Librobreve intervista #11
Irene Fantappiè |
Sono contento di accendere per la prima volta la fiaccola della forma breve in questo blog che dalla brevità attinge e che alla brevità ritorna. Ma sono anche altri i motivi per cui trovo interessante avvicinare finalmente il nome di Karl Kraus, figura centrale per chiunque si interessi all'irrinunciabilità del linguaggio (dei linguaggi) e della traduzione per provare a "capire tutto". Non parleremo del celeberrimo libro di aforismi Detti e contraddetti e non ci focalizzeremo nemmeno in quell'antitesi di "libro breve" costituita da Gli ultimi giorni dell'umanità, opera infinita quasi per antonomasia. Cercheremo invece di illuminare un aspetto meno noto della produzione krausiana, il cosiddetto Theater der Dichtung, concentrato nella stagione della rivista "Die Fackel" e analizzato da Irene Fantappiè con grande competenza nel suo recente libro uscito da Quodlibet e intitolato Karl Kraus e Shakespeare. Recitare, citare, tradurre. Colloquiare con l'autrice, ora alla Humboldt-Universität di Berlino, rappresenta inoltre l'occasione per riprendere contatto con gli amici con cui, anni fa, feci l'esperimento della rivista daemon. Dopo Azzurra D'Agostino e la sua convincente ricerca poetica, dopo Franco Baldasso, intervistato poco tempo fa su Curzio Malaparte, ecco un'altra ospite la cui presenza qui si sostanzia anche in quel vivace periodo il cui fulcro insisteva in quella città bellissima che è Bologna. Per Librobreve, infine, un ulteriore capitolo di questa piccola antologia che tiene traccia dei bei percorsi di chi per qualche tempo è stato anche un compagno di viaggio.
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LB: Il tuo libro porta alla luce un territorio
precedentemente poco noto dell'opera di Karl Kraus. Dov'è partito il progetto
di questo studio? Quali le principali difficoltà?
LB: Tutto parte e tutto ritorna continuamente, nel tuo
studio, al binomio citazione-traduzione all'interno del lavoro di montaggio e
smontaggio compiuto da Kraus sulle traduzioni da Shakespeare. Potresti spiegare
quali sono i momenti chiave di questi "movimenti" che danno vita al
lungo progetto del Theater der
Dichtung ?
LB: Shakespeare. Un classico. Eppure sembra che talvolta
passi in secondo piano, che "incida" meno di altri classici. Forse è
solo una mia impressione. Credi che l'operazione di Kraus sia anche essenziale
al recupero di questo gigante?
RISPOSTA: Certamente sì. In realtà nella Vienna d’inizio Novecento Shakespeare non ha alcun bisogno di essere recuperato: è un autore assolutamente centrale, sicuramente più di quanto non lo sia oggi in Italia (concordo). L’operazione di Kraus è finalizzata al recupero di uno Shakespeare, appunto quello delle traduzioni tedesche fatte da Schlegel un secolo prima, in opposizione al nuovo Shakespeare delle raffinate messe in scena dei suoi tempi. Kraus lascia il testo originale inglese quasi completamente in disparte: Shakespeare gli interessa come “autore tedesco”, ed è per questo che non si cura – e anzi paradossalmente si vanta – di non sapere l’inglese. Quel che gli sta a cuore è, come ha scritto Benjamin,“riportare la situazione borghese-capitalistica ad una forma passata che non ha mai avuto”, per mezzo del recupero della lingua dei romantici e della valenza universale del gesto scenico shakespeariano.
LB: Ogni autore sceglie i propri precursori. In che modo
Kraus sceglie il suo Shakespeare per trasformarlo quasi in una sinfonia
d'aforismi, di "forme brevi", tra l'altro proprio nel momento in cui,
nel pieno della Grande guerra, è alle prese con quell'opera sterminata che
è Die
letzten Tage der Menschheit?
LB: Il suddetto portante binomio di citazione e traduzione
s'allarga a macchia d'olio a innumerevoli altri casi della letteratura del Novecento.
Vorresti ricordarne alcuni?
LB: A lungo ti sei occupata di Paul Celan e la sua figura
ritorna anche in questo tuo ultimo studio. Come?
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Il libro di cui si parla |
RISPOSTA: Il libro è frutto delle mie
ricerche portate avanti tra Bologna, Vienna e Londra, ma in realtà
il progetto è nato nel 2006 da un lavoro di traduzione. Ho iniziato a studiare
seriamente quest’autore per tradurlo
ed stata un’esperienza istruttiva quanto frustrante: ha significato
confrontarsi a ogni frase col fatto che questo autore tende (o addirittura si
diverte) a falsificare le definizioni che potrebbero inquadrarlo. Il carattere
asistematico e volutamente contraddittorio di questa scrittura è funzionale
alla sua potenza distruttiva: Kraus, “genio mimico” come lo definì Benjamin, si
trasforma imitando un altro autore al solo scopo di condannarlo in modo ancor
più definitivo. A traduzione ultimata mi sono ritrovata d’accordo con Canetti: le
ventimila pagine della rivista Die Fackel
(La Fiaccola) sono una distesa di
“macerie su macerie, sempre più strane, sempre più fantastiche”, che hanno in
comune solo il fatto di essere prodotte dalla “furia” del “medesimo barbaro”.
