In questo nuovo spazio così titolato proverò a fermare pensieri che mi vengono spesso su libretti che mi piacerebbe scrivere se avessi capacità, tempo, spazi o persino, ancora più presuntuosamente, un committente. Oppure, meglio ancora, librini che vorrei trovare già scritti da altri. Libri piccoli, che provino ad affrontare temi o autori che già hanno una bibliografia, ma con la voglia di provare a dire cose nuove, magari correndo qualche rischio. Non occorre scrivere tanto, pensate a certi articoli filosofici brevissimi, a come hanno cambiato tutto. Scrivendone così brevemente qui, mi faccio passare l'idea di intraprendere tortuosi percorsi inconcludenti. Chissà se dura.
"Mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare". Più passano gli anni e più mi rendo conto di quanto stupore e quanta acqua scorra sotto questo attacco di una famosissima canzone di Luigi Tenco. Certo, bisognerebbe intendersi bene sul quel niente da fare, oltre quello che dispiega in un primo momento. Incomincio così a ricordare la centralità che la figura di Luigi Tenco può - e a mio avviso dovrebbe - rivestire nell'universo della scrittura in italiano, anche in quella poetica. E non sto pensando a malsane e sbagliate sovrapposizioni tra poesia e cosiddetta canzone d'autore. Su questo sto con Valerio Magrelli. Non so se avete presente un video, passato di recente anche da Rai Storia, in cui il poeta romano quasi si accanisce a marcare bene i confini tra poesia e canzone. Lì Magrelli ha ragione da vendere. Sono due cose così diverse, lontanissime, che non si possono confrontare, pena la perdita di libertà delle loro forme e un fraintendimento radicale. Anche se la canzone si basa su dei testi che si possono leggere come una poesia e la poesia si dice abbia musica e ritmo che si possono accogliere come canzone, poesia e canzone non vanno confuse o avvicinate troppo, mai, anche quando la tentazione diventa forte. Restano quadranti diversi di un piano cartesiano. Molti anni fa mi rincuorai durante una chiacchierata con Andrea Zanzotto, scoprendo che ad esempio su De André pensavamo le stesse cose e forse storcevamo persino il naso nella stessa direzione quando sentivamo parlare di lui come "poeta" (non ricordo quale fatto di cronaca avesse riguardato il cantautore genovese). Al di là del fatto che, pur rispettandolo, non ho mai amato De André (trovo un Piero Ciampi molto sopra, solo per fare un nome), c'era il rischio di dare adito a fraintendimenti pericolosi che potevano avere un effetto domino sugli errori di percezione negli anni a seguire. Questo non significa che sia contrario a certe ibridazioni, a certi esperimenti o alla frequentazione simultanea di queste forme, anzi. Il legame tra poesia e musica resta però controverso, aperto, doppio legame, batesonianamente double bind.
Oltre a quelle già citate, sono tante le canzoni di Tenco su cui varrebbe la pena sostare. (Ora mi tornano in mente "E se ci diranno" o la stupenda "Quando", che in un fazzoletto tiene assieme tutte le parole di una tradizione lirica.) In realtà è "Lontano lontano" però la canzone dove sento tutta la grandezza e il pianto irrinunciabile che ci offre Tenco. A partire da quell'uso di un avverbio di luogo vicino a nel tempo, nell'attacco, e poi da quella macchia che si spande come un liquido sopra una tavola per tutta la canzone e che passa dalla sponda della determinatezza (occhi, occhi, sorriso, labbra, mio volto, ad un tratto) a quella della vaghezza, la quale non può che spingerci verso Leopardi, e che ritroviamo in altri segmenti del testo (lontano lontano, qualche cosa, timidezza, un po' in giro, per caso, l'aria triste, chissà come e perché). E tutto oscilla tra futuro e imperfetto, come bicchieri attaccati sopra una tavola durante un terremoto. Questa canzone è centrale nella mia memoria ora perché è una canzone d'amore e sul volto, sulle scosse elettriche che collegano tra loro i volti nei diversi luoghi e tempi, e la percezione che abbiamo noi dei volti, la quale regola, almeno secondo me, uno spazio importante della vita. E poi è una canzone che nomina il mondo, il modo che abbiamo di portare in noi gli altri, l'accettazione della vita, la collocazione spaziale dell'amore. Credo risieda qui la grandezza di questo testo e di questa canzone. Non so, ma quando ho cominciato, più tardi, a leggiucchiare qualche libro di neuroscienze, su come queste studiano i processi cerebrali di riconoscimento del volto dell'uomo, ho iniziato a immaginarmi Tenco come un neuroscienzato che aveva deciso di cantare (e a vedere come stanno andando le frettolose neuroscienze, forse non ha nemmeno sbagliato strada). Pensavo proprio a "Lontanto lontano", a cosa innescano i volti, i movimenti facciali, in questa canzone. E tanto per cambiare ho pianto, ancora una volta.
Lontano lontano nel tempo
qualche cosa
negli occhi di un altro
ti farà ripensare ai miei occhi
i miei occhi che t'amavano tanto
E lontano lontano nel mondo
in un sorriso
sulle labbra di un altro
troverai quella mia timidezza
per cui tu
mi prendevi un po' in giro
E lontano lontano nel tempo
l'espressione
di un volto per caso
ti farà ricordare il mio volto
l'aria triste che tu amavi tanto
E lontano lontano nel mondo
una sera sarai con un altro
e ad un tratto
chissà come e perché
ti troverai a parlargli di me
di un amore ormai troppo lontano.
Piangere.
RispondiEliminaAlberto, il libro che va più vicino a quello che forse hai in mente è quello di Santoro uscito per IL MULINO. Ciao
RispondiEliminaAnche questo non sarà correct, ma Piero Ciampi che vince su De André, finalmente non mi sento sola.
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