Pronunciato per la prima volta nel novembre del 1914, a poche settimane dallo scoppio della Prima guerra mondiale, In questa grande epoca appare oggi come un testo di svolta di Karl Kraus, incastrato com'è tra due silenzi, il primo che seguiva la febbrile attività per quel raro (e pressoché unico) esempio di rivista davvero militante e esposta che fu "Fackel" e un secondo silenzio che prelude alla stesura e apparizione nel 1922 della sua opera più nota, Gli ultimi giorni dell'umanità. Il testo del discorso, ricco di quei giochi di parole che erano essenziali nella vita di uno scrittore così attento alle manifestazioni della lingua - e lo stesso titolo del discorso riprende l'epiteto "grande" con cui si era soliti riferirsi all'epoca in quegli anni - è proposto per la prima volta in italiano per la cura e traduzione di Irene Fantappiè all'interno della collana "Gli Anemoni" di Marsilio (testo tedesco a fronte, pp. 104, euro 12), una serie di opere curata da Annalisa Cosentino e Luigi Reitani. La modernità e grande tenuta di questo discorso si può leggere lungo direzioni plurime. È una voce pacifista in un contesto dove molti intellettuali, tra cui Thomas Mann, Robert Musil e Hugo von Hofmannsthal, si dedicavano a difendere le ragioni della guerra, in compagnia di altre voci che rivangavano posizioni neoromantiche per avallare la necessità del conflitto, rifugiandosi "nella frase fatta" con la quale qualsiasi giornalista può tradurre l'indicibile dell'apocalisse che sta imperversando. Inoltre, come evidenzia la curatrice nell'introduzione, la sua diventa una postura "esposta" a costo di passare per il carnefice in un'epoca contraddistinta dal paradigma vittimistico o, peggio, dal paradigma (ignavo?) di chi non sa prendere posizione e assiste in un modo assurdo, tra l'allucinato, l'impotente e il blaterante, agli eventi. Infine, lo scritto di Kraus costituisce soprattutto un affilatissimo, inedito attacco al mondo dei mezzi di comunicazione. Si situa proprio a questa altezza la bruciante necessità di questo discorso con cui Kraus torna a riprendere la parola, ad uscire da un silenzio, prima di sprofondare in un altro silenzio. Per la prima volta in queste pagine si porta a galla l'impoverimento di immaginario del quale i mezzi di comunicazione sono stati i principali responsabili, un inaridimento e desertificazione che, uniti a una capacità mai vista prima di fiaccare le sinapsi del pensiero, sono responsabili del carnaio che si inizia a intravedere proprio in quelle settimane nei chilometri di trincee d'Europa. In un punto si legge che questi mezzi di comunicazione
esagerano le condizioni del mondo dopo averle prodotte. Sarebbe già abbastanza terribile se la stampa fosse solo l’espressione di tali condizioni. Ma ne è la causa. Ha inventato e alimentato lo sterile passatempo dei "conflitti di nazionalità" per far prosperare inosservata gli affari del suo turpe intelletto; raggiunti i propri fini, si sbarazza del suo patriottismo in cambio di futuri guadagni.Kraus colpisce e demolisce a parole quel mondo "giornalistico" che egli stesso, con tutt'altre prerogative, alimenta dalle pagine di "Fackel", la rivista da lui fondata, diretta e per buona parte alimentata in modo solitario, in un fecondo cortocircuito del giornalismo dell'epoca. Nella parte introduttiva del volume, che prevede anche qualche necessario appunto sulle sempre ardue traduzioni da Kraus, Fantappiè puntella così il proprio ragionamento di accompagnamento all'opera:
Le frasi fatte dei giornalisti distruggono la capacità di usare la lingua come strumento dell'immaginazione e quindi del pensiero. Standardizzando il modo in cui si parla nel mondo, i mezzi di comunicazione di massa precludono ai singoli individui un accesso vero alla complessità del reale. Questo ha permesso lo scatenarsi della guerra: l'umanità, ottusa dai refrain vuoti della stampa, non ha saputo immaginarla prima che accadesse; se l'avesse potuta immaginare, la guerra non sarebbe accaduta.
È il 19 novembre 1914 quando In dieser großen Zeit è pronunciato al Wiener Konzerthaus. È doveroso riportare qualche passaggio del discorso per continuare a dare la temperatura di pensiero-scrittura di Kraus:
Il progresso vive per mangiare, e a volte dimostra addirittura di poter morire per mangiare. Sopporta ogni pena al fine di essere felice. Volge il pathos verso le premesse. L’estrema affermazione del progresso ha decretato ormai da tempo che la domanda si regoli sull’offerta, che si mangi perché sia un altro a diventare sazio, e che il venditore ambulante interrompa persino i nostri pensieri offrendoci cose di cui non abbiamo alcun bisogno. Il progresso, sotto i cui piedi l’erba si mette a lutto e il bosco diventa carta da cui crescono fogli di giornale, ha subordinato la vita ai viveri, trasformando noi stessi nelle viti di ricambio dei nostri utensili. Il dente dell’epoca è cavo; poiché quando era sano giunse la mano che vive di otturazioni. Là dove si è spesa ogni forza per togliere ogni asperità alla vita, non rimane nulla che ancora necessiti di essere protetto. In quei luoghi l’individualità può vivere, ma non può più nascere. Potrà forse, coi suoi desideri nevrotici, far comparsa come ospite in zone dove, nel comfort e nella prosperità, circolano avanti e indietro automi privi di volto e di saluto.
Questo breve scritto finalmente proposto in italiano è una porta d'accesso per una lettura inedita e sconcertante di quel primo conflitto mondiale, così come poi sarà anche Gli ultimi giorni dell'umanità. Ma va appunto rilevata ancora una volta la datazione precoce di questo discorso rispetto all'inesauribile "tragedia" krausiana del 1922. La sua portata tracima e va ben oltre, dentro e fuori il secolo, arrivando a toccare delle invarianti di queste epoche, fino a sfiorare questi giorni che ci vedono indaffarati con drammi non dissimili. L'antinicciano Kraus ha fatto confluire in questa manciata di pagine un distillato del suo pensiero sulla contemporaneità, utile per leggere sia gli anni antecedenti al conflitto, la guerra stessa, la crisi economica, politica e morale tra le due guerre e infine il "mondo della comunicazione", così come siamo soliti chiamarlo anche da prima dell'avvento di Internet. Il suo prendere parola avviene affinché si eviti che il tacere possa essere travisato. "Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia!" scrive ad un certo punto. (Per chi volesse approfondire, andando a saggiare ulteriormente lingua e pensiero krausiani, il quotidiano "la Repubblica" ha pubblicato un ampio estratto che si può leggere anche qui.)
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