L'opera attraversa un alone onirico, come effettivamente ricorda la quarta di copertina. Tra l'altro, a proposito di quarte di copertina, va riconosciuto un fatto non scontato: questa collana torna a prendersi la briga di scrivere le quarte di copertina, testi brevi e descrittivi, dalla struttura ricorrente tra i vari titoli, in un panorama dove spesso o si rinuncia a farlo o si pesca una poesia o si riporta uno stralcio di pre/postfazione. Anche attraverso questo espediente passa un tentativo di trovare una collocazione editoriale nuova alla poesia. L'attraversamento perlopiù ferroviario (con l'eccezione della spericolata prosa automobilistica di pagina 38) ha ripercussioni sulla struttura del flusso testuale, che non ricorre a sezioni e procede diritto verso la fine, captando colori e forme in quella fase trasognante eppure di veglia nella quale sembra acutizzarsi una percezione più intensa o meno scontata di ciò che ci accade intorno. A far da sostanza di un testo che scorre sopraelevato, come su rotaie di un ponte, resta in realtà un immaginario geologico e tellurico di faglie e falde, di poltiglia argilla o creta, di sabbia o ghiaia. E se le diverse consistenze di ciò che è a terra hanno importanza, va da sé che anche i piedi abbiano una parte rilevante nell'economia dell'opera, così come scarpe o tacchi, l'indossare e il calzare, la taglia di ciò che aderisce e copre il corpo, finanche il bagaglio qui inteso come "valigia". Il testo iniziale in questo detta il passo quando afferma "Entrare nella taglia esatta della pena [...] Calzando scarpe che non hanno mai premuto la terra, dormiremo nel centro dello sguardo, come neonati". Quanto accadrà e verrà registrato dal Libretto allora risente e si porta dietro questa contraddizione tra una percezione chiara - seppur appunto impastata nel sogno - che si deposita con precisione nelle prose poetiche e il desiderio espresso proprio alla fine del testo d'avvio, nel quale si affaccia un intento di tabula rasa, di cancellazione di tracce mnestiche, quasi una pulsione di retrocessione o strana rinuncia dello sguardo e dell'esperienza. E se il transito raccontato diventa anche una ricognizione dell'inconscio o di terreni assai prossimi a questo, sappiamo che quest'ultimo non è riducibile totalmente al linguaggio e la cura o terapia non è mai solo linguistica.
La palette dei colori di Libretto di transito resta scura. Il "bianco" è hapax che vale solamente per i denti che chiamano le ossa sommerse. "Terra" e "acqua" parlano in nero, così come il fiume "così nero che avremmo potuto calpestarlo". La percezione è da ubriachi, quando ad esempio si legge "L'intera città fluttuava". Le similitudini si rincorrono, come nel caso della medusa e delle reti, quando a distanza di poche righe leggiamo "Se ci avesse sfiorato porteremmo segni sul corpo, sottili e rossi lineamenti come dopo il passaggio di una medusa" e poi "Un colore prima di un altro, e poi diversi, insieme, come in una rete che si muove luminosa". In un altro brano ci troviamo forse a concordare con l'attacco che afferma "Le frasi non compiute restano ruderi". La luce qui è tautologicamente "chiara", per ben due volte nello stesso testo, il solo che desideriamo riportare per intero in questa nota di lettura, anche per evidenziare la riuscita espressione di un sentimento di impossibilità (molto bello il "contenerti mentre nasci"):
Mi porti in salvo come sollevando la parte più fragile di te. Resisti nel tumulto. Ed eccoti al varco, attraversato da scariche di luce chiara. Non hai più viso, sei fuori da ogni contorno. Soltanto luce chiara. Vorrei raccoglierti con le mani, contenerti mentre nasci, ma ti sprigioni: sei la corrente prima che non si può toccare.Il palleggiarsi di concavità/convessità, da sempre ricorrente nella scrittura dell'autrice marchigiana, rimane centrale, ma se un tempo il cucchiaio era immagine ricorrente e lampante nella sua concavità/convessità, ora siamo all'"incavo degli occhi" e dello sguardo. La densità della parola "occhi" e di quanto a questi rimanda è da segnalare: "gli occhi chiusi", "i suoi occhi in un punto lontano", "Per questo con gli occhi fissiamo l'orizzonte", il caso fonicamente ricco di "un occhio socchiuso", la deviazione animale de "i piccoli occhi rotondi dei cocoriti in gabbia", "trovano la via degli occhi", "In questo paesaggio posso chiudere gli occhi e dormire", "I tuoi occhi potrebbero essere azzurri o neri", "Resta l’incavo degli occhi" e "Con gli occhi chiusi continui a lottare". Gli occhi e anche il corpo non sono una novità nella lirica, di qualsiasi epoca o latitudine. Il corpo qui continua a essere tutto nominato, come in un appello mattiniero di tutte le sue parti: caviglie, capelli, dita, polsi, tempie, pupilla, petto, collo, fronte, bocca, zigomi, spalle si pongono come un interrogativo frammentato alla presunta (e presuntuosa) pienezza della coscienza. Il libro nuovo però, come alcuni testi della silloge Tasche finte apparsa lo scorso anno in "Poesia contemporanea. Tredicesimo quaderno italiano" di Marcos y Marcos, che non aggiungeva molto a un percorso già noto, abbandona completamente la versificazione, almeno quella grafica, per lasciare la pagina a 33 prose poetiche suddivise solamente da pagine bianche. La rinuncia alla versificazione, oggi come oggi, può indirizzare verso molteplici direzioni. Nel caso di Mancinelli, più che a una rinuncia alla versificazione viene da pensare a una strategia testuale che pone (impone) un passo di lettura dimidiato di un appoggio, come quello di chi salta con una gamba sola nel gioco della campana, attraverso stanze di scrittura conchiuse, che si compenetrano una nell'altra come gli angoli concavi e convessi di un angolo giro.
