Di Mario Soldati, dell'amatissimo Molière, di Goffredo Parise e del coraggio espressivo del suo romanzo terminale e turbativo L'odore del sangue, ma anche di Vittorio Sereni o Ennio Flaiano (autore amato e studiato, ma di cui sottolinea gli effetti non sempre positivi dell'ambiente redazionale de "Il Mondo"), del disaccordo con la stimatissima Natalia Ginzburg sulla questione israelo-palestinese e su quello che scrive dopo la strage delle Olimpiadi di Monaco del 1972 e di molti altri autori e temi possiamo leggere in questo volume che le Edizioni Medusa hanno proposto da poco, quasi in concomitanza con il decennale della morte di uno dei nostri più grandi critici. La critica impossibile. Conversazioni con Cesare Garboli (pp. 96, euro 13, curato da Silvia Lutzoni e arricchito dagli scritti di Massimo Onofri e Marco Vallora) raccoglie una serie preziosa di contributi, conversazioni e soprattutto interviste del critico nato in Versilia, regione in cui tornò dopo una lunga parentesi romana, per dedicarsi principalmente al suo Dom Juan e a Pascoli.
Quante pennellate feroci può contenere un libro del genere! Ad esempio, in uno degli scritti qui raccolti, Garboli punta il dito quasi con naturalezza e normalità, senza sterile livore, su un aspetto del quale raramente prendiamo vera coscienza ovvero che gli intellettuali, presunti maestri di pensiero, quasi mai "pensano con la propria testa". In effetti quello che si registra è così, o perché sono intellettuali asserviti al potere o perché sono troppo legati a certe dinamiche di pensiero consolidate e non fluenti. Sono questi passaggi, calati quasi alla maniera di un inciso innocuo, che trasformano qualsiasi lettura di Garboli in una potente radunata del pensiero e dei pensieri, uno sfrondare l'inessenziale, un diffondersi di profumi d'intuizione che travalicano epoche, autori, periodizzazioni. Penso anche all'intervista in cui riflette sul Romanticismo, partendo da Kant. E non potrebbe essere diversamente.
Leggendo Garboli torna il dubbio (certezza?) che nel secolo scorso abbiamo avuto dei saggisti straordinari e che troppo spesso releghiamo la forma-saggio a un'arte minore (qui ci gioverebbe ricordare il "semplice" titolo dell'opera più nota di Montaigne). Non dovrebbe essere così, non può essere così, eppure mi pare che il percepito raramente illumini con la giusta luce quel che si muove nei territori della critica. E sicuramente scrisse molto, ma allo stesso tempo ritroviamo quella lucidità di chi sa scrivere anche per l'occasione, non sistematicamente, quella libertà di movimento che pochi pensatori e critici hanno dimostrato, spesso anchilosati a causa di un legame parassitario con un autore, un'opera o un'epoca. Si badi, la conoscenza e lo studio necessitano sempre di una qualche forma di parassitismo che però, se incontrollata, è soggetta al rischio di diventare dilagante e patologica. Garboli spazia e scrive forse soltanto quando serve. In fondo, a ben pensare, tanto di quello che abbiamo tradotto nel Novecento passa per Bobi Bazlen, ma cosa abbiamo di effettivamente scritto e pubblicato di Bazlen? Pochissimo. E in un ambito per me spesso fuori visuale come quello accademico penso a un docente come Adone Brandalise - e non solo perché ho avuto la fortuna di ascoltarlo -, di cui troverete pochissime pubblicazioni ma del quale, proprio in questi ultimi tempi, un gruppo di affezionati studenti sta proponendo le sbobinature delle registrazioni delle lezioni di teoria della letteratura tenute all'università di Padova (le trovate qui, e la sua analisi del Chisciotte è formidabile). Tutto questo si riversa necessariamente sul rapporto che Garboli ha coi libri, con il celebre "corpo a corpo" che con questi intraprende (e ricordato anche in questo volume), su un'avversione marcata alle pieghe prese dall'editoria.
Fu una vita straripante la sua, ossimoricamente dentro i ranghi dell'anarchia, che talvolta ebbe contatti da lui stesso definiti "casuali" con quasi ogni forma espressiva: poesia, narrativa, saggistica storica, la musica del quasi conterraneo Giacomo Puccini, cinema, senza dimenticare naturalmente quel teatro che resta il fuoco centrale, grimaldello privilegiato di conoscenza. A quarant'anni esatti dalla prima del suo Dom Juan di Molière e a dieci dalla morte ci troviamo tra le mani un utile volume per riaprire la porta della sua casa, il capitolo non certo risolto di Garboli e l'Italia, un viatico non trascurabile attraverso la sua pianura proibita.
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