Il libro è ricco per quello che dice circa il surf e la sua tecnica, le parole per dirla, la storia della disciplina, gli incroci con la filosofia e l'estetica in particolar modo, le considerazioni sul rapporto tra onde dell'oceano e diverse popolazioni del globo terracqueo. Non assomiglia a quei libri in cui si tenta di nobilitare uno sport con un susseguirsi di citazioni colte, anche se le citazioni e i rimandi non mancano. Lo sanno tutti - e stavo a Ericeira per questo, alla fine - che attorno al surf gira un'industria abbastanza grossa con tutto il suo indotto, persino quello modaiolo che non ha niente a che fare con tavole e onde ma solo con le t-shirt e le infradito. Però, come per lo sci e altri sport, non v'è bisogno di nobilitare con un libro proprio alcunché, semmai c'è bisogno di capire cosa evocano o attivano delle suggestioni mentali quando si scorre con una tavola attaccata ai piedi sull'acqua. Questo è un pensiero che Schiffter ha fatto e proprio grazie a questa consapevolezza il suo libro non ha tracce di ingenuità o, peggio ancora, di autoconvincimento e autocompiacimento. Che poi il suo trasporto per il surf nasca da una donna e da un innamoramento lo mette in chiaro sin da subito, precisando anche che "l'amore è una cosa, i progressi nel surf un'altra". Ma si sa come vanno anche queste cose, nessuna sorpresa. Comunque, se lo spazio è davvero la chiave per qualsiasi emozione, lo sport triangola continuamente con spazio e emozioni, a prescindere da tutti i discorsi che si possono fare sull'industria che gira attorno a ogni sport. Insomma, avete presente Goffredo Parise quando descrive le sciate sulle Dolomiti? O anche, per stare a autori vicini a noi, come Simone Marcuzzi descrive il formidabile esercizio agli anelli di Jury Chechi alle Olimpiadi di Atlanta? Lì si parla di sport, non di affari milionari (tra l'altro lo sport, questo grande contenitore sovranazionale, è curiosamente trascurato dall'industria del romanzo, almeno mi pare, e se è vero questo fatto la situazione è quantomeno strana). Cerca di parlarci dello sport anche Schiffter, che non è certo ingenuo, nemmeno quando centra subito la questione del paesaggio marino e della natura come finzione poetica. Ad un certo punto lo scrive: l'esercito di fotografi di paesaggi che siamo diventati, specialmente in estate, è solo un (indegno) erede di chi ha isolato questa finzione poetica per primo (i grandi pittori, fondamentalmente). Per di qui arriva una considerazione attorno al sublime dell'onda, e da qui vengono i paragrafi come quello su Defoe: l'odissea interiore del Robinson Crusoe nell'isola fissa per sempre il nuovo miraggio dell'esotismo della solitudine. Il libro è strutturato in brevi paragrafi che vanno a schiantarsi sull'entusiasmo (in senso etimologico) del surfista e perfino sulla sua hybris. La sua onda e il tunnel non sono però metafore di nulla. Il surf è puro dramma, ogni onda che si avvicina è agli occhi e ai piedi di chi l'attende solo un avvenimento gravido di incertezze. Filosofia del surf è un libro breve con poca filosofia e grande temperamento. Mi è parso, tra le altre cose, un bel contraltare a tutta l'accozzaglia di titoli sulla montagna e la "viandanza" che esce in libreria da un po' di anni a questa parte. Chissà che dia una bella equorea spazzata a quell'accozzaglia, che mostri come si può parlare di paesaggi, natura e movimento con intelligenza, senza formare nuove scuole, tendenze o correnti di pensiero. Del marketing che si eleva a filosofia totalizzante o, peggio ancora, che cavalca uno spettro di spiritualità proprio si deve iniziare a fare a meno.
domenica 17 settembre 2017
Filosofia del surf secondo Frédéric Schiffter: l'amore è una cosa, i progressi nel surf un'altra
Il libro è ricco per quello che dice circa il surf e la sua tecnica, le parole per dirla, la storia della disciplina, gli incroci con la filosofia e l'estetica in particolar modo, le considerazioni sul rapporto tra onde dell'oceano e diverse popolazioni del globo terracqueo. Non assomiglia a quei libri in cui si tenta di nobilitare uno sport con un susseguirsi di citazioni colte, anche se le citazioni e i rimandi non mancano. Lo sanno tutti - e stavo a Ericeira per questo, alla fine - che attorno al surf gira un'industria abbastanza grossa con tutto il suo indotto, persino quello modaiolo che non ha niente a che fare con tavole e onde ma solo con le t-shirt e le infradito. Però, come per lo sci e altri sport, non v'è bisogno di nobilitare con un libro proprio alcunché, semmai c'è bisogno di capire cosa evocano o attivano delle suggestioni mentali quando si scorre con una tavola attaccata ai piedi sull'acqua. Questo è un pensiero che Schiffter ha fatto e proprio grazie a questa consapevolezza il suo libro non ha tracce di ingenuità o, peggio ancora, di autoconvincimento e autocompiacimento. Che poi il suo trasporto per il surf nasca da una donna e da un innamoramento lo mette in chiaro sin da subito, precisando anche che "l'amore è una cosa, i progressi nel surf un'altra". Ma si sa come vanno anche queste cose, nessuna sorpresa. Comunque, se lo spazio è davvero la chiave per qualsiasi emozione, lo sport triangola continuamente con spazio e emozioni, a prescindere da tutti i discorsi che si possono fare sull'industria che gira attorno a ogni sport. Insomma, avete presente Goffredo Parise quando descrive le sciate sulle Dolomiti? O anche, per stare a autori vicini a noi, come Simone Marcuzzi descrive il formidabile esercizio agli anelli di Jury Chechi alle Olimpiadi di Atlanta? Lì si parla di sport, non di affari milionari (tra l'altro lo sport, questo grande contenitore sovranazionale, è curiosamente trascurato dall'industria del romanzo, almeno mi pare, e se è vero questo fatto la situazione è quantomeno strana). Cerca di parlarci dello sport anche Schiffter, che non è certo ingenuo, nemmeno quando centra subito la questione del paesaggio marino e della natura come finzione poetica. Ad un certo punto lo scrive: l'esercito di fotografi di paesaggi che siamo diventati, specialmente in estate, è solo un (indegno) erede di chi ha isolato questa finzione poetica per primo (i grandi pittori, fondamentalmente). Per di qui arriva una considerazione attorno al sublime dell'onda, e da qui vengono i paragrafi come quello su Defoe: l'odissea interiore del Robinson Crusoe nell'isola fissa per sempre il nuovo miraggio dell'esotismo della solitudine. Il libro è strutturato in brevi paragrafi che vanno a schiantarsi sull'entusiasmo (in senso etimologico) del surfista e perfino sulla sua hybris. La sua onda e il tunnel non sono però metafore di nulla. Il surf è puro dramma, ogni onda che si avvicina è agli occhi e ai piedi di chi l'attende solo un avvenimento gravido di incertezze. Filosofia del surf è un libro breve con poca filosofia e grande temperamento. Mi è parso, tra le altre cose, un bel contraltare a tutta l'accozzaglia di titoli sulla montagna e la "viandanza" che esce in libreria da un po' di anni a questa parte. Chissà che dia una bella equorea spazzata a quell'accozzaglia, che mostri come si può parlare di paesaggi, natura e movimento con intelligenza, senza formare nuove scuole, tendenze o correnti di pensiero. Del marketing che si eleva a filosofia totalizzante o, peggio ancora, che cavalca uno spettro di spiritualità proprio si deve iniziare a fare a meno.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento