Pubblico di seguito un contributo di Luca Rizzatello di Edizioni Prufrock spa sull'editoria di poesia. A mio avviso, a differenza di altri articoli su questo "tema" letti da un anno a questa parte, non è affatto noioso e ripetitivo. Mi pare utile, inoltre. Questo scritto è già apparso sul sito Diaforia.org. Ringrazio l'autore e la redazione di Diaforia.org per aver concesso di riproporlo qui.
“Ma qvesto,”
said the boss, “è divertente”
catching the point before the aesthetes had got there 0
Jonathan Swift ha scritto che per esempio, si è dato il caso di pirati spinti dalla tempesta verso regioni sconosciute; un loro mozzo scopre terra dall'alto dell'albero maestro; essi discendono per rubare e saccheggiare; trovano un popolo inerme che li riceve amichevolmente; essi danno un altro nome a quel paese e ne prendono possesso a nome del loro re; piantano un palo fradicio e innalzano una lapide per ricordo dell'avvenimento; ammazzano qualche dozzina d'indigeni, ne portano seco uno o due come campioni, tornano in patria e ottengono la grazia sovrana. Laggiù, intanto, s'inizia un nuovo dominio fondato sul diritto divino; alla prima occasione viene mandata colà una flotta e i naturali di quella vergine terra sono scacciati o uccisi; i loro capi sottoposti ai tormenti perché confessino dove tengono i tesori; insomma accade tutto quanto può immaginarsi di crudele e di svergognato: i disgraziati aborigeni arrossano di sangue il suolo del loro paese, e quella ciurma di furfanti che si è distinta in un'impresa così degna, prende il nome di “colonia” mandata per recare la civiltà tra un popolo barbaro e idolatra1, invece Ezra Pound ha scritto che la critica inglese e americana della generazione precedente alla mia, e l'attività del tutto spregevole e maledetta della burocrazia letteraria al potere (materialmente al potere nelle redazioni, nelle case editrici, ecc.) si sono risolte più che altro nella vacua asserzione che la giraffa non esiste, e magari non solamente la giraffa, ma intere tribù di animali, il puma, la pantera, il ben noto bufalo indiano. Pecore e giovenchi castrati essi ne avevano visti, ma non si poteva permettere che un W. H. Hudson tornasse dalle Ande portando notizia di uccelli che «fin dall'antichità abitavano la terra», né che un Beebe si calasse in acqua con un apparecchio brevettato per tirare fuori dalle profondità marine nuove sorta di pesci. La più grossa di tutte le bestie era l'alce cornuto del Dominion, e così via. Bisognava pure segnare dei limiti al concetto di fauna. E via di questo passo. […] Il naufragio di un vascello nel secolo quindicesimo poteva spiegarsi come un’azione divina, mentre un disastro in una tempesta di uguale gravità, ai nostri giorni, sarebbe dovuto a una grossolana negligenza vuoi nella costruzione, o nella navigazione o nella sorveglianza delle macchine. Vi sono infamie nell’anno XII altrettanto assurde della morte per sete nella città di Londra. C’è un TEMPO per queste cose. È del tutto ovvio che non tutti noi viviamo nello stesso tempo.2
Le due citazioni, mutato il gradiente allegorico, esprimono lo stesso principio: l’ultima parola in merito al nuovo – e quindi in merito alla tradizione – qualcuno la deve avere; in altri termini: qualcun altro non la deve avere. Inoltre: in entrambi i casi, c’è la premessa esplorativa, poi l’incontro con l’altro, infine il processo di normalizzazione.
Secondo i dati ISTAT, nel 2015 si stima che il 42% delle persone di 6 anni e più (circa 24 milioni) abbia letto almeno un libro nei 12 mesi precedenti l'intervista per motivi non strettamente scolastici o professionali. Il dato appare stabile rispetto al 2014, dopo la diminuzione iniziata nel 20113. In questo articolo si parlerà di fare libri, e nello specifico di fare libri di poesia, pertanto il dato andrebbe notevolmente ridimensionato; tuttavia, è un buon punto di partenza. Personalmente, credo che per il rimanente 58% delle persone (che di fatto non rimane, semmai è il contrario), sia un diritto non leggere almeno un libro nei 12 mesi precedenti l'intervista per motivi non strettamente scolastici o professionali. Però, in quanto editore, ho il dovere di pormi la questione da un punto di vista tecnico, e cercare di capire, per esempio, se in quel 58% siano presenti delle persone che potenzialmente potrebbero leggere un libro pubblicato dalla mia casa editrice, e, nel caso di risposta affermativa, cercare di capire le ragioni del mancato contatto tra queste persone e i libri della mia casa editrice, e quindi trovare una soluzione.
