Se è vero che il testo di un romanzo mette in scena una
scissione tra sé e mondo – scissione che prova spesso, talvolta ingenuamente al
giorno d’oggi, a ricomporre sulla pagina – è anche vero che tale scissione può
prendere diverse strade e declinarsi in molteplici aspetti, che possono
manifestarsi come corollari di questo movente originario. E così, come
sempre ravvisiamo la già ricordata primaria scissione, possiamo trovarne molte
altre, ad esempio quella antica tra ragione e sentimento, tra interesse pubblico e
privato, tra libertà e nuove schiavitù, tra vittima e carnefice oppure tra genitori e figli, con tutto il
portato che un discorso generazionale ben intavolato sempre trascina con sé. Fino
a qui siamo nell’ambito del noto e di quanto già la tragedia greca aveva messo sulla scena. Poi, con ogni nuova storia, interviene
il nuovo. L’ultimo romanzo di
Alessandro Zaccuri intitolato Lo spregio (Marsilio,
pp. 120, euro 16), nella sua indovinata brevità, riesce a disporre capitolo dopo capitolo tanti
motivi di interesse. Più che concentrarmi sulla storia e sottrarre ai lettori
la possibilità di venirne a capo, proverò a dire i motivi per
cui questo libro è riuscito a impaginare l’intersecarsi di più linee (e
rapporti) di forza che scorrono tra i personaggi, i tempi e i luoghi. Le scissioni citate poche righe sopra non sono casuali, perché trovano tutte spazio nel libro di Zaccuri. Tutto il
resto va davvero lasciato alla volontà di leggere e scoprire, volontà che – si
dovrà riconoscerlo senza piagnistei prima o poi – rischia di smarrirsi nelle derive mondane dell’oggetto
libro, che può benissimo diventare definitivamente accessorio di moda tra gli altri.
Il punto di partenza della narrazione è fissato nel 1993. Non
vi è un vero protagonista in questo libro, c’è un raro equilibrio tra
personaggi comunque protagonisti. Uno dei protagonisti, il tredicenne Angelo figlio di un gestore di una trattoria posta al confine italo-svizzero, scopre
da un compagno di scuola che le attività collaterali che ruotano attorno al
padre e alla trattoria non sono tutte lecite e lineari. Trattasi di contrabbando
da zone montane di confine e di affitto di qualche stanza a ore per la prostituzione. Tra l’altro il padre,
Franco detto il Moro, non è il padre. Ecco un punto di rottura dell’equilibrio,
una scissione. Ma i due si sono sempre parlati "da uomo a uomo" e così sempre faranno e Angelo inizia presto un proprio percorso, emulativo di quello del padre. L'epigrafe scelta da Zaccuri, da Kafka, vale per i diversi punti di rottura di questo breve romanzo e dice "dopo di che non ci fu lotta, ma solo punizione". Di qui, mediante un iniziale ricorso all’unità di spazio (la
trattoria e le zone circostanti), il testo di Zaccuri si sposta attraverso
i decenni e le trasformazioni dei luoghi e delle persone, prestando attenzione alle mode, agli accessori, alle marche (per altri versi grandi assenti della narrativa italiana). La voce del narratore
è tentata da quel meccanismo di regressione che tanta fortuna ha avuto. In
sostanza il narratore pensa e a volte parla come i personaggi: ad esempio, a
pag. 35, leggiamo “Gli avevano trovato un soffio al cuore, va’ a capire se è vero”, oppure, sempre alla stessa pagina, “Era
suo figlio, facesse quel che voleva”.
Un ulteriore punto di scissione è l’arrivo nella zona di una famiglia
meridionale che riorganizza gli assetti di potere. Tra la famiglia del Moro e
questa famiglia scatta un’alleanza, sancita dall’amicizia tra Angelo e uno dei
figli di Don Ciccio. A questo punto il libro abbandona la propria fedeltà al
luogo e segue i due giovani nelle scorribande della loro amicizia, fino a una “impresa”
rappresentata da un furto di una statua da parte di Salvo e al successivo
spregio dettato da invidia compiuto da Angelo. Questo è un libro dove fanno capolino due statue
ben diverse ma comunque centrali (di qui la copertina). Il passo s’avvia rapidamente
verso l’epilogo tragico e con forza emerge la scena del colloquio tra il Moro e Don Ciccio, nella casa di quest'ultimo. Appaiono centrate bene in questa investigazione di Zaccuri sia la riflessione sui rapporti tra padri e figli lungo i decenni sia la
riflessione sul potere, su come tutto possa esplodere come una
polveriera al minimo cambiamento e all’incontro tra due concezioni del potere
che si trovano a insistere in pochi chilometri quadri. L’epilogo ci mostra il Moro che va a sistemare un conto
corrente bancario con la moglie Giustina, qualche settimana dopo la tragedia. Muore dentro la propria auto, mentre si appresta a metterla in moto, nel frangente in cui la moglie rientra in banca a recuperare il
foulard lasciato sulla sedia. Sono a Paradiso, nel Canton Ticino. A chi leggerà questo libro resta anche la possibilità di decidere se ogni
riferimento alla polisemia dei toponimi sia in questo caso puramente casuale.
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