Eppure, a un certo punto, in questo paesaggio di rovine viene fuori un nome ‘salvato’:
quello di Shakespeare. Questo mi affascinava. Mi incuriosiva un autore che, dopo
aver fatto per decenni ferocemente a pezzi la sua epoca e preannunciato
l’apocalisse gridando “La mia satira avrà ragione!”, poi, nel bel mezzo della
guerra mondiale, ovvero proprio quando l’apocalisse arriva davvero, non grida: “La
mia satira aveva ragione!”, ma:“Shakespeare sapeva già tutto!”. Per di più,
Kraus era cosciente che molti avrebbero considerato il suo lavoro su
Shakespeare un atto di codardia intellettuale. Aveva ragione anche su questo,
tant’è che finora questo testo è rimasto sostanzialmente ignoto. In Italia come
nei paesi di lingua tedesca l’opera di Kraus è stata spesso recepita come una piccola
Bibbia del cinismo da cui trarre versetti, eppure questo scrittore ha trascorso
i suoi ultimi vent’anni a lavorare su Shakespeare e sulla grammatica.
Una copertina di "Die Fackel" |
RISPOSTA: Un momento chiave è il maggio del 1916. Siamo nel pieno del
primo conflitto mondiale, proprio durante l’“inferno di Verdun”. A Vienna,
nelle redazioni dei giornali e intorno ai tavolini dei caffè, si inizia a
comprendere che il crollo dell’Impero Austroungarico è una possibilità
tutt’altro che remota. Kraus, che negli anni precedenti aveva condotto una
campagna feroce contro l’entrata in guerra, sorprende il suo pubblico leggendo
a teatro i buffi malintesi della commedia shakespeariana Love’s Labour’s
Lost. È il primo atto di un progetto ventennale di letture teatrali e
riscritture di Shakespeare, appunto il Theater der Dichtung (Teatro della poesia). In una lettera
all’amata Sidonie Nádherny scrive: “La stupidità del mondo rende ogni lavoro –
escluso quello su Shakespeare – impossibile”. L’altro momento chiave è il 1934, anno dell’uscita in volume delle
riscritture krausiane dei drammi di Shakespeare. Queste “rielaborazioni” hanno
una particolarità: sono in realtà montaggi di citazioni. Kraus crea il suo Shakespeare
prendendo le più celebri traduzioni tedesche d’epoca romantica (soprattutto la versione
di Schlegel) e smontandole in frammenti, che poi raffronta tra loro e
riassembla in un mosaico originale composto da materiali di seconda mano. In
questo senso citare e tradurre si dimostrano due operazioni possibilmente
affini. Inoltre, se nel primo Kraus la citazione era quasi esclusivamente
strumento di satira, con il lavoro su Shakespeare diventa un gesto per
preservare il proprio patrimonio culturale dalle offese della Storia.
The bard |
RISPOSTA: Certamente sì. In realtà nella Vienna d’inizio Novecento Shakespeare non ha alcun bisogno di essere recuperato: è un autore assolutamente centrale, sicuramente più di quanto non lo sia oggi in Italia (concordo). L’operazione di Kraus è finalizzata al recupero di uno Shakespeare, appunto quello delle traduzioni tedesche fatte da Schlegel un secolo prima, in opposizione al nuovo Shakespeare delle raffinate messe in scena dei suoi tempi. Kraus lascia il testo originale inglese quasi completamente in disparte: Shakespeare gli interessa come “autore tedesco”, ed è per questo che non si cura – e anzi paradossalmente si vanta – di non sapere l’inglese. Quel che gli sta a cuore è, come ha scritto Benjamin,“riportare la situazione borghese-capitalistica ad una forma passata che non ha mai avuto”, per mezzo del recupero della lingua dei romantici e della valenza universale del gesto scenico shakespeariano.
Karl Kraus |
RISPOSTA: L’ammirazione di Kraus per Shakespeare deriva in parte dal ruolo svolto
da quest’autore tra Settecento e Ottocento nel processo di costituzione dell’identità culturale tedesca. Shakespeare assume per Kraus una ulteriore doppia funzione: da una parte è una sorta di enciclopedia del reale, il
“carnevale di tutte le azioni”, dall’altra è il minimo denominatore del mondo
poiché esprime ciò che del mondo non muta. In questo senso Kraus afferma che “Shakespeare
sapeva già tutto”. A fronte di questa sconfinata ammirazione, è interessante la
completa assenza di rispetto filologico per il testo del maestro. “A Shakespeare bisogna sottrarre Shakespeare”, scrive Kraus, che sottopone
i drammi del Bardo a un editing
spregiudicato, eliminando tutte le parti da cui si evince lo sviluppo della
trama; rimangono solo i brani – ad insindacabile parere di Kraus – più riusciti.