Anche in questo libro di Mancinelli, come in altre opere di poesia apparse di recente e appartenenti a nomi tutto sommato ben circolati editorialmente, sembra che si stia naturalmente per esaurire un ciclo di scrittura che inizia a invocare silenziosamente un rinnovamento. Nel caso di Mancinelli, la prosecuzione del ciclo, che ormai dura da anni (sicuramente da Pasta madre del 2013), negli ultimi tempi è sfalsata e quasi rallentata dall'introduzione dell'elemento strutturale della prosa, ma l'immaginario e la sostanza che alimenta la pagina hanno una composizione chimica simile e ripetuta. Un testo come quello che ritrae il padre che annaffia qui rivede e accorcia quanto già uscito nel citato "Quaderno" di Marcos y Marcos solamente un anno fa. Questo sta bene, fa parte del bagaglio di un'autrice che come ogni scrittore vive di ossessioni, di riscritture, di revisioni, ma allo stesso tempo ci dice di una sosta prolungata sopra lo stesso nucleo. In questa scrittura resta interessante seguire un dialogare di fantasmi che emerge a ogni giro di frase e si coagula in pagina. Nell'inseguimento di questo dialogare di fantasmi, per stare su persone anagraficamente vicine, i risultati più alti e belli restano però a mio avviso le opere di due autrici poco citate e tornate silenziose, che tuttavia ci auguriamo di tornare a leggere presto. Mi riferisco a Erika Crosara (1977) di Ius e Alessandra Conte (1978) di Breviario di Novembre, alle quali aggiungerei il caso più recente di Carmen Gallo (1983) di Appartamenti o stanze (anche per nominare un'autrice nata negli anni Ottanta, visto che queste suddivisioni a decadi calcistiche piacciono molto ai compilatori di antologie, quaderni, recensioni). Ma il dialogo dei fantasmi è essenziale anche nelle prose poetiche di Mancinelli e non a caso Emily Dickinson, regina dei fantasmi, appare in epigrafe con Simone Weil. La differenza si ravvisa sempre nel come si fa risuonare un fantasma. L'impressione è che un angolo giro sia compiuto e che uno spostamento sia necessario, magari è già in orizzonte. Il transito rappresentato da questo nuovo libro ci dice insomma di una padronanza di stile e scrittura che convoglia le forze verso una robusta costruzione di autorialità. Da lettore posso registrare la riuscita complessiva dell'operazione, augurandomi però anche di poter riscontrare un'oscillazione del senso e delle immagini su superfici meno sicure, meno "date", ma più utili al mio transito di lettore. In altre parole, ci auguriamo che resti sì salda l'asticella della scrittura, dello stile - con tutti i suoi portati biologici - e della qualità editoriale che accoglie l'opera (qui fuori discussione), ma che resti alta anche l'asticella del rischio, con tutto ciò che questa parola implica nelle discussioni che ricadono nell'alveo della poesia. Anche a costo di sbagliare un colpo, anche a costo di sporcare la propria ricerca e portarla più in là, nel tentativo di dire quello che si può ma anche, soprattutto, quello che non si può dire. Il bagaglio, incluso quello teorico-tecnico, da un pezzo è pronto per affrontare questo nuovo transito e l'importante adesso, per fare il verso al bel finale di una di queste prose, è non scordarsi di partire.
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