domenica 20 luglio 2014

"Dismissione" di Fabio Orecchini e Pane

Il libro e il cd audio che Fabio Orecchini e Pane pubblicano per Luca Sossella Editore (pp. 72, euro 10, postfazione di Gabriele Frasca e intervento di Stefano Solventi), Dismissione, si inserisce in quel solco di riflessione sul biopotere che trova in Michel Foucault il più noto teorizzatore. Ho avuto modo di assistere di persona alla lettura di Fabio Orecchini e alle proiezioni che sono nate sulla scia di una riflessione lunga sul dramma dell'amianto ricavandone una duratura impressione ed è probabilmente per questo motivo che ora consiglio questo cofanetto. Un libro di poesie con lo stesso titolo era già uscito per Polimata nel 2010. Tuttavia, questo libro appena pubblicato da Sossella non è quel libro di Polimata. E non è molte altre cose. Non è affatto scimmiottamento di tematiche trite sul biopotere, giusto per restare alle righe d'esordio. Non è il cofanetto libro+cd che si prova a raffazzonare per vendere "l'invendibile poesia" con abbinamenti quantomeno discutibili se non sconclusionati e non è nemmeno un cofanetto caro (converrete che 10 euro per libro e cd è un prezzo che sta in piedi). Questo è un progetto vero è proprio, è un libro che dimostra costruzione, quasi la poesia fosse fatta di nuovi mattoni e il tetto di nuove tegole. La musica non è supporto della poesia e la poesia non è supporto della musica. Si può parlare di compenetrazione? Probabilmente sì. Si può parlare di manifestazioni diverse di una sensibilità comune. Possono vivere entrambe in autonomia - e questo è importante, fondamentale almeno per me - e possono vivere assieme contribuendo a formare un vissuto di lettori-ascoltatori che amplifica il "tema" trattato (ricorderete anche un romanzo di Ermanno Rea con lo stesso titolo e, su temi affini, il conseguente film La stella che non c'è con Sergio Castellitto) senza incanalarlo nei percorsi sterili dell'essere impegnati a tutti i costi, dell'essere impegnati come "posa". Qui è la parola a impegnare, non perché la parola e la musica siano ingenuamente "impegnate".

Orecchini è poeta nel coraggio di adoperare la parola. Adoperare, appunto, usare e non dismettere. Quello che è dismesso qui è tutto un corpo sociale e un meccanismo grippato tra le generazioni: l'amianto che ci ha intossicato lentamente e altrettanto lentamente anestetizzato. Sono testi attentissimi al rimando fonico anche nell'inserto tecnico/medico, all'iterazione, all'eco interna e ai ritagli di senso che s'incollano in un collage. Sono testi polverosi. Questi testi si susseguono sulla pagina, un lenzuolo di morte bianco, dove tocchiamo coi polpastrelli anche la forza di scompaginare, pure tipograficamente (questo è un aspetto molto interessante di quello che è messo in opera da Orecchini). E chi vorrà potrà trovare nel singhiozzo sillabico di questo poeta nato a Roma trentatré anni fa la lezione silenziosa di un grande dimenticato come Giuliano Mesa. E se approfondiamo guardando anche al progetto visivo "Modelli di bocche" (si veda il sito del progetto indicato alla fine di questo pezzo) - bocche deturpate dal veleno e dalla malattia, bocche che non hanno urlato il dolore e sono finite affossate, lontane da qualsiasi tribunale - allora scopriamo come siano molteplici ed efficaci le forme di azione di questo autore, come tutto sia manifestazione di un tempo, quello nostro, dove sembra stia succedendo di tutto e dove in realtà, per la prima volta nella storia, magari non sta accadendo proprio un bel niente o comunque nulla di rilevante, solo una lenta asfissiante ottundente morte resa più atroce dalla mancanza d'ossigeno.

Poesia sperimentale? Poesia di ricerca direi piuttosto, come è sempre stata tutta la poesia, compresa quella del Tasso o del Leopardi. Per dire che questa non è poesia che cerca orgogliosamente distacco dal "main stream" della poesia attuale (eh, già, si sentono persino queste formule obbrobriose riferite alla poesia fuoriuscire dalle bocche dei più operosi e glamour addetti ai lavori, ormai, ma non ci rassegniamo al fatto che la poesia stia diventando un gran cancan glamour e anche per questo segnalo volentieri Dismissione, nella sua totalità di progetto). Penso sia poesia che semplicemente cerca di non dismettere del tutto la volontà, il pensiero e persino l'emozione come chiave di avvicinamento alla storia. Ed è un libro che si affaccia in modo assai originale, quasi senza volerlo, quasi in punta dei piedi, sul lastricato scivoloso della memoria. Libro generazionale, se mi passate il termine, perché questi e quelli che verranno non potranno non tornare a essere tempi di scontri generazionali (e io mi stupisco sempre di come sia sempre tutto anestetizzato, tutto accomodato e apparentemente risolto il confronto tra generazioni). Se si deve passare per un ripensamento totale e quindi anche etico in primis, non potrà mancare uno scontro in qualche misura generazionale, che non deve necessariamente assumere i toni della violenza o dell'incomunicabilità, ma che dica una volta per tutte cos'era e cosa conteneva quell'amore che ci lega alle generazioni che ci hanno preceduto, amore a tratti avvelenato come l'amianto forse e che tuttavia non possiamo bonificare. Il libro di Fabio Orecchini mi ha portato a ragionare su questo. Se un libro di poesia riesce a muovermi così tanto, allora lo consiglio davvero. 

Il punto più importante della postfazione di Gabriele Frasca, quello centrale a mio avviso, sta verso la fine: "Orecchini [...] fa una scelta di estrema consapevolezza: le cose della sua generazione vivono del lascito tossico della presunta eternità della merce della generazione che l’ha preceduta. Generazione assai ottimista, quell’altra, tanto da ritenersi persino nelle cose della poesia l’ultima, l’ultimissima, quella del compimento. E invece...
Orecchini sceglie la dismissione, e centra forse la parola chiave della sua generazione. Il termine, lo sappiamo, che aveva una sua remota significazione nautica, a un certo punto è andato finanche oltre l’accezione economica affermatasi intorno alla fine degli anni Sessanta (che era già di suo une bella forzatura, visto che quel dis- non disdice un bel niente, non attestato com’è il suo sostantivo positivo se non in virtù di un ulteriore prefisso), sebbene i dizionari fatichino a registrare questo nuovo senso. Lo fa la poesia al posto loro, come sempre. L’io lirico della dismissione prende la parola dallo smantellamento della società industriale, che ha lasciato intorno a sé residui ineliminabili. Bella contraddizione: che è quella che anima il verso, che si riaggrega in forme riconoscibili puntualmente smentite dalla sintassi."


Qui il sito di Dismissione, al quale rimando anche per estratti dal libro e per altri contributi importanti.


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