Persone giovani di
tutto il mondo terminano gli studi universitari e, se motivate a rimanere
nell’ambito accademico e della ricerca, spesso partono. Destinazioni?
Molteplici. Vanno dove ci sono posizioni vacanti, affini ai loro curricula e
alle loro ambizioni, giungono in contesti in cui convergono persone da più
parti del mondo, più o meno giovani, sole o accompagnate, atterrando in
appartamenti o dormitori più o meno rumorosi. Che cosa c’è in questi posti? C’è
uno stipendio, innanzitutto. C’è anche la possibilità di inseguire un’ambizione
o la prospettiva di carriera del tenure track. Può esserci la fuga
da un horror vacui, lavorativo o più estesamente esistenziale, che
si fa via via scorticante, così come scortica l’irrequietezza quando diventa il
sale (o soltanto il cloro senza il sodio) di un’esistenza. Può esserci persino
il tentativo di ridare un senso a parole forse sfibrate come ‘avventura’. Sono
situazioni in cui può regnare o perpetuarsi la destrezza nell’arte di
distanziarsi e “trasformare in un lampo una persona da essenziale a superflua”.
Non c’è alcuna intenzione di giudizio racchiusa in queste considerazioni preliminari
che riguardano esili lavorativi, eremitaggi, vagabondaggi o spaesamenti
volontari, né da parte di chi ha scritto il libro di cui si parla oggi e
tanto meno da parte di chi prova a darne notizia qui. La condizione dello
sradicamento è del resto così nota e spesso foriera di esiti mirabili (pensiamo
solo a Emanuel Carnevali, alla sua poesia come "grido del primo giorno di conoscenza, ch'io smarrii attraverso tanti giorni di dissipazione"). Spesso il primo
impatto, se non si finisce in un paese anglofono del quale crediamo di
conoscere la lingua, è proprio di natura linguistica, all’interno di contesti
internazionali che somigliano da vicino a passerelle dove sfila ciò che resta
delle marche-nazioni (quello delle nazioni come brand, al di là degli
stereotipi, è un tema persistente). È possibile allora che si sviluppi nel
nuovo arrivato un fastidio profondo per quella parlata disidratata che s’àgita
ed è agìta in simili situazioni, per le interiezioni fatte con lo stampo che
puntellano discorsi pieni di sorrisi di disagio e di wow. Un nuovo
lavoro inizia e con questo principiano nuove abitudini, diversi ritmi
s’accalcano, nuove facce, climi e odori appaiono, in uno spazio dove si
radunano stipendiati che provengono da storie diverse e spesso lontanissime tra
loro. In uno scenario del genere siamo catapultati all’inizio del bel libro di
Maria Anna Mariani, uno scritto caratterizzato da una nota dolente e divertente
al contempo, incuneato tra il reportage brillante e la cocente
testimonianza-confessione, dov’è la lingua, innanzitutto, a mostrare un tono
persuasivo, se paragonata a tanta paccottiglia linguistica cascante del
Romanzificio Italia S.r.l. (o, se preferite, S.n.c.). Solo che stavolta la
destinazione non è Berlino o New York, bensì una più esotica e insolita Corea
del Sud, o Repubblica di Corea, tornata negli ultimi tempi alla ribalta per lo
stato con cui confina a nord, ma anche grazie a Samsung, la principale
concorrente “simbolica” di Apple, che proprio nei giorni scorsi, durante
l’arresto del suo vicepresidente, si apprestava a un altrettanto simbolico
sorpasso dell’azienda americana. E non siamo nemmeno a Seul, bensì in
un’università prestigiosa che dalla capitale sudcoreana dista circa due ore di
pullman.
