mercoledì 29 agosto 2012

Quale filosofia per lo haiku? "Sul vento che scorre" di Kuki Shūzō

“[...] la tenuità di germoglio dello haiku presenta come suo clou [....] un non-luogo, un vago mancamento, un sussulto dolcemente ritualizzato, il non-rumore del senso che si affaccia dentro il nonsenso della natura quasi a volerlo preservare, perché la natura deve ‘abitare’ in esso per restare madre di tutti i sensi”. Così Andrea Zanzotto, e per rispondere alla domanda del titolo potrebbe anche bastare.

Haiku. Più o meno abbiamo un'idea di che cosa sia. Il dizionario Sabatini-Coletti lo definisce "Breve componimento a carattere lirico, composto da 17 sillabe disposte in tre gruppi rispettivamente di 5, 7 e 5, tipico della tradizione poetica giapponese". Dici "haiku" e sei portato a brevità, Giappone, natura, Zen. Quale filosofia è sottesa dunque a questa forma di poesia che pone, come potete immaginare, numerosissimi problemi di traduzione e interpretazione?

A questo interrogativo cerca di rispondere Sul vento che scorre, studio del 1937 di Kuki Shūzō ora pubblicato da Il Nuovo Melangolo (pp. 66, euro 13, traduzione di Lorenzo Marinucci). L'autore è già noto al pubblico italiano per La struttura dell'iki (Adelphi, 1992), quello stesso iki che è motivo della considerazione da parte di Heidegger, filosofo che assieme a Bergson e Sartre fu una delle sue frequentazioni negli anni Venti, quando trascorse molto tempo in Europa. Se in quello studio più articolato il lettore faceva la conoscenza del concetto di iki, di quell'ideale che sa di rigore etico-estetico, seduzione, energia, rinuncia (persino di geisha) e che doveva pure avvicinare ad una migliore comprensione della lunga tradizione dell'essere occidentale, con questo brevissimo contributo ci addentriamo nelle vertigini versificatorie della forma breve dello haiku.

Il titolo, stavolta, dice già molto. "Sul vento che scorre" che cosa significa? Significa già il fluire di qualcosa mai uguale a se stesso che distilla in una metrica e poetica che diventa occhio, organismo del mondo, di un mondo che prodigiosamente rimane in sé pur transitando per la parola e attraverso l'uomo e il poeta (haijin).

Nella nota introduttiva a quel fortunato libro intitolato Cento haiku Zanzotto scrisse che queste sillabe "Sono spiragli da cui filtra qualcosa di accecante e insieme di carezzevole, sono cuspidi elastiche di qualcosa che deve restare sommerso, per noi (e forse per tutti), ma che pure sentiamo necessariamente nostro." Come non dargli ragione? E Zanzotto scrisse haiku a sua volta, non soltanto sparsi e riconoscibili in libri come Meteo, ma appositamente, in inglese, quasi trent'anni fa. Ora il libro bilingue risultante, Haiku for a Season / Haiku per una stagione, sta per essere pubblicato dalla University of Chicago Press, come potete apprendere anche qui. La pubblicazione diventa così un piccolo evento a quasi un anno dalla morte del poeta, un libro breve che si accompagna all'interesse sempre vivo per il vento che scorre, per i kigo delle stagioni, per questa poesia di silenzio inspirato e espirato. Poesia di spiragli e cuspidi elastiche, l'ha scritto così bene Zanzotto. Lasciamo le sue parole, le sue fantasie di avvicinamento che ci restituiscono anche il "valore di una sensazione carica di intuizioni, di un percepire illuminante per fini contrasti cromatici e logici [...], coniugati come in una siringa il più spesso a tre cannucce, che un fiato di vita sembra voler percorrere una sola volta, e che ogni volta, nelle sue possibilità di variazione, prepara il terreno a una combinatoria sfuggente, 'tangenziale', di sorprese e di contenuti fremiti".

