avremo letto fino allora si sarà srotolato davanti a noi come un giallo a tappe, costellato di geometriche e inquietanti coincidenze. Evitando di avvitare l’analisi attorno a un protagonista (ma si usa questa parola con le pinze in un romanzo che si intitola così!) e alla sua vita di trentenne-quarantenne inetto e inadatto dalla vita sfasciata - tema di cui ipotizziamo gli operatori editoriali non sentano la mancanza, dopo i tentativi promozionali della spenta “generazione TQ" - Zambelli ha costruito un viaggio in prima persona che continuamente rimanda agli altri, al prossimo, alle entrate/uscite delle persone e dei luoghi nella vita di tutti.

Chi si racconta ha da poco concluso una relazione di matrimonio e decide di ritirarsi a Torre dell’Orso, un paesello marino della Puglia, per scrivere un romanzo e questa è una delle due rotaie su cui effettivamente scorre il testo, oltre alla vicenda principale. Qui, provando a ricomporre una vita routinaria fatta di passeggiate e scrittura, farà la casuale scoperta, da un quotidiano locale, della morte per suicidio di Erika, persona-movente di tutto il viaggio che intraprenderà e di tutte le anime che si accalcheranno nelle pagine di questo libro. Erika era stata la sua ragazza molti anni prima, all’epoca dell’università nel mantovano. Proprio per questo l’uomo che narra la vicenda principale con una prosa lontanissima dall’ipotassi (e forse all’inizio bisogna un po’ fare l’orecchio alla frammentazione) si reca a Gonzaga per starci qualche giorno. Inizia dalla tomba dove trova un biglietto con su scritto soltanto "perdonami", parla con il parroco senza ricavare granché, ritrova l’agonizzante Giovanni gestore del negozio di dischi dove aveva lavorato, un parente di Erika e Grazia, la donna attraente che ha preso in gestione l’albergo in cui si ferma per qualche notte. Sono tutte persone che scopriremo essere legate alla vita e al destino tragico di Erika. Ad un certo punto la narrazione prende la strada di Roma e lasciamo al lettore anche la curiosità di scoprire quale Roma dipinga Zambelli, perché qui sta una delle parti più riuscite del suo lavoro. A Roma i nodi vengono al pettine grazie all’incontro con un impresario teatrale che aveva preso in consegna Erika e il suo sogno di recitazione e veniamo rinviati infine a un fotografo che era diventato il compagno di Erika e che l'aveva uccisa senza ucciderla, mortificandola in uno stupro di gruppo da lui immortalato in una foto. Sono spesso le foto a orientare i vettori del racconto di Zambelli, fino alla foto dello stupro e al suo bruciare. E piove molto nelle pagine, il cielo si riapre ma torna immancabilmente a piovere e fa freddo. I due sensi più corteggiati dalla scrittura, vista e udito, mi pare abbiano trovato in questo esordio una riuscitissima staffetta.

Edmond Jabès ha scritto che "non siamo fatti per pensare gli inizi. Sono gli inizi che, successivamente, ci pensano". A rincorrere il mistero di una fine Zambelli ha scritto soprattutto un libro molto bello sugli inizi delle relazioni e sulla loro permanenza. Il viaggio si compie in avanti nel tempo, ma in realtà diventa un viaggio di ricostruzione, flashback, indagine e memoria. L'impressione è che comunque non ci sia niente di più fuorviante dell'espressione "fare i conti con il proprio passato". Senza esagerare nel dipanare una trama sostanzialmente lineare ma ricca di colpi di scena “a ritroso”, va detto che questo libro ricolloca la scrittura in quel percorso radicalmente disturbante che da sempre le appartiene e che è folle chiederle di dimenticare per inseguire un mercato che sembra più a suo agio nei libri "onesti" dei buoni, edificanti sentimenti e scenette. Giulio Mozzi, che per questo libro ha scritto la bandella, ha affermato che L'antagonista è “un romanzo sul desiderio di essere uccisi”. Questo desiderio può riguardare sia la vicenda principale di Erika sia quella inventata, ovvero l’ulteriore invenzione dentro l’invenzione, la storia che lo scrittore sta scrivendo e che intervalla, spesso con capitoli più brevi, quella che per comodità abbiamo definito “vicenda principale”. Tra l’altro a Zambelli è riuscito anche di non scrivere l’ennesimo romanzo poco interessante con al centro le vicende di uno scrittore: non vi è quasi nulla di autoreferenziale, ma quello che vale è la relazione tra le persone che comporranno questo mosaico di un pavimento curvo e irregolare, dove malcerti si cammina tutti, il come si diventa solo comparsa nella vita di qualcuno, il come si resta nei sentimenti e nel ricordo. Senza rinviare a idiozie come ad esempio "il fuoco sacro dell'arte" o altre menate del genere, anzi, lasciando percepire il distacco profondo da queste (almeno mi è parso si percepisca nettamente ciò nell'incontro tra il protagonista e l'impresario teatrale), Zambelli ha infine instillato il dubbio di un rinnovato valore simbolico attivato da qualsiasi opera di finzione. In effetti lui a volte fa economia e ogni cosa che rientra nello spettro di registrazione della sua sonda sembra poi per forza destinata ad avere un ruolo fondamentale nella ricerca attorno al mistero di Erika. In tempi di realismo o neorealismo questa economia di elementi e questo ruolo di tutto ciò che precipitava nella pagina aveva un valore ben preciso e diverso, forse poco interessante. Oggi è diventata altro. Ma che cosa precisamente? Simbolo e basta? Non lo so.

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