domenica 14 luglio 2013

"Pasta madre" di Franca Mancinelli: lo spazio di nessuno dove avviene l'incontro

Non sembri un facile gioco provare a dire qualcosa di efficace, utile e sensato sul nuovo libro di Franca Mancinelli, uscito da poco per Nino Aragno Editore all'interno della collana "Licenze poetiche". Il volume titola, quasi con un'ironia inconsapevole e diretta al mondo oggi tanto chiassoso e tronfio dell'editoria culinaria, con il nome di un ingrediente semplice e basilare, irriducibile, né liquido né solido, ma malleabile, nel quale agiscono primariamente lieviti e batteri: un ingrediente che tra le altre cose necessita di essere tenuto in vita. Pasta madre (pp. 84, euro 10, con una nota di Milo De Angelis) segue quel libro altrettanto bello che fu Mala Kruna (Manni, 2007), ne ripercorre lo spazio, s'insinua nei vuoti, anzi, nelle convessità e concavità aperte da quel felice esordio, come gli specchi concavi e convessi restituisce distanze, producendo anche sottili distorsioni. In realtà, se vogliamo rimanere ancorati alla sola titolazione (che poi è uno dei pochi paratesti offerti dall'autrice), è evidente lo strappo che il linguaggio poetico compie, qualcosa di simile a quanto accade in un altro dei grandi libri/titoli di questa ultima stagione di poesia (in fondo non così disastrosa come ho sentito dire da più di qualcuno, o perlomeno non più disastrosa della prosa), il Salva con nome di Antonella Anedda. Le poesie di Franca Mancinelli accolgono tanto quanto sono accolte, appaiono rastremate come colonne di tempio e talvolta, nella loro brevità, lievitano di volume indurendosi, come dopo cottura, similmente a quanto avviene nell'architettura di origine greca, quando scorgiamo l'èntasi delle colonne, reale o illusoria, prodotto precipuo dalla rastremazione o dell'occhio umano illuso. Qui talvolta si produce una sorta di rigonfiamento (ottico e sonoro) ad una certa altezza del fusto di questi testi minuti e vibranti, un'illusione dovuta in realtà alla tornitura del verso, ad un senso di circolarità che ha trovato un corrispondente in una gozzaniana (ma anche deangelisiana) posata. Mi riferisco al "cucchiaio", che è parola focale del suo percorso di scrittura, anche quando è soltanto evocata, e in questa parola-immagine il senso di concavità/convessità è primario, tanto quanto il senso dell'impugnatura che avviene con le "mani" (altra parola ricorrente); davvero quel senso di concavità/convessità diventa primario, sia in rapporto a ciò di cui ci nutriamo, il contenuto, sia rispetto alla lingua e alla rima di labbra che il cucchiaio trapassa:

cucchiaio nel sonno, il corpo
raccoglie la notte. Si alzano sciami
sepolti nel petto, stendono
ali. Quanti animali migrano in noi
passandoci il cuore, sostando
nella piega dell’anca, tra i rami
delle costole, quanti
vorrebbero non essere noi,
non restare impigliati tra i nostri
contorni di umani.

La bocca, si sa, è importante. Vi passa la voce (nel testo finale la bocca "passa calore", calore importante per la lievitazione). Il cucchiaio, il cui etimo rimanda - con un sorriso da scoperta felice e casuale - a chiocciola/conchiglia è parimenti importante nel quadro di una poesia ossea e minerale come questa. C'è poi molta saliva in questi testi, così come denti e altre ossa nominate; i riferimenti ai territori del sacro non mancano nemmeno nelle grondaie "colme acquasantiere" o quando si legge "Ma in questo chiaro di saliva / cloro e seme, abbandona ognuno / la sua scorza, gesto dopo gesto entriamo / bambini con un segno d'acqua in chiesa" o ancora "Dammi i tuoi occhi e sarò salvata". Dal balcone del corpo di Franca Mancinelli (anche se, più precisamente, lei scrive: "quel che sono è una finestra") ho intravisto alcuni abbracci di arti superiori e inferiori, certe inclinazioni del collo, nudità parziali che restituivano qualcosa di simile, anche nei colori, ad alcune pose dipinte da Egon Schiele:

qui non c'è pronuncia
si serrano i denti
il collo avvolto
nel caldo delle mani, obbedienti
al dovere che disegna
nel muro una porta 

oppure, nel già citato testo conclusivo:

dormivo su una pagina ogni notte
bianca. Il mattino
un'ombra del mio peso, alcune pieghe
e subito voltava: proseguire
è questo a capo del principio,
bocca che passa calore
all'aria come potesse svegliarsi
essere ancora salvata.

