mercoledì 15 marzo 2017

Ritornano i "Discorsi militari" di Giovanni Boine. Uno scritto di Andrea Aveto

Ricorre quest'anno il centenario della morte di Giovanni Boine, nato nel 1887 a Finale Marina e morto di tisi nel 1917 a Porto Maurizio. Come ricordano i curatori della pubblicazione di cui diamo notizia oggi, Boine costituisce una figura anomala nel panorama del movimento della "Voce". Di lui rimane un’importante produzione artistica rappresentata, fra gli altri, dagli scritti teorici e polemici (La ferita non chiusa, 1911; Discorsi militari, 1914) e soprattutto dalle note critiche sulla letteratura contemporanea (Plausi e botte e Frantumi pubblicati postumi nel 1918). Fresca di stampa è questa riedizione dei Discorsi militari ospitata nella collana "Passati presenti" e pubblicata dalla Fondazione Museo Storico del Trentino per la cura di Andrea Aveto e con scritti di Chiara Catapano e Claudio Di Scalzo (pp. 264, euro 15, scheda del volume a questo indirizzo). Per gentile concessione dei curatori è di seguito riportata l'introduzione al volume di Andrea Aveto.


INTRODUZIONE

di Andrea Aveto



Sembra incredibile, ma quel marziale catechismo buono per la pedagogia del soldato s’era rivelato il «migliore successo» commerciale della Libreria della Voce. Parola dell’editore, Giuseppe Prezzolini, che ancora a sessant’anni di distanza non era in grado di darsi una «spiegazione razionale» dell’imprevedibile exploit di «un autore quasi sconosciuto, Giovanni Boine, che giaceva a letto con la febbre degli ammalati di petto e non aveva di che pagare il conto del farmacista e non aveva prestato servizio militare, ma insegnava come si debba difender la patria e il perché della disciplina»[1]. Se ne sarebbero vendute (stessa fonte) «trentamila copie»: un’enormità. Altrove lo stesso Prezzolini aveva parlato più genericamente (più plausibilmente?) di «migliaia» di esemplari, stampati grazie alle «organizzazioni patriottiche di quel tempo» che diffusero il volumetto «nelle caserme e nei campi dove si preparavano i soldati della guerra del 1915-1918»[2]. A conti fatti, però, la sostanza non mutava: il suo rapidissimo smercio era stato quantomeno inusuale per una casa editrice la cui collana di punta, i «Quaderni della Voce», viaggiava di regola su tirature intorno alle millecinquecento unità, che il mercato impiegava anni ad assorbire.

Era uscito il 20 ottobre 1914. «La Voce» lo aveva annunciato sette giorni prima in una réclame che si preoccupava di sottolinearne la «grande attualità». Tanto attuale, si è tentati di dire, che per evitare di farlo ‘invecchiare’ anzitempo la data che recava impressa sulla copertina color giallo paglierino, sul frontespizio e nel copyright era quella, secca, dell’anno seguente: 1915. Che il titolo, perfettamente in sintonia col clima bellico, avesse qualche chances di trovare i suoi lettori, Prezzolini lo aveva messo in conto, va da sé; ma era lontano dall’immaginare di essersi trovato per le mani un potenziale bestseller: «a me personalmente non piace», aveva confidato il 25 settembre a Giovanni Papini, al quale si accingeva a passare le consegne in vista di un periodo di assenza da Firenze, «però potrebbe incontrare»[3]. Aveva incontrato, eccome: la prima edizione si esauriva in primavera, spingendo la Libreria della Voce a licenziarne immediatamente una seconda, con buona pace dell’autore e della sua sacrosanta pretesa di rivedere le bozze: intorno al 20 maggio andavano in macchina altre cinquemila copie, che si differenziavano dalle duemila iniziali per il prezzo più popolare (cinquanta centesimi contro una lira), per l’indicazione della tiratura posta in bella evidenza («10.° Migliaio»), per le note di proprietà letteraria e per la pubblicità editoriale che occupava l’ultima pagina di testo (originariamente bianca) e la quarta di copertina. In quelle ore l’Italia stava scivolando inesorabilmente verso il conflitto; due settimane dopo l’inizio delle ostilità un’altra réclame, apparsa sulla nuova, effimera serie politica della «Voce» rivelava dietro una facciata di bonario patriottismo le ragioni imprenditoriali di tanta urgenza: «Questa edizione permetterà di regalarne a soldati e a ufficiali. Non lasciate partire per la guerra gli amici vostri senza spedirle loro una copia della nuova edizione».