Io penso che una casa editrice dovrebbe tendere alla produzione di un paradigma, costituito da elementi che contraggono tra loro una relazione virtuale di sostituibilità, e che, soprattutto, preveda il principio di falsicabilità.
Karl Popper ha scritto che in occasione di una lezione che ho tenuto in Germania non molti anni fa ho incontrato il responsabile di una televisione, che era venuto ad ascoltarmi, insieme ad alcuni collaboratori. Non ne faccio il nome per non personalizzare il caso. Ebbi con lui una discussione durante la quale sostenne alcune orribili tesi nella cui verità egli naturalmente credeva. Diceva per esempio: “Dobbiamo offrire alla gente quello che la gente vuole”, come se si potesse sapere quello che la gente vuole dalle statistiche sugli ascolti delle trasmissioni. Quello che possiamo ricavare da lì sono soltanto indicazioni circa le preferenze tra le produzioni che sono state offerte. Guardando quei numeri noi non possiamo sapere che cosa dovremmo o potremmo offrire e lui, il capo di quella televisione, non può sapere che cosa la gente sceglierebbe se ricevesse proposte diverse dalle sue. Il fatto è che egli crede veramente che la scelta sia possibile soltanto nell’ambito dell’offerta così com’è e a questo non vede alternative. Nella democrazia, come ho sostenuto altre volte, non c’è nient’altro che un principio di difesa dalla dittatura, ma non c’è neppure nulla che dica, per esempio, che la gente che dispone di più conoscenza non debba offrirne a chi ne ha di meno. Al contrario la democrazia ha sempre inteso far crescere il livello dell’educazione; è questa una sua vecchia, tradizionale aspirazione. Le idee di quel signore non corrispondono per niente all’idea di democrazia, che è stata ed è quella di far crescere l’educazione generale offrendo a tutti opportunità sempre migliori. Invece i principi che lui mi ha illustrato hanno come conseguenza che si offrono all’audience livelli di produzione sempre peggiori e che l’audience li accetta purché ci si metta sopra del pepe, delle spezie, dei sapori forti, che sono per lo più rappresentati dalla violenza, dal sesso e dal sensazionalismo. Il fatto è che più si impiega questo genere di spezie più si educa la gente a richiederne. E dal momento che questo tipo di intervento è il più facile a capirsi da parte dei produttori e quello che produce una più facile reazione da parte dell’audience, si determina una situazione per cui si smette di pensare a interventi più difficili. Basta prendere la scatola del pepe e metterlo nelle trasmissioni. Così un responsabile televisivo può pensare che il problema sia risolto. E questo è quello che è accaduto anno dopo anno da quando la televisione è partita: spezie più forti sul cibo preparato perché il cibo è cattivo e con più sale e più pepe si cerca di passar sopra anche a un sapore disgustoso4. La mia impressione è che questo fenomeno – con tutte le differenze del caso – sia estendibile anche alla produzione dei libri di poesia; nel dibattito tra chi sostiene una scrittura comunicativa e chi ne sostiene una di ricerca, nove volte su dieci si inciampa sul concetto di nazionalpopolare; nel Vocabolario Treccani, salomonicamente, si legge:
nazionàl-popolare (o nazionale-popolare) agg. –
1. Propriam., che è insieme nazionale e popolare, con specifico riferimento alla concezione estetica di A. Gramsci (1891-1937), secondo la quale le opere letterarie o artistiche, e in generale usi, costumi o manifestazioni di una civiltà, devono esprimere i caratteri distintivi della cultura nazionale in modo da essere riconosciuti come rappresentativi di tutto il popolo e contribuire così alla presa di coscienza dell’identità concettuale di nazione e popolo: in Italia è sempre mancata e continua a mancare una letteratura nazionale-popolare, narrativa e d’altro genere (Gramsci).
