«Non crescere, è una
trappola», così Peter
Pan ammoniva Wendy; questo sembra essere il mantra di Erica e Vanessa, le due
adolescenti protagoniste di Ellissi (Bompiani, 2017), ultima prova
narrativa della scrittrice milanese Francesca Scotti. Amiche per la pelle,
queste ragazze fisicamente diversissime — un
giunco dai capelli rossicci e lentiggini Erica, più piccola
e bruna Vanessa — sono unite dalla
paura di crescere che le porta a stringere un patto: diventare libellule,
rendere i loro corpi esili e flessuosi come quell’animale che «impiega
quindici trasformazioni a diventare quel che è».
La loro alleanza contro la crescita sembra inossidabile, almeno all’inizio
del romanzo: quando le vediamo fare i bagagli per Villa Flora, una clinica per
disturbi alimentari, determinate a resistere alle cure e ad esercitare il
controllo assoluto sui loro esili corpi dal cuore a goccia.
Già accennato
in alcuni racconti della raccolta d’esordio Qualcosa
di simile (Pequod 2011) e nel bel romanzo Il cuore inesperto (Elliott
2015), in Ellissi il tema del rapporto col cibo si fa in primo piano,
oggettivando efficacemente l’evolversi dell’amicizia tra le protagoniste (il magnum sciolto
nell’acqua
calda, un dado di pan di Spagna apparso in sogno a Vanessa: Scotti è naturalmente
portata a creare immagini che non si lasciano dimenticare per come sa dar loro
corpo e concretezza). Amicizia che, come spesso capita nell’adolescenza,
non è immune
da una certa dose di velenosità: Vanessa ed Erica si stringono in una
simbiosi che anziché donar loro spazio
vitale le porta a consumarsi e distruggersi, fisicamente e psichicamente, in una chiusura al mondo esterno che è
anche un ostacolo al formarsi delle loro individualità. Come due fuochi
di una ellisse, avranno bisogno di sovrapporsi per poi separarsi di nuovo,
tornando ad essere ciascuna «uno».
L’incontro con il
dottor Talevi e gli altri degenti della clinica — in
particolare Diego, il ragazzo dalle gambe a fenicottero che in modo diverso
affascinerà entrambe,
e si innamorerà di
Erica — muterà per
sempre il loro rapporto, portandole finalmente a misurarsi con l’esterno,
con il peso della realtà: perché «tra
due ali c’è un
corpo», e non esiste leggerezza senza peso.
Dall’atmosfera
equorea e cupa di Villa Flora, tratteggiata da Scotti con notevole sapienza
narrativa, si passa ad un finale aperto ad altre consistenze e colori: la polpa
della mela assaporata da Erica, tornata a casa dopo la guarigione, il rosso del
ciclo che torna ad abitare un corpo sano. Colpisce come nonostante si trovi
sovente a descrivere rapporti delicati — la
relazione morbosa tra Vanessa ed Erica rispecchia per certi aspetti quella che
in Il cuore inesperto legava la diciottenne Anita al suo maestro di
musica —,
e proprio per questo potenzialmente disturbanti, la scrittura di Scotti non
perda mai delicatezza ed equilibrio né indugi
in sentimentalismi (così in un altro bel
libro il cui centro è il corpo, La
notte ha la mia voce di Alessandra Sarchi). Scrittrice percettiva, Scotti
lascia che a parlare sia l’esattezza dei confini della sua realtà:
più dei
dialoghi contano i gesti, la musica (altro suo grande tema, torna in alcuni
snodi centrali del romanzo), i dettagli che emergono con nitidezza dall’acquario
ovattato in cui vagano i degenti. Ed è nello
stile teso e musicale, in grado di aprirsi con disinvoltura alla levità come
a squarci perturbanti, che risiede forse la maggior riuscita d’un
romanzo sospeso tra Ogawa Yoko e il primo Parise.
Eloisa Morra
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