Se in autunno Prezzolini aveva investito tiepidissime attese nella stampa del libro, Boine l’aveva accolta con sostanziale indifferenza: «Non aggiungerò nulla anche perché questa roba non mi interessa più», scriveva con freddezza all’editore, che sollecitava rassicurazioni sul rispetto delle scadenze strettissime che si era imposto per l’uscita[4]. È vero che a suo tempo l’aveva caldeggiata lui, la stampa, mettendo in mezzo il conte Alessandro Casati per trovare al manoscritto una sede editoriale degna; ma ormai mesi prima, in un contesto di polemiche politiche e giornalistiche che le revolverate esplose da Gavrilo Princip a Sarajevo avevano prontamente relegato in soffitta. L’input originario alla pubblicazione, proposta senza fortuna allo Studio Editoriale Lombardo e ai Fratelli Treves, risaliva alla tumultuosa vigilia della Settimana Rossa, ai giorni nei quali si preparavano in tutta Italia comizi e assemblee in concomitanza con le parate e le riviste militari organizzate per le celebrazioni della Festa dello Statuto. A essere messa in discussione, allora, era l’istituzione stessa dell’esercito: si protestava contro i fondi destinati alla Difesa, tornati da qualche tempo all’ordine del giorno dei lavori parlamentari a meno di un anno e mezzo dalla fine della dispendiosa campagna tripolina; si contestava il rigore dei regolamenti, spesso odiosi e vessatori; si reclamava la liberazione di due delle più note «vittime del militarismo», Augusto Masetti e Antonio Moroni, il primo internato in un manicomio criminale per aver sparato all’indirizzo di un ufficiale che arringava il suo drappello in attesa dell’imbarco per la Libia, il secondo inviato in compagnia di disciplina per non aver fatto mistero del suo radicalismo politico in presenza di un superiore. Anarchici, socialisti, repubblicani (come Gian Pietro Lucini, che moriva a luglio lasciando in bozze il suo Antimilitarismo, un potenziale instant book anche se ‘cucito’ con pagine apparse di volta in volta nel corso del decennio precedente...[5]) davano forma a un rumoroso dissenso in cui si oggettivava la frantumazione del corpo sociale della nazione. La lotta di classe, che dopo gli scontri e i morti contati ad Ancona il 7 giugno sarebbe sembrata sul punto di innescare la miccia rivoluzionaria, attentava all’unità stessa del paese in nome dell’individualismo e del materialismo cavalcati dalle forze politiche dell’Estrema.