2. estens. Con valore riduttivo, di tutto ciò che rappresenta gli stereotipi e gli aspetti più superficiali di un gusto e di una presunta identità nazionali.
Io noto che sempre più spesso sia chi (tanto autrice/autore, quanto editore) fa una scrittura di ricerca, sia chi (idem) ne fa una comunicativa, deve fare i conti con il punto 2.; nel primo caso attraverso operazioni mimetiche del linguaggio dei social, tutto analfabetismo di ritorno e punteggiatura massimalista, nel secondo perché di fatto i caratteri distintivi della cultura nazionale del punto 1. sono quelli espressi dal punto 2.
Ci si sposta quindi sul piano delle strategie – o più moderatamente delle scelte – che portano alla realizzazione di un libro, e successivamente alla sua promozione. Molto si investe sul ruolo di chi il libro lo scrive, ed è sempre meno chiaro quanto il carisma dell’autrice/dell’autore sia dominante nel processo editoriale, ovvero di quanto l’agenda dei contatti di un’autrice/un autore influisca nel piano editoriale di una casa editrice. La comunicabilità delle poesie è altra cosa dalla comunicabilità di un libro, e nel secondo caso sta all’editore utilizzare o inventare gli strumenti (es. booktrailers, progetto grafico dell’opera, sonorizzazioni, presentazioni in luoghi che esprimano una qualcerta intelligenza, altro) che siano in grado di comprenderlo, senza doparlo; invece fraintenderlo è un privilegio che spetta a chi il libro lo legge.
La poesia è un codice, e come tale deve funzionare; il ricorrere al concetto di bellezza – salvifica o meno – è uno spostare la questione sul piano dei consumi. Responsabilità di chi scrive dovrebbe essere di scrivere quello che va scritto, e responsabilità di chi fa l’editore dovrebbe essere di pubblicare quello che va pubblicato, bellezza o no. Dino Campana ha scritto caro Bino, rileggo cosa che mi fa male, le 100 p. del p. Giovanni e noto queste impressioni. Troppa materia, i rospi, i serponi, il domatore (due colpettini all’affetto francescano, delicatezze di sbirro) – (ascelle di maestrine in sudore, zitelle mature di buona famiglia che lasciano l’ombra distesa al passo domenicale). Manuale del pellirossa. Tecnica cerebrale. Industria del cadavere. Imperialismo borghese frasaiolo, modernità dell’Italia giolittiana (di fronte all’Italia sotto l’arco d’oltre mare in Ostia morta al limo del Tevere in faccia con un fregio dei putti del Sartorio, stanca di essere eternamente giovane come lo è anche di passeggiare tra ortaggi mitologici con passo di belva niciana). La luna non vuol staccarsi leggera dal monte. La abbaglia l’acetilene nell’Arno, secolare rigovernatura della letteratura italiana. Questa borghese Louis XIV. Queste cattiverie fanno male a chi le dice (il gran segreto di Giovanni di avvilire i suoi detrattori). Meglio dimenticare queste offese alla poesia. Meglio Soffici aigre et maigre nella polvere stemperata di tutti i topazi e gli orienti di D’Annunzio e di Rimbaud. Stenterello en poète qui se torde confit dans le bleu du jour. (Bleu Watteau). I commessi, la chérie, il genio solare, la gioventù latina (che pure sono partiti per il fronte). Dunque, Bino, sono triste a morte, e presto muoio, il che non mi impedirà di andare soldato il 19. Ciao, un lungo bacio per tutto il bene che non ci siamo voluti. Tuo Dino.5
Secondo i dati ISTAT, nel 2015 si stima che il 42% delle persone di 6 anni e più (circa 24 milioni) abbia letto almeno un libro nei 12 mesi precedenti l'intervista per motivi non strettamente scolastici o professionali. Il dato appare stabile rispetto al 2014, dopo la diminuzione iniziata nel 20113. In questo articolo si parlerà di fare libri, e nello specifico di fare libri di poesia, pertanto il dato andrebbe notevolmente ridimensionato; tuttavia, è un buon punto di partenza. Personalmente, credo che per il rimanente 58% delle persone (che di fatto non rimane, semmai è il contrario), sia un diritto non leggere almeno un libro nei 12 mesi precedenti l'intervista per motivi non strettamente scolastici o professionali. Però, in quanto editore, ho il dovere di pormi la questione da un punto di vista tecnico, e cercare di capire, per esempio, se in quel 58% siano presenti delle persone che potenzialmente potrebbero leggere un libro pubblicato dalla mia casa editrice, e, nel caso di risposta affermativa, cercare di capire le ragioni del mancato contatto tra queste persone e i libri della mia casa editrice, e quindi trovare una soluzione.