Così Kraus trasforma Shakespeare in una collezione di “perle”, di cammei senza
tempo, di frammenti che spesso diventano aforismi; e sostanzialmente lo rende simile
alla sua stessa opera, che è come una “muraglia cinese”di frammenti
giustapposti. Negli stessi anni, non a caso, Kraus lavora ai ben più celebri Ultimi giorni dell’umanità, opera che
consiste anch’essa in buona parte di materiali preesistenti; sia questa pièce teatrale che il Teatro della poesia rielaborano il
passato decostruendolo in frammenti e ricostruendolo secondo una diversa
struttura.
LB: In quale accezione Kraus pensa al tedesco, la lingua
da cui riparte per avvicinarsi a Shakespeare, come lingua straniera?
RISPOSTA: I criteri con cui Kraus giudica la
letteratura e il teatro del suo tempo si rifanno ad un preciso momento storico della cultura tedesca: il romanticismo, che è il punto di
fuga utopico del suo canone letterario e culturale. Di conseguenza la lingua
tedesca contemporanea può risultargli una lingua straniera, più straniera di
quella di Shakespeare che pure non conosceva. Kraus ha addirittura tradotto dal
tedesco al tedesco, volgendo ad esempio le ampollose espressioni del
giornalista berlinese Maximillian Harden in un tedesco sobrio. Queste satire
fatte per via di citazione vengono denominate proprio Traduzioni. Inoltre, Kraus traduce le traduzioni, ad esempio le
versioni rilkiane dei sonetti francesi di Louise Labé che vengono rovesciate
così da sferrare un attacco alla lingua del traduttore e poeta.
Walter Benjamin |
RISPOSTA: Un caso significativo è Uomini tedeschi di Walter Benjamin, quasi
contemporaneo al Teatro della poesia.
La raccolta di lettere di grandi uomini tedeschi data alle stampe nel 1936 non
contiene scritti di Benjamin eppure è una delle sue opere
più personali e più audaci. Adorno sostiene che sia una delle più compiute manifestazioni
del suo pensiero: montando materiali che parlano da soli Benjamin intende
riportare alla luce una tradizione tedesca sotterranea, quella tradizione che
il nazionalsocialismo stava degradando a semplice ideologia. Ma nel Novecento il binomio citazione-traduzione non è
solo una delle strutture portanti della creazione letteraria, è anche soggetto letterario
esso stesso. Penso al Pierre Menard dell’omonimo racconto di Borges, che
traduce il libro di Cervantes citandolo ovvero ricopiando le parole del Chisciotte – parole che, pur rimanendo
uguali a loro stesse, si caricano di altri significati. L’arguto paradosso di
Borges è a mio parere anche una riflessione metaletteraria sul possibile
carattere traduttivo della citazione e sul possibile carattere citazionale
della traduzione.
La corrispondenza Celan-Sachs |
RISPOSTA: Da Celan – di cui negli
anni scorsi mi sono occupata specialmente in relazione a Nelly Sachs – in
realtà ho solo preso in prestito, del tutto arbitrariamente, parole che a mio
parere esprimono benissimo quel processo di ricerca e di avvicinamento di figure degne di
essere tradotte, citate, “mimate”; quel tentativo di riallacciare i fili sottili
che ci legavano ai maestri e che adesso, in un presente che non sentiamo più
nostro, vediamo spezzati. Celan, traduttore di Osip Mandel’stam, in È tutto diverso (cito la traduzione di
Ida Porena e rimando a Vita a fronte
di Camilla Miglio) immagina un ‘incontro’ attraverso la traduzione che ricrea una
perduta simbiosi tra epoche, tra parole, addirittura tra corpi, “gli stacchi le
braccia dalle spalle, il destro, il sinistro, / attacchi le tue al loro posto,
con le mani, le dita, le linee”. Eccolo lo Shakespeare del Teatro della poesia: ha “le dita, le linee” di Kraus, della sua
lingua madre (il tedesco dello Shakespeare tradotto da Schlegel), e allora
finalmente “ciò che era strappato si rinsalda – eccoli, prendili, li hai tutti
e due, / la mano, la mano, il nome, il nome”. Il nome ora è doppio: è stato
ripetuto tramite la citazione e la traduzione, è stato traslato, e ora – divenuto “di seconda mano”, identico e non più
identico a se stesso – non è più soltanto altrui, è anche proprio. Citazione e
traduzione sono un modo per costringere i maestri a venirci di nuovo incontro. E’
così che Kraus ritrova Shakespeare e Schlegel, a fronte di un presente perduto,
in un’Austria che negli anni Trenta si sente improvvisamente orfana del proprio
passato e che non tarderà ad intrecciare le sue sorti a quelle della Germania
nazista.
Complimenti all'intervistata; interessanti queste ultime interviste uscite..
RispondiEliminaIo me la ricordo questa rivista daemon, devo averne preso qualche numero, non era male, anzi, si faceva leggere.....
RispondiEliminaUn podcast eventuale per approfondire:
RispondiEliminahttp://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/puntata/ContentItem-3e06430b-e634-4ba6-84a8-2ee222d25955.html