mercoledì 11 aprile 2012

I primi studi italiani di Otto Pächt: la scoperta della natura

Le nuove generazioni di studiosi di storia dell'arte dovrebbero trovare una corsia preferenziale verso lo stupore. Lo stupore è forse l'ingrediente di base di qualsiasi grande scoperta o studio. Pensavo a questo ammirando la pubblicazione dei primi studi italiani di Otto Pächt, La scoperta della natura (Einaudi, pp. LVIII - 108, euro 24, con contributi di Enrico Castelnuovo e Jonathan J. G. Alexander, a cura di Fabrizio Crivello). 

Avevo intercettato Pächt principalmente per quella grande monografia, un libro di base, sulla miniatura medievale, uscita da Bollati Boringhieri. Quello era un libro davvero meraviglioso, che solo dallo stupore poteva sorgere. Ma Otto Pächt non è soltanto miniatura, ed è curioso constatare che lui stesso fosse molto preoccupato di un legame troppo forte tra il suo nome e la storia della miniatura. E allora sono fondamentali questi studi ("Raffigurazioni di animali", "Illustrazioni di erbari" e "I primi paesaggi del calendario") per introdurci a quell'evento epocale che fu la comparsa della pittura di paesaggio come genere indipendente.  Solo con lo stupore allora s'innesta la fecondità nello studio, come di fronte ai dipinti della Torre dell'Aquila nel Castello del Buonconsiglio di Trento, dove la raffigurazione della natura, del mutare delle stagioni, fa una comparsa che oggi potremmo persino definire irruenta nella storia dell'arte: contadini, alberi, piante, fiori, attrezzi, animali dipinti con quell'indole esplorativa che si può ammirare anche nel Codice Cocharelli, il manoscritto genovese ricordato da Castelnuovo nel suo scritto, dove l'osservazione ravvicinata di insetti, conchiglie, crostacei, farfalle, falene bruchi e scarabei segna la sua enigmatica epifania. Il tutto va naturalmente rapportato all'immaginario simbolico dell'uomo medievale e al coefficiente di rottura di questo atteggiamento pittorico (ma soprattutto mentale), che sicuramente aveva in nuce le future fondamentali maturazioni dell'osservazione dell'ambiente fisico.

Il libro è quindi una piccola grande meraviglia, per gli occhi e per l'avventura del pensiero che scorre a ritroso nei secoli. C'è un aspetto che trovo interessante sottolineare. Il titolo originale è in inglese: Early Italian Nature Studies and the Early Calendar Landscape. Perché? Sappiamo che Pächt fu esponente della "seconda scuola di Vienna", quindi studioso di lingua tedesca. Naturalmente c'è di mezzo lo squasso della seconda guerra mondiale, l'emigrazione, compresa quella intellettuale di lingua tedesca che fecondò con i propri esodi università e centri di ricerca di tutto il mondo. Diventa allora opportuno ricordare il passo di Carl Nordenfalk riportato da Castelnuovo nel brano introduttivo:

Il nazismo e la seconda guerra mondiale da esso provocata furono certo tra le più grandi catastrofi dell'umanità, ma ebbero anche una conseguenza inaspettata. Per Pächt come altri grandi studiosi di lingua tedesca fu l'obbligo di misurarsi con l'inglese. L'abituale modo di scrivere e di creare espressioni come Auseinanderhervorgegangensein o simili parole composte - tanto ricche di significati che bisognava leggerle due volte per capirle - semplicemente non potevano essere tradotte in inglese.

Per noi italiani questo libro costituisce l'ennesimo stimolo a ripensare cos'è stato il suolo che ci tiene assieme, la sua arte, le evoluzioni del pensiero che ha ospitato nel transito all'epoca post-medievale, pur nelle sue vicende alterne di suolo di conquista e spartizione, attraverso molti secoli. Sono discorsi fatti e rifatti, forse lessi ormai. Ma davvero non sembra un'esagerazione pensare che una fetta consistente di Pil potrebbe oggi essere costruita attorno alla miniera d'oro sulla quale siamo seduti, spesso volgarmente sdraiati, ruzzolando a volte a pancia in su come dei porci sugli escrementi che noi abbiamo prodotto, dimenticando, speculando o banalmente ignorando.

1 commento:

  1. Complimenti per il finale della recensione che ci sta. Ci sta proprio. Andrea

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