Io penso che una casa editrice dovrebbe tendere alla produzione di un paradigma, costituito da elementi che contraggono tra loro una relazione virtuale di sostituibilità, e che, soprattutto, preveda il principio di falsicabilità.
Karl Popper ha scritto che in occasione di una lezione che ho tenuto in Germania non molti anni fa ho incontrato il responsabile di una televisione, che era venuto ad ascoltarmi, insieme ad alcuni collaboratori. Non ne faccio il nome per non personalizzare il caso. Ebbi con lui una discussione durante la quale sostenne alcune orribili tesi nella cui verità egli naturalmente credeva. Diceva per esempio: “Dobbiamo offrire alla gente quello che la gente vuole”, come se si potesse sapere quello che la gente vuole dalle statistiche sugli ascolti delle trasmissioni. Quello che possiamo ricavare da lì sono soltanto indicazioni circa le preferenze tra le produzioni che sono state offerte. Guardando quei numeri noi non possiamo sapere che cosa dovremmo o potremmo offrire e lui, il capo di quella televisione, non può sapere che cosa la gente sceglierebbe se ricevesse proposte diverse dalle sue. Il fatto è che egli crede veramente che la scelta sia possibile soltanto nell’ambito dell’offerta così com’è e a questo non vede alternative. Nella democrazia, come ho sostenuto altre volte, non c’è nient’altro che un principio di difesa dalla dittatura, ma non c’è neppure nulla che dica, per esempio, che la gente che dispone di più conoscenza non debba offrirne a chi ne ha di meno. Al contrario la democrazia ha sempre inteso far crescere il livello dell’educazione; è questa una sua vecchia, tradizionale aspirazione. Le idee di quel signore non corrispondono per niente all’idea di democrazia, che è stata ed è quella di far crescere l’educazione generale offrendo a tutti opportunità sempre migliori. Invece i principi che lui mi ha illustrato hanno come conseguenza che si offrono all’audience livelli di produzione sempre peggiori e che l’audience li accetta purché ci si metta sopra del pepe, delle spezie, dei sapori forti, che sono per lo più rappresentati dalla violenza, dal sesso e dal sensazionalismo. Il fatto è che più si impiega questo genere di spezie più si educa la gente a richiederne. E dal momento che questo tipo di intervento è il più facile a capirsi da parte dei produttori e quello che produce una più facile reazione da parte dell’audience, si determina una situazione per cui si smette di pensare a interventi più difficili. Basta prendere la scatola del pepe e metterlo nelle trasmissioni. Così un responsabile televisivo può pensare che il problema sia risolto. E questo è quello che è accaduto anno dopo anno da quando la televisione è partita: spezie più forti sul cibo preparato perché il cibo è cattivo e con più sale e più pepe si cerca di passar sopra anche a un sapore disgustoso4. La mia impressione è che questo fenomeno – con tutte le differenze del caso – sia estendibile anche alla produzione dei libri di poesia; nel dibattito tra chi sostiene una scrittura comunicativa e chi ne sostiene una di ricerca, nove volte su dieci si inciampa sul concetto di nazionalpopolare; nel Vocabolario Treccani, salomonicamente, si legge:
nazionàl-popolare (o nazionale-popolare) agg. –
1. Propriam., che è insieme nazionale e popolare, con specifico riferimento alla concezione estetica di A. Gramsci (1891-1937), secondo la quale le opere letterarie o artistiche, e in generale usi, costumi o manifestazioni di una civiltà, devono esprimere i caratteri distintivi della cultura nazionale in modo da essere riconosciuti come rappresentativi di tutto il popolo e contribuire così alla presa di coscienza dell’identità concettuale di nazione e popolo: in Italia è sempre mancata e continua a mancare una letteratura nazionale-popolare, narrativa e d’altro genere (Gramsci).