Della nota di Milo De Angelis vorrei estrapolare soltanto una manciata di parole, laddove puntualizza che "La similitudine è protagonista". Questo è vero ed è importante ribadirlo. E mi sono spesso chiesto se in questa nostra epoca, tra similitudine e metafora, non la spunti forse la prima, così come è già accaduto in altre epoche probabilmente, e alla seconda non spetti altro che tornare ad essere un caso particolare (e minore) della prima, un suo corollario, svuotata così di tutto il portato poetico, retorico, linguistico e persino cognitivo di cui è stata investita, insomma una metafora prossima a diventare catacresi (e leggo il "cucchiaio" più come una già formata catacresi del suo idioletto). Parafrasando il titolo di un celebre libro di George Lakoff, il quale eleva invece la metafora a costrutto chiave per la spiegazione di tanti processi cognitivi, potremmo scrivere "similes we live by" e non Metaphors We Live by. Tuttavia, è proprio questo "live by" del titolo originale dell'opera più nota di Lakoff che qui vorrei recuperare e isolare per un istante, per il senso di vivere "attraverso" ma anche vivere "accanto". Come si sta accanto a una finestra, standing by the window. Nel migrare dell'io al noi (incluso quello degli uccelli e di altri animali: montaliane formiche rosse, cani a pancia all'aria che attendono carezze, lucertole, insetti, bestie, poi cimici o selvaggina) e viceversa esiste questo senso profondo del vivere accanto e l'essere attraversati dalla vita, in un'accezione costiera, di confine, di questa parola, che non si riduce a solo corpo (altro termine che sembra schiudere molte porte nella critica d'oggi, ma che in realtà spesso cerca solo di scimmiottare - male - le convergenze che questa parola ha attirato in tanta critica d'arte nella seconda metà del Novecento).


Il libro colpisce anche per una totale assenza di paratesti. Non troverete titoli in questi brevi componimenti, né titoli di sezioni. A separare le sezioni giunge un accorgimento raramente usato, due pagine bianche affiancate, quasi a mettere davanti al lettore, con più forza, il continuo confronto e lotta che è proprio della poesia (così come della musica) con il silenzio. Non ci sono epigrafi. La variazione può riguardare solo il corpo tipografico dei testi: prevalentemente normale, in alcuni casi corsivo. Mancinelli non fornisce rimandi specifici, coordinate. Se li vogliamo, li cercheremo da lettori, in quell'esperienza solitaria e vera della lettura. E allora credo che in questi testi dove avviene una sorta di inedita intersezione tra il meridiano di Celan (di un certo Celan, forse sarebbe più corretto scrivere "semimeridiano") e il parallelo di Jaccottet, forse registrabile all'altezza geopoetica nel paesaggio friabile e franoso delle Marche tra Adriatico e Appennini (Franca Mancinelli vive a Fano e il suo paesaggio, anche se non nominato apertamente, è presente quasi come un calco), i momenti della giornata si ritrovano a possedere lo stesso peso specifico, la stessa luce e la stessa lentezza di certe ore mattiniere e certe albe di Pavese in Lavorare stanca. (Qualcuno scriverà prima o poi dell'influsso della poesia pavesiana su tanta poesia tardonoventesca e seguente, non si è ancora capito perché il suo nome si faccia sempre con qualche imbarazzo.) A tratti, pare riscoperto persino il piede metrico dimenticato della lassa. Sicuramente la nostra autrice non è passata indenne nemmeno alla lettura di quel Milo De Angelis che ora ne accompagna il passo, riconoscendone la sicurezza e la postura nuova. C'è un verso, in Quell'andarsene nel buio dei cortili, che sopra ogni altro è rimasto, come in una eco di specchi, e che qui faccio rimbalzare per provare a chiudere un cerchio e suggerirvi la lettura di questo breve libro ed è lo spazio / di nessuno dove avviene l'incontro. Pasta madre dà spesso la sensazione di uno spazio dolorosamente creato che nella realtà non appartiene più (non è mai appartenuto) a nessuno, circa come avviene in Punteggio di De Angelis: "Fu una rara edizione del nulla, / un nulla fiorito d’estate, brusio / di terra rossa e presagi, un nulla / vicino al suo rovescio di fanciulla / tra erba e colletto, tra ventaglio / e firmamento, / gioia e fine avvinghiate / in una sola melodia, lo spazio / di nessuno dove avviene l’incontro." In fondo, se non mi inganno proprio in queste battute finali, credo che ciò che con molta disinvoltura chiamiamo vita abbia molti punti in comune con questo spazio senza padroni; per ritornare alla poesia di Franca Mancinelli, già in Mala Kruna potevamo leggere "intreccio le mani sul ventre e sono / creta sul letto di un fiume di passi":  la creta e la pasta, dai piedi alle mani. Attraverso e accanto questa poesia catacretica che per dire davvero adopera la lingua sulla soglia dell'indicibile.

anche queste mani che apro
colmandole d'ombra a lavarmi
gli occhi nel mattino
sanno dove sorgeva
un viso, una profonda
e chiara insenatura.


3 commenti:

  1. Che bei testi. Complimenti.

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  2. Concordo con chi mi ha preceduto nei commenti...

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  3. Io non le trovo molto interessanti queste poesie ma sono poche per potere dire..... ciao paolo

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