lunedì 27 agosto 2012

"Camera straniera" di Marco Belpoliti ovvero Alberto Giacometti e lo spazio

Alberto Giacometti si nutriva di una vera e propria ossessione per lo spazio. Chissà se "ossessione" è la parola giusta. Esiste la sua arte però, a parlarci di questo. In realtà l'arte, nel suo misurarsi nello spazio e con lo spazio, non può fare a meno di essere continuamente rapita e interrogata da quest'ultimo. Se parliamo poi di un pittore-scultore, com'è il caso del grande artista vissuto tra Rue Hippolyte-Maindron a Parigi e il villaggio natio di Borgonovo di Stampa, in quella vallata della Val Bregaglia sempre in ombra e così ben descritta da Belpoliti, il problema spaziale non può che acutizzarsi ad ogni opera. Di questo e di molte altre suggestioni ci parla l'agile libretto Camera straniera. Alberto Giacometti e lo spazio (Johan&Levi, pp. 59, euro 8,90) che Belpoliti ha scritto sulla scia di una lunga dedizione all'opera di Giacometti, sin da un'indimenticabile monografia della rivista "Riga" a lui dedicata.

Giacometti è tante cose, lo sappiamo. Le sue quotazioni stratosferiche, le sue amicizie (Genet, Sartre, Beckett, Dalì o Breton), i suoi ritratti fotografici consegnati dai polpastrelli di Man Ray o Cartier-Bresson, insomma è anche il mito forse un po' incrostato della sua vita. I semiotici parlarebbero forse del testo-Giacometti. Si tratta di un artista a volte preso per la giacchetta, purtroppo. Quante cose pseudoesistenzialiste abbiamo letto sul senso nascosto di quella statua, Homme qui marche, che rappresenta la sua quotazione più alta e, forse, l'icona della sua arte? Giacometti rimane un grande artista, sciolto, assoluto, e il libretto di Belpoliti mi pare sia un buon passo per iniziare (o consolidare) una nuova stagione critica che lo riguardi e lo rilegga (e lo rilegga pure nel senso letterale, in quegli scritti e conversazioni che ci ha consegnato e che non andrebbero dimenticati). Un Giacometti insomma più sulla scia di un suo illustre e precoce scopritore, quel Michel Leiris che oggi ridiventa fulcro importante delle nuove leve della critica, da dove indebolire o perlomeno relativizzare progressivamente le letture ora troppo esistenzialiste, ora troppo surrealiste, ora troppo primitiviste (qui entra in ballo la grande critica americana Rosalind Krauss, che resta importante su Giacometti come in altre sue avventure critiche) e riconsegnare l'artista svizzero al seme primordiale di qualsiasi arte: lo spazio. Meglio quindi rileggersi anche un saggio fondamentale di Didi-Huberman, Il cubo e il volto. A proposito di una scultura di Alberto Giacometti o alcune cose di Bonnefoy per riguagnare una più giusta percezione della sua opera. Oppure partire proprio da questo libro breve di Belpoliti, che sa dialogare rispettosamente con la complessità della sua arte, mai risolta, proprio perché mai risolto è il problema dello spazio. Assieme a questo, anche il problema della visione e del rapporto figura-spazio è stato da Giacometti approfondito e sofferto. Le sue figure, siano su carta o sculture, appaiono e spariscono in ugual misura, si ingrandiscono e rimpiccioliscono, in una dimensione che pare a stretto contatto con un'imago mortis sempre presente, pressante. Non si tratta soltanto di una "normale" vanitas così connaturata ad ogni natura morta e così originalmente perlustrata nelle nature morte con mela e con mele analizzate e confrontate anche da Belpoliti all'inizio di questo saggio. Credo non si tratti, come già suggerito, di quella lettura esistenzialista, surrealista o primitivista che illumina, di volta in volta, solo parzialmente, alcuni lati dello spazio creato dalla semplice presenza delle sue opere. Lo spazio che unisce e separa si ritrova in tutta la sua arte, come nella similitudine dell'asciugamano posato alla sedia: "Aveva il suo posto, il proprio peso e persino il proprio silenzio". Scrive Belpoliti: "Aver posto significa aver spazio, essere intangibile. La distanza è l'esperienza dell'intangibile, di ciò che resta sospeso, come quell'asciugamano. Senza peso? Nello spazio assoluto è il mondo a non aver peso".  E così, anche nell'icona della sua arte, quell'uomo che cammina del 1960, titolo ossimoro per una scultura, Giacometti irrompe con la sua ossessione spaziale, al di là di tutti i sani ragionamenti che possiamo fare sulla solitudine di quell'uomo, su quelle lunghe gambe affusolate come dita, sul non-finito, sul fallimento. Qualcuno mai ha guardato all'inclinazione del suo busto? Qualcuno mai si è chiesto dove guardino i suoi occhi? Qualcuno ha mai visto le sue dita non affusolate puntare allo spazio che fa apparire e scomparire con il suo passo, con i suoi piedi equamente inculcati tra vita e morte, peso e leggerezza, anima e materia? Tutte questioni di spazio, di tangibilità e intangibilità, di divisibilità, ancora da affrontare.