2. estens. Con valore riduttivo, di tutto ciò che rappresenta gli stereotipi e gli aspetti più superficiali di un gusto e di una presunta identità nazionali.
Io noto che sempre più spesso sia chi (tanto autrice/autore, quanto editore) fa una scrittura di ricerca, sia chi (idem) ne fa una comunicativa, deve fare i conti con il punto 2.; nel primo caso attraverso operazioni mimetiche del linguaggio dei social, tutto analfabetismo di ritorno e punteggiatura massimalista, nel secondo perché di fatto i caratteri distintivi della cultura nazionale del punto 1. sono quelli espressi dal punto 2.
Ci si sposta quindi sul piano delle strategie – o più moderatamente delle scelte – che portano alla realizzazione di un libro, e successivamente alla sua promozione. Molto si investe sul ruolo di chi il libro lo scrive, ed è sempre meno chiaro quanto il carisma dell’autrice/dell’autore sia dominante nel processo editoriale, ovvero di quanto l’agenda dei contatti di un’autrice/un autore influisca nel piano editoriale di una casa editrice. La comunicabilità delle poesie è altra cosa dalla comunicabilità di un libro, e nel secondo caso sta all’editore utilizzare o inventare gli strumenti (es. booktrailers, progetto grafico dell’opera, sonorizzazioni, presentazioni in luoghi che esprimano una qualcerta intelligenza, altro) che siano in grado di comprenderlo, senza doparlo; invece fraintenderlo è un privilegio che spetta a chi il libro lo legge.
La poesia è un codice, e come tale deve funzionare; il ricorrere al concetto di bellezza – salvifica o meno – è uno spostare la questione sul piano dei consumi. Responsabilità di chi scrive dovrebbe essere di scrivere quello che va scritto, e responsabilità di chi fa l’editore dovrebbe essere di pubblicare quello che va pubblicato, bellezza o no. Dino Campana ha scritto caro Bino, rileggo cosa che mi fa male, le 100 p. del p. Giovanni e noto queste impressioni. Troppa materia, i rospi, i serponi, il domatore (due colpettini all’affetto francescano, delicatezze di sbirro) – (ascelle di maestrine in sudore, zitelle mature di buona famiglia che lasciano l’ombra distesa al passo domenicale). Manuale del pellirossa. Tecnica cerebrale. Industria del cadavere. Imperialismo borghese frasaiolo, modernità dell’Italia giolittiana (di fronte all’Italia sotto l’arco d’oltre mare in Ostia morta al limo del Tevere in faccia con un fregio dei putti del Sartorio, stanca di essere eternamente giovane come lo è anche di passeggiare tra ortaggi mitologici con passo di belva niciana). La luna non vuol staccarsi leggera dal monte. La abbaglia l’acetilene nell’Arno, secolare rigovernatura della letteratura italiana. Questa borghese Louis XIV. Queste cattiverie fanno male a chi le dice (il gran segreto di Giovanni di avvilire i suoi detrattori). Meglio dimenticare queste offese alla poesia. Meglio Soffici aigre et maigre nella polvere stemperata di tutti i topazi e gli orienti di D’Annunzio e di Rimbaud. Stenterello en poète qui se torde confit dans le bleu du jour. (Bleu Watteau). I commessi, la chérie, il genio solare, la gioventù latina (che pure sono partiti per il fronte). Dunque, Bino, sono triste a morte, e presto muoio, il che non mi impedirà di andare soldato il 19. Ciao, un lungo bacio per tutto il bene che non ci siamo voluti. Tuo Dino.5
Note:
0 Ezra Pound, Cantos, 41; l’episodio è noto: il 30 gennaio 1933 Ezra Pound incontrò Benito Mussolini a Palazzo Chigi, portandogli il libro con i primi 30 Cantos. Mussolini, dopo averlo sfogliato, disse ma questo è divertente
1 Jonathan Swift, I viaggi di Gulliver, 1726
2 Ezra Pound, Make It New, Faber & Faber, 1934
4 Karl Popper, Una patente per fare TV, in Cattiva maestra televisione, Marsilio Editore, 1994
5 Lettera di D. Campana a B. Binazzi, 3 ottobre 1917
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