Facile capire perché l’opera che Casati provava a ‘piazzare’ rivelasse qualche titolo per suonare davvero «d’attualità»[6]: declinato nelle forme dirette e affabili dell’oratoria tradizionalmente offerta ai soldati nelle caserme, quella mistica dell’obbedienza condita degli umori reazionari di un estimatore di Joseph de Maistre e Joseph Arthur de Gobineau esortava i cittadini-soldati a far sacrificio della propria coscienza individuale in nome di un’abnegazione strenua alla causa della patria e del suo re: a riconoscere nella volontaria obbedienza alle leggi e alle regole l’unica affermazione di libertà personale capace di preservare l’ordine. Sullo sfondo stavano, naturalmente, il ruolo e la funzione che, sin dalle battute iniziali, il libro assegnava all’esercito nella vita della nazione. Un tema classico, questo, mutuato com’era dall’Alfred de Vigny di Servitude et grandeur militaires (Paris, Bonnaire-Magen, 1835), la lettura più gratificante, tra regolamenti disciplinari, norme per l’impiego tattico delle unità di guerra, saggi divulgativi e non, che per scrupolo di informazione tecnica lo scrittore s’era procurato di fare; ma, al contempo, un tema tornato improvvisamente ‘caldo’ nel dibattito politico e giornalistico di quei mesi: lo aveva fatto proprio la stampa, concedendo ampio rilievo alla discussione intorno alla preparazione delle forze armate[7]; lo avrebbe ripreso poco dopo la Libreria della Voce presentando la collana «Biblioteca militare» che proprio col volume di Boine si inaugurava[8]; lo avrebbero rilanciato più tardi gli alti comandi e i periodici specializzati, gli uni nel rallegrarsi con autore e casa editrice per quanto intrapreso[9], gli altri nel segnalare l’uscita dell’opera contribuendo in misura decisiva a farla conoscere...

Non sarà il caso di soffermarsi su quello che i nove discorsi, stesi «con entusiastica partecipazione» tra il marzo e l’aprile 1914, rappresentarono per Boine dopo lo scoppio della guerra europea, sul disagio sempre più acuto che, privatamente, lo induceva a prenderne le distanze (ma le tre paginette di premessa non suonavano già come una parziale presa di distanza?), non impedendogli però di spendersi pubblicamente per diffonderli, nella consapevolezza del loro intrinseco valore e, perché no?, in funzione del proprio personale tornaconto. Lo ha fatto – e tanto basti – Mario Isnenghi alla svolta decisiva degli anni Settanta, quando la pubblicazione dei carteggi ha consentito di ripensarne il senso e la collocazione nella cosiddetta ‘letteratura dell’intervento’[10]. Varrà la pena di soffermarsi, semmai, sulla loro genesi: una questione un poco trascurata, almeno sino ad ora, ma letteralmente decisiva per mettere a fuoco le ragioni che spinsero lo scrittore a cimentarsi con un tema all’apparenza tanto estraneo all’orizzonte dei suoi interessi, per giunta in un registro – è stato notato – di secca e disciplinata chiarezza, distante anni luce dalla prosa espressionistica, tutta scatti e invenzioni, propria delle pagine più sue[11].