domenica 19 agosto 2012

"Le stelle. Credenza e interpretazione". Il piccolo e denso saggio di Franz Boll e Carl Bezold

Chi non ha provato meraviglia di fronte a quelle convenzioni durature e stabili che sono le costellazioni? Eppure le stelle si muovono, con le galassie, a velocità per noi inimmaginabili, mantenendo però quelle configurazioni geometriche alle quali, da tanti secoli, è stato dato un nome.

Se vi ritrovate in questa breve introduzione, il libro di cui scrivo, Le stelle. Credenza e interpretazione (Bollati Boringhieri, pp. 122, euro 19) fa per voi. Ha già qualche mese, ma non sempre le cose e i libri si scoprono con l'adesivo "novità" appiccicato sopra. Questo vale per me. Per fortuna, aggiungerei. Ed è un libro che potrà servire per offrirvi il giusto trasporto attraverso ciò che è sparso sul firmamento, le stelle appunto, e attraverso il tema dell'astrologia che sta risalendo la china dell'attenzione proprio nel frangente storico in cui la scienza con le sue scoperte avrebbe potuto infliggergli il colpo definitivo. 

Chi sono gli autori? Franz Bold fu filologo classico e autore, già nel 1905, di un testo di riferimento intitolato Sphaera, dove tentò una grandiosa ricostruzione della mappa del cielo antico. Il secondo, Carl Bezold, è noto per la sua grande e approfondita conoscenza del mondo assiro e semitico. Entrambi furono convocati dal quel grande animatore di Aby Warburg nel 1913 per un ciclo di conferenze. Parlare di un tema come l’astrologia e farlo in modo attendibile e innovativo in quegli anni non era cosa facile. Dovremmo partire da questa semplice constatazione. Oggi l’astrologia e la sua storia si prestano a continue banalizzazioni, anche se da più parti (anche nel mondo editoriale, fortunatamente) si capta una volontà di restituire a questo grande e portante tema tutta la sua dignità.

La storia dell’astrologia rappresenta il punto di convergenza di più storie e più linee di luce, è essa stessa un fascio luminoso. Dal mondo assiro-babilonese transita per i miti della grecità e si interseca con le ripetute e nuove scoperte dell’astronomia, alle quali appunto resiste. L'astronomia insomma non uccide l'astrologia. Anzi. Leggendo questo libro verrebbe da pensare a quelli che credevano che la fotografia avrebbe "ucciso" la pittura. Il percorso dell'astrologia resta affascinante e risponde a un richiamo pressoché universale che riguarda il nostro stare nel cosmo, il nominare le cose, nell'enigma di una proporzione matematica irrisolvibile perché troppo spesso a due incognite, con un medio e un estremo ignoti e con un grande senso di vuoto davanti a quel segno di uguale che, nelle proporzioni matematiche, si legge "come". A volte si potrebbe provare a leggere così la storia dell'astrologia, come una proporzione sospesa nella (presunta?) solitudine dell'uomo nel cosmo. Se ci soffermiamo poi sulla figura che rese possibile questo libro, pubblicato quattro anni dopo quelle conferenze, nel 1917, scopriamo che la ricostruzione della storia dell’astrologia si intreccia fittamente con le eccezionali capacità dimostrate da Warburg nella sua rilettura “olistica” del Rinascimento. E quindi un lavoro del genere, nato da un semplice invito a una conferenza, diventa basilare per la comprensione piena di tante opere rinascimentali. A ribadire questo e altri concetti importanti troverete l'ottima prefazione di un ricercatore di grande valore come Maurizio Ghelardi.

