Nel 1979 uscì per Adelphi la traduzione italiana di En bas di Leonora Carrington (Giù in fondo, pp. 76, traduzione di Ginevra Bompiani, libro del quale si dovrebbe riuscire a recuperare qualche copia). Il breve racconto, uscito in prima battuta a Parigi nel 1973, si tiene in forma diaristica tra il 23 agosto e il 27 agosto 1943 e si apre con una lettera all'editore che dice: "Come una vecchia Talpa che nuota sotto i cimiteri mi rendo conto che sono sempre stata cieca - cerco di conoscere La Morte per avere meno paura, cerco di vuotar via le immagini che mi hanno resa cieca - Le mando ancora molto affetto e la bacio attraverso la mia Dentiera (che tengo accanto a me, la notte, in una scatoletta di plastica celeste) NON HO PIÙ NEANCHE UN DENTE" e poi un significativoo P.S. "Se i giovani mi dicono che ho lo Spirito giovane mi offendo - Ho lo SPIRITO VECCHIO Cerchi di capirlo -". Forse la dentiera è una spia, uno dei tratti che rimandano anche alla sua lunga frequentazione surrealista, ma non formalizziamoci troppo coi surrealisti. Leonora Carrington fu infatti una pittrice e scrittrice che sicuramente visse dal di dentro quella "corrente" ma con una libertà di gesto ineguagliata. Normale ricordare la relazione con Max Ernst, dalla quale anche questo En bas scaturisce, sebbene in absentia. Sono infatti raccolti qui i giorni dell'internamento in manicomio dopo il trapasso del confine spagnolo, in fuga dalla Francia occupata dal Reich e in seguito alla rottura della serenità speculativa che Leonora Carrington e Max Ernst avevano costruito nella casa di Saint-Martin d’Ardèche. Ma tralasciamo per oggi le intricate vicende sentimentali interne al quartier generale surrealista e le altrettanto intricate vicende sentimentali che portano - neanche a farlo apposta - sempre a Peggy Guggenheim (che fra l'altro poi sposò Ernst) e al suo salvataggio di mezzo esercito di artisti figurativi con un volo Pan Am Lisbona-New York nel luglio del 1941 (tra cui proprio Carrington e Ernst).
In questo memoir sull'esperienza dell'internamento nella clinica di Santander gestita dal filonazista Luis Morales, Leonora Carrington semina per strada il ricordo delle terapie brutali, le cure al Cardiazol, le violenze sessuali, i cibi inghiottiti secondo un rituale ben preciso, l'ossessione per certi numeri, la relazione con la lordura della propria condizione di internata, le droghe allucinatorie e arriva a formare un universo di realismo magico dove il dato reale avanza in un deserto di visioni e allucinazioni. L'arrivo in Spagna coincide con il seguente ricordo linguistico: "Dover parlare una lingua che non conoscevo fu molto importante per me. Non ero impacciata da un'idea preconcetta delle parole e capivo soltanto a metà il loro significato moderno. Ciò mi permetteva di attribuire un senso ermetico alle frasi più banali." (corsivo mio). Oggi leggiamo Giù in fondo quasi come una inconsulta reazione scritta dal di dentro di una pazzia incipiente mentre là fuori il mondo va in fiamme e deflagra la rovina bellica. Eppure c'è sempre un occhio che analizza e l'altro che soffre per il continuo cambio di fuoco tra immenso e minuscolo, fuori e dentro. E la pazzia è una sentenza della società salutata positivamente, sin dall'incipit, perché "ingnoravo l'importanza della salute, cioè la necessità assoluta di avere un corpo sano per evitare il disastro nella liberazione dello spirito".
Max Ernst, Leonora nella luce del mattino, 1940 |
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