Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #3
Ques'estate, verso fine luglio, ci ha raggiunto la notizia della morte di Agota Kristóf. La scrittrice ungherese migrata a Neuchâtel, in Svizzera, dopo i fatti d'Ungheria del 1956, costituisce uno dei più interessanti casi di scrittori che hanno scritto in una lingua diversa dalla propria (sono tutti casi di notevole interesse), in una sorta di esilio linguistico, dopo aver deciso di abitare - riprendendo e riadattando Heidegger - un'altra lingua. Al di là di questo, è una scrittrice che difficilmente lascia in pace il lettore, nel senso che lo insegue anche a distanza. In italiano possiamo leggere i titoli più noti come Trilogia della città di K., Ieri, un suo breve romanzo dal quale è stato tratto anche il film Brucio nel vento di Silvio Soldini. Ma non è tanto di questo che vorrei parlarvi, bensì di un ancora più breve libro uscito con il titolo de La vendetta.
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Maurizia Balmelli, traduttrice de La vendetta, ci ricorda in un articolo uscito su La nota del traduttore, il bel sito di Dori Agrosì dedicato alla traduzione letteraria:
"Il rigore di Agota Kristof [...] va ben oltre l'esigenza estetica. È un rigore che nasce dalla tormentata e appassionata relazione della scrittrice con il francese - sua lingua d'adozione che, come lei stessa afferma, non ha ancora finito di imparare. Un rigore che è consapevolezza dei propri limiti e al tempo stesso rivendicazione di una sensibilità linguistica molto peculiare. Un rigore che, coniugato al talento, permette all'autrice di mantenersi in equilibrio tra una lingua impeccabile e sottilissime distorsioni della stessa, scarti minimi, espressioni idiomatiche lievemente forzate, giri di frase inconsulti eppure armonici, puntuali incoerenze nell'uso dei tempi verbali."
Il titolo originale è C'est égal. Una traduzione letterale del titolo sarebbe forse stata preferibile, o forse anche "Vendetta", senza l'articolo, poteva essere più giusto. Avrebbe reso meglio quel senso d'assurdo che invade queste venticinque prose. Sono schegge plumbee e legnose, prose radunate negli anni dell'esilio, dopo il 1956 quindi e in larga parte negli anni Settanta. Se vi capiterà di leggerle, o se magari vi è già capitato, probabilmente sareste d'accordo nel dire che non se ne esce indifferenti. Ora, è vero che ogni lettura importante non lascia mai indifferenti, ma qui parlo di una sorta di sconcerto psicofisico che potrebbe causarvi la lettura de La vendetta. L'abbraccio frontale della realtà, delle solitudini, dell'isolamento, di una certa follia che può albergare nella vita coniugale, di una semplicità della vita che si trasforma in angoscia.
Venticinque momenti di una grande scrittrice che balzellano tra autoironia, grottesco, macabro e lo sfioramento del nonsense. Parabole rapide d'esistenza che precipitano come meteore dentro il nostro quotidiano, schegge che si conficcano dolorose sulla pelle procurando un dolore che dev'essere quello dell'esilio. A me hanno fatto tornare in mente le Cartoline dai morti di Franco Arminio, il bellissimo libro con cui ho iniziato a scrivere in queste pagine.
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