La prefazione (che sull’autografo reca la data «Portomaurizio, 30 aprile ’14»: la stessa, per inciso, che sigilla, a stampa, la breve premessa al «quaderno» Il peccato ed altre cose, licenziato nel maggio successivo) assegnava all’opera l’ufficio di nobile e ideale succedaneo degli obblighi di leva, ai quali la malattia aveva impedito all’autore di adempiere. Era la stessa motivazione ‘alta’ affidata dieci giorni prima a Casati: «Io non ho potuto fare il soldato sebbene sinceramente anche nascondendo lo stato della mia salute lo abbia tentato. Considero questo lavoro come quel tanto di tassa che è giusto pagare alla nazione che ci ha fatti» (C III, 834). Quando ne aveva fatto cenno per la prima volta scrivendo ancora a Casati e a Emilio Cecchi l’11 e il 28 marzo 1914, tuttavia, Boine aveva parlato espressamente di un lavoro su commissione: «ho accettato di scrivere una serie di discorsi ai soldati sull’onore sulla disciplina etc.» (C III, 820-821); «mi sono ingolfato in certi discorsi militari che mi son stati commissionati e che debbo finire ora»[12]. Per conto di chi li stava scrivendo? I carteggi non lo dicono. Non per incarico di un editore, però, se è vero che appena giunto in fondo si era trovato a interrogare l’amico milanese in merito alla loro possibile destinazione: «Il mio libro sulla vita militare è finito ed ha anche servito allo scopo privato a cui doveva servire. Ora sono autorizzato a pubblicarlo. Vi fisso i concetti che ti ho espressi. Con calore e logica. A che editore potrei offrirlo?». (C III, 833). Era il 16 aprile e, a leggerle con attenzione, le parole usate da Boine nella circostanza rivelano che la stampa era un approdo solo secondario – e in partenza a dire il vero del tutto virtuale – della faticosa, ma non del tutto ingrata corvée che si era procurato. Altra era la finalità che il manoscritto doveva assolvere, e che effettivamente assolse prima di ritornare – in ogni senso – nella piena disponibilità di chi lo aveva redatto, come si desume da un’altra lettera di poco successiva a Casati («Riavrò prima della fine del mese il manoscritto dei miei “Discorsi militari”. [...] Appena li riavrò te li mando», C III, 834): si rimane sul terreno delle ipotesi non disponendo al momento di altri riscontri, ma non pare del tutto inverosimile che potesse servire come compendio, traccia o ipotesto utile a chi aveva dato l’incarico di stenderlo (un ufficiale?) in vista di un ciclo di conferenze o di un corso in una scuola militare. Un po’ come era capitato alle lezioni che il ventiquattrenne Luigi Russo aveva tenuto (e stampato la prima volta) per gli allievi del secondo corso della Scuola militare di Caserta e riproposto poco dopo in un’edizione non strettamente ‘scolastica’ con il titolo Vita e morale militare (Milano, Treves, 1917): un altro campione della pedagogia della guerra che a quello di Boine, non a caso, è stato di recente accostato[13].

Anche di questo aspetto occorrerà tenere conto accingendosi a rileggere il libro a cento anni dalla sua pubblicazione.