Dalla Corea del Sud. Tra neon e bandiere sciamaniche (Exòrma, pp. 168, euro 14,90) è insomma un libro lontano e fortunatamente lontano anche dal precariato. Sia chiaro che nessuno vuole sostenere che il problema del precariato sia risolto o che non vada più nominato. Il problema semmai è proprio come lo analizziamo e ce lo raccontiamo, magari con l’intento di farci un affare. Se si vuole fare un dispetto al movente intimo di questo libro sarà sufficiente provare a veicolarlo sui solchi del precariato. Questo è invece un libro sul nostro tempo e i suoi fusi orari, sulle sue inaggirabili aporie e inquietudini, sugli uomini che si incontrano e agiscono, su quelli che restano lontanissimi, è una testimonianza cucita attorno a un’appercezione divenuta così nitida forse durante l’isolamento. Dal punto di vista editoriale, attorno al tema del precariato è spesso uscito il peggio del peggio, quasi a conferma cortocircuitale che una certa porzione di editoria è fatta e fruita principalmente da persone che in quel precariato piantano i piedi. Il libro di Maria Anna Mariani sfiora soltanto quel filone editoriale, e lo sfiora nella considerazione, in fondo trascurabile e comunque non essenziale, che la protagonista spoletina non rappresenta un caso di coincidenza tra luogo o nazione d’origine e luogo e nazione di lavoro. Poi, pensiamoci: in fin dei conti la nostra protagonista in Corea del Sud ci è andata per lavorare e a lavorare continua ancora (adesso è alla University of Chicago e, dal punto di vista della ricerca, l'invito è anche quello di leggere lo studio intitolato Sull’autobiografia contemporanea. Nathalie Sarraute, Elias Canetti, Alice Munro, Primo Levi uscito nel 2012 per Carocci). Un’immagine ricorrente è proprio quella della “Babele stipendiata” e stipendio significa appunto un lavoro che c’è. Non sarebbe allora utile rinnovare periodicamente la domanda: di che cosa parliamo quando parliamo di precariato? L’accento è sui luoghi o sulle forme contrattuali? Sul restare o sul partire? E su quale diritto al/del lavoro? E come muta questo tema, negli anni e da caso a caso?
Serialità dell'abitare, serialità dell'esistere |
Quanto striato è il cielo |
“È di questa solitudine di espatriata che vorrei parlare mentre fuori piove, di questo esilio feticizzato, che ha portato a ingigantire l’anaffettività, l’adattabilità e l’intransigenza. Li vedo accentuati adesso, questi tratti del mio carattere, dopo averli isolati attraverso un bilancio che si è reso necessario, ora che sto per lasciare questo luogo e spostarmi verso un altrove, posizionato esattamente all’altra estremità: Chicago.”
Poco prima si era letto:
“L’estraneità è diventata una condizione familiare. Sentirsi esotici può farsi abitudine? Sì, e non è un paradosso perché è comodo vivere con lineamenti eccentrici e giustificare la propria inettitudine con l’alibi dello straniero piombato dentro un’atmosfera aliena. Lo spaesamento è diventato esonero, un esonero permanente, da tutto quanto credo.”
L’esilio feticizzato che si fa esonero permanente da tutto: raramente capita di leggere pagine così affilate e riflettenti in uno scritto che si può ricondurre all’alveo dell’autobiografia, parola da sempre mal digerita in Italia, dove persino nelle quarte di copertina di case editrici rispettabili, anziché usarla, si preferisce parare in formule ampollose e assurde come “romanzo di una vita” (ci rendiamo conto della sciocchezza di questa formula, vero?). La vita o si vive o si scrive, sosteneva già Pirandello. La realtà è oggi un po’ diversa: la scriviamo un po’ tutti la vita e non sappiamo se questo implichi che la viviamo tutti un po’ di meno. Non c’è scrittura che al fondo non sia auto-bio-grafia (finanche un libro di fantascienza o un fumetto). Resta allora l’interrogazione sulle forme in cui ce la raccontiamo questa vita e su cosa facciamo, più precisamente, in questo pianeta (non sarà un caso che il nome di Anne Carson, autrice dell’Antropologia dell’acqua, faccia capolino nel testo, verso la fine). L’autrice si è messa in gioco stando però distante da qualsiasi gioco e il coraggio appare sempre più come l’ingrediente primario, per quanto raro, di un libro che valga la pena consigliare. Qui il mutamento è preso di petto e, anche se le pagine trattano un percorso di vita quasi potesse sembrare casuale, non c’è spazio né tempo per il caso, se è vero che “Tutto cambia a un certo punto, per una spinta sorridente o perversa, molto spesso suscitata – perché il caso siamo noi che lo fecondiamo – ma che comunque sconvolge, sconquassa. Fino a che la vita non si riassesta.” C’è qua, più chiara e scottante, la confessione di chi desidera continuare a imparare, di chi preferisce “la terra franata alla palude e al movimento che si ripete”.
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