martedì 14 agosto 2012

da "Questo muro" di Franco Fortini

Una poesia da #9

La raccolta di Franco Fortini Questo muro esce nel 1973. Per chi volesse in rete è disponibile un'interessante analisi di uno studioso di prim'ordine come Pier Vincenzo Mengaldo (trovate tutto qui). Si tratta di una raccolta delle poesie scritte in larga parte negli anni Sessanta, nei febbrili anni Sessanta fortiniani. Già dal 1974, negli Oscar Mondadori, è disponibile, proprio a cura di Mengaldo, un'antologia delle poesie a partire da Foglio di via e che comprende anche Questo muro, uscito appena un anno prima. Anche da questa semplice collocazione temporale ed editoriale si evince l'importanza del libro nel percorso poetico di Franco Fortini: Questo muro rimane tra i più importanti lasciti di Fortini. Raccolta della "piena maturità" la definisce Mengaldo, "forse la sua più alta". Interessante, proprio in avvio del saggio indicato sopra, la nota sul movimento, opposto e contrario a quello normale e consueto per Fortini di immersione nel presente, "cioè un distacco verso un linguaggio in cifra che tanto più si rende necessario tanto più il presente punge". 

Come sempre difficile scegliere un testo tra gli altri. Ho optato per una poesia dal titolo forte, Gli alberi. Mi sembrava potesse essere una scelta abbastanza buona per questo poeta che, sempre Mengaldo, definisce "dell'allegoria e della parabola".













GLI ALBERI


Gli alberi sembrano identici
che vedo dalla finestra.
Ma non è vero. Uno grandissimo
si spezzò e ora non ricordiamo
più che grande parete verde era.
Altri hanno un male.
La terra non respira abbastanza.
Le siepi fanno appena in tempo
a metter fuori foglie nuove
che agosto le strozza di polvere
e ottobre di fumo.
La storia del giardino e della città
non interessa. Non abbiamo tempo
per disegnare le foglie e gli insetti
o sedere alla luce candida
lunghe ore a lavorare.
Gli alberi sembrano identici,
la specie pare fedele.
E sono invece portati via
molto lontano. Nemmeno un grido,
nemmeno un sibilo ne arriva.
Non è il caso di disperarsene,
figlia mia, ma di saperlo
mentre insieme guardiamo gli alberi
e tu impari chi è tuo padre.

sabato 11 agosto 2012

Filologia della letteratura mondiale secondo Erich Auerbach

Ripescaggi #14














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Questo ripescaggio risale ancora una volta alla rivista "daemon". Si tratta della recensione a un testo breve (Book Editore, pp. 80, euro 11) del grande filologo tedesco Erich Auerbach. L'autore del fondamentale Mimesis fu un altro rappresentante di quella migrazione tedesca che dopo l'avvento del Nazismo fecondò atenei di tutto il mondo, soprattutto negli Stati Uniti, nazione dove anche Auerbach finì, dopo una parentesi in Turchia. Piccola divagazione: visto che di questa migrazione abbiamo già parlato, ricordo il contributo dato da Mariuccia Salvati all'argomento con il suo Da Berlino a New York. Quel libro era particolarmente sbilanciato sugli scienziati sociali, ma per impostazione ed esiti di ricerca rimane ancor oggi fondamentale.
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Questa pubblicazione di Auerbach (Berlino 1892 - Wallingford 1957), che inaugura una nuova e promettente collana dell’editore Book (sono previsti, tra gli altri, testi di Albrecht Dürer e di Ludwig Feuerbach), è già un piccolo evento editoriale. Vi troviamo, infatti, la prima traduzione italiana in volume del saggio Philologie der Weltliteratur del 1952. In queste poche pagine (il libro è corredato del testo originale a fronte, tradotto in italiano da Regina Engelmann), l’autore di Mimesis e degli Studi su Dante si cimenta con l’ingombrante nozione goethiana di Weltliteratur, della quale si proclama egli stesso filologo. La finezza dell’Auerbach comparatista è qui tutta distillata in quello che possiamo considerare il suo testamento intellettuale (lo scritto precede di cinque anni la morte).