[1]        Giuseppe Prezzolini, «La Voce» 1908-1913. Cronaca, antologia e fortuna di una rivista, con la collaborazione di Emilio Gentile e di Vanni Scheiwiller, Milano, Rusconi, 1974, p. 228.
[2]        Giuseppe Prezzolini, Il tempo della «Voce», Milano-Firenze, Longanesi-Vallecchi 1960, p. 129.
[3]        Giovanni Papini-Giuseppe Prezzolini, Carteggio, II, 1908-1915. Dalla nascita della «Voce» alla fine di «Lacerba», a cura di Sandro Gentili e Gloria Manghetti, Roma-Lugano, Edizioni di Storia e Letteratura-Biblioteca Cantonale Lugano-Archivio Prezzolini, 2008, p. 490.
[4]        La lettera, priva di data ma compresa tra il 3 e il 6 ottobre 1914, è edita in Giovanni Boine, Carteggio, I, Giovanni Boine-Giuseppe Prezzolini (1908-1915), a cura di Margherita Marchione e S. Eugene Scalia, prefazione di Giuseppe Prezzolini, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1971, p. 124.
[5]        Il libro rimase inedito sino al 2006, quando ha visto la luce negli «Oscar Mondadori» a cura di Simone Nicotra e con una postfazione di Luigi Ballerini.
[6]        «Certo questi Discorsi bisognerebbe stamparli presto: sono d’attualità fra l’altro»: così nella lettera a Casati del 7 giugno 1914 (Giovanni Boine, Carteggio, III, Giovanni Boine-Amici del «Rinnovamento», a cura di Margherita Marchione e S. Eugene Scalia, prefazione di Giancarlo Vigorelli, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1977 [d’ora innanzi C III], t. II, p. 843).
[7]        Si vedano, solo a titolo di esempio, gli articoli Le condizioni attuali dell’esercito e Le condizioni della cavalleria (occhiello: Problemi dell’esercito), usciti in prima pagina sul «Corriere della Sera» del 27 marzo e del 5 maggio 1914.
[8]        «Con questa raccolta, iniziata con il presente volume, che da altri sarà seguito, ci proponiamo di collaborare, per quanto sia in noi, ad una più intima unione fra la Nazione e l’Esercito»: così si legge nella breve presentazione della collana stampata sulla quarta di copertina dei Discorsi militari.
[9]        Una dozzina di lettere di ringraziamento, indirizzate a Boine o a lui recapitate per il tramite della Libreria della Voce, sono oggi conservate presso la Biblioteca Civica «Leonardo Lagorio» di Imperia; brevi stralci vennero riprodotti a scopo pubblicitario in un’inserzione apparsa sull’Almanacco della Voce 1915 (Firenze, Libreria della Voce, 1915, p. 46) e sulla quarta di copertina della seconda edizione dei Discorsi militari.
[10]      Mario Isnenghi, Superstizione volontaria: tra Discorsi pubblici e Carteggi privati, in Giovanni Boine. Atti del convegno nazionale di studi (Imperia, 25-27 novembre 1977), a cura di Franco Contorbia, Imperia-Genova, Comune di Imperia-il melangolo, 1981, pp. 159-177. La letteratura dell’intervento è il titolo del capitolo I del saggio Il mito della grande guerra da Marinetti a Malaparte che Isnenghi ha pubblicato nel 1970 da Laterza e ristampato a partire dal 1989 presso il Mulino con il titolo Il mito della grande guerra e una nuova Postfazione.
[11]      Massimiliana Mignone, Il linguaggio dei Discorsi militari, in Giovanni Boine, cit., pp. 331-339.
[12]      Giovanni Boine, Carteggio, II, Giovanni Boine-Emilio Cecchi (1911-1917), a cura di Margherita Marchione e S. Eugene Scalia, prefazione di Carlo Martini, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1972, p. 93.
[13]      È stata Monica Mola ad avvicinare per prima i Discorsi militari a Vita e morale militare nel saggio Boine: i Discorsi in parentesi («Filologia e critica», XIX, 3, settembre-dicembre 1994, pp. 427-446, in particolare pp. 429-430). Le due opere sono state ora riedite integralmente, l’una di seguito all’altra, nella sezione II (Pedagogia della guerra) de Il racconto italiano della Grande Guerra. Narrazioni, corrispondenze, prose morali (1914-1921), a cura di Emma Giammattei e Gianluca Genovese, Milano-Napoli, Ricciardi, 2015.


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I curatori del volume

Andrea Aveto insegna Letteratura italiana contemporanea presso l’Università degli Studi di Genova. Si è occupato dell’autore del Peccato nel saggio Un capitolo della biografia di Giovanni Boine (Novi Ligure, Città del silenzio, 2012) e ne ha successivamente curato il Carteggio (1915-1917) intrattenuto con Adelaide Coari (Novi Ligure, Città del silenzio,2014).

Chiara Catapano
dirige la rivista on-line "L’Olandese volante" (www.olandesevolante.com) assieme a Claudio Di Scalzo. Poetessa, suoi articoli sono apparsi su riviste di settore in Italia e all’estero. Si occupa da alcuni anni dello scrittore portorino con particolare attenzione verso il ricco epistolario. A Giovanni Boine è dedicata la sua raccolta poetica (La graziosa vita, Thauma, 2013).

Claudio Di Scalzo si laurea all’Università di Pisa con una tesi sull’Interventismo e il Neutralismo nel 1914-1915 in Toscana. Diventa esponente della poesia visiva. Pubblica nel 1997 il romanzo epistolare Vecchiano, un paese. Lettere a Antonio Tabucchi per i tipi della Feltrinelli. Cura mostre con catalogo per Henri Michaux, Jacques Villeglé, Giorgio De Chirico, Medardo Rosso, Arturo Martini. Collabora con la Galleria Peccolo di Livorno. Cura gli scritti letterari e politici del poeta interventista Giovanni Bertacchi. Dal duemila in Rete ha ideato siti e blog. Dirige, con Chiara Catapano, la rivista online "L’Olandese Volante Transmoderno" (www.olandesevolante.com).


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