Passaggio chiave del ragionamento di Auerbach è la subordinazione-dipendenza della Weltliteratur alla nozione di “storia mondiale”. Sarebbe difficile comprendere la portata di questa affermazione senza gettare almeno uno sguardo sommario al contesto storico nel quale è stata scritta. Il secondo conflitto mondiale aveva irreversibilmente aperto uno scenario globale di confronto. Le storie nazionali e le storie letterarie dovevano iniziare a confrontarsi in un contesto allargato e, almeno in parte, integrato, nel quale la filologia si candidava a pieno titolo come disciplina ermeneutica privilegiata, per quelle qualità che sin dal Rinascimento e Umanesimo ha sempre dimostrato (profondità interpretativa, concretezza, capacità di generare nuovi sensi).

Oggi è difficile stimare quanto sia passato del messaggio di Auerbach. Questo scritto aveva tutte le carte in regola per fondare un vero e proprio progetto di ricerca. Forse lo strapotere dello strutturalismo che ha spesso ‘colonizzato’ intere tradizioni di studio, forse la difficoltà di immaginare un percorso di ricerca così ambizioso, la realtà è che le parole di Auerbach cercano oggi un vento che le trasporti e le semini in nuove ricettive intelligenze.

martedì 7 agosto 2012

Il mistero di Marilyn Monroe a cinquant'anni dalla morte. Il brevissimo libro di Mario Andrea Rigoni

Cercherò di evitare il cattivissimo gusto della recensione più lunga del libro, o comunque spoporzionata, perché con Marilyn Monroe di Mario Andrea Rigoni (La Scuola di Pitagora editrice, pp. 16, euro 2) siamo ai limiti del concetto libro, proprio a causa di quella brevità che in questo blog è assunta a incipit, nome, spunto. Eppure, pur nella brevità, sono molte le acque mosse da queste poche pagine, ospitate dentro una collana, Feuilles détachées, che rappresenta una colonna importante del catalogo di questo interessantissimo editore napoletano. Mezzo secolo è trascorso dalla morte di Marilyn Monroe, avvenuta a 36 anni nell'agosto del 1962. La copertina del libretto ritrae Marilyn alle prese con la lettura di un libro. In fin dei conti, è proprio di lettura che qui si parla. Non è certo compito nostro ribadire la grande intelligenza e sensibilità della poliedrica artista californiana, alimentarne il mito, un mito che come tutti i miti è contenitore di pulsioni collettive le più disparate. Colpisce, nel breve ritratto dello scrittore di Asiago, in passato sovente a suo agio tra Cioran e Leopardi, l'apertura alle letture di Marilyn Monroe e la capacità di agire in quegli spazi lasciati liberi dalla vulgata ufficiale: ad esempio la lettrice di Hilda Doolittle, Marianne Moore o Elizabeth Bishop, cioè del lascito più importante della poesia americana del secolo scorso (e presto accurata attenzione a non scrivere "poesia femminile americana del secolo scorso").

In questa manciata di pagine possiamo avvicinare il mito di Marilyn silenziosamente, nell'incedere sicuro e talvolta un po' apodittico di un breve scritto. Il 5 agosto del 1962 l'attrice-mito si spegneva in circostanze ancora misteriose. In questi tempi, in questo stesso agosto, si stanno rincorrendo mostre e pubblicazioni importanti e "di grido", come il volume di Contrasto Marilyn & Magnum. Ben vengano però illuminazioni nuove, come questa, dove, lontanissima dagli stilemi che potrebbero ricondurre a un novello Roland Barthes alle prese con l'ennesimo mito d'oggi, viene restituita l'integrità del mito-corpo di Marilyn. Mito fatto anche di lettura, di letture, di corpo di testi. Allora diventa quasi un'inspospettabile promozione alla lettura questo libretto da posizionare vicino ai registratori di cassa come un fast moving good di cioccolato, con quella copertina così diretta, a ritrarre l'attrice assorta nell'atto di leggere. Rigoni non crea un contro-mito della diva accennando alle sue passioni cartacee e segrete per Joyce o Rilke o per le poetesse già citate sopra. Lo scrittore vicentino prova piuttosto a scrostare un'icona troppo spesso sacrificata sull'altare squallido delle semplificazioni. In breve, mi sembra un tentativo valido e riuscito. E pensare che un maestro delle icone e delle semplificazioni come Andy Warhol aveva ritratto Marilyn di così tanti colori... perché non ci aveva pensato nessun altro, prima di Rigoni, a tratteggiare la Monroe così? E poi, strano davvero: Rigoni, da Leopardi a Marilyn. Dà quasi da pensare...