venerdì 6 marzo 2015

"Stanze di confine" di Emilio Rentocchini

Nel 2014 la casa editrice modenese Il Fiorino ha proposto il nuovo libro di poesia di Emilio Rentocchini (e ringrazio anche da qui Azzurra D'Agostino per la segnalazione, poiché non mi ero proprio accorto di quest'uscita). Il titolo è Stanze di confine (pp. 96, con una nota di Paolo Donini, prezzo invitante di euro 7) e nel caso di un poeta che ha consacrato all'ottava il proprio versificare verrebbe quasi da pensare a un'accezione metapoetica della parola "stanza", ovvero come a una porzione di un poema più grande, oppure a strofa, parte, gruppo di versi. A ben vedere le ottave di Rentocchini sono anche questo, parte di un lungo poema (ontologicamente un sabiano canzoniere?) che gemma sicuramente da una vita, nonostante un esordio che per le abitudini attuali potremmo definire "tardivo" (ma siano benedetti anche gli esordi tardivi in un tempo dove le generazioni dei "nati negli anni X o Y" sono trattate come pezzi di macelleria per poter vendere meglio il quarto pregiato e anche lo scarto). Per raccogliere un'impressione unitaria e forte della sua produzione ci auguriamo di veder raccolte prima o poi in un corpo unico tutte le ottave. L'ottava è uno schema metrico, visivo e finanche gnoseologico a cui Rentocchini ha prestato una lunghissima fedeltà, tanto che il libro verdolino di Garzanti del 2001 si intitolava semplicemente Ottave (e prima ancora c'era stato Otèvi), uno schema"tradito" nel caso del libro Del perfetto amore uscito per Donzelli nel 2008 (ma lì erano sonetti ed erano in italiano) e prima ancora c'erano stati i calibrati intervalli di ottave e prose di Giorni in prova (sempre Donzelli, 2005).

Che Rentocchini sia un grande poeta, uno dei più affascinanti da percorrere, è qualcosa che persone preparate hanno sostenuto con vigore in modo convincente. Che poi il suo libro esca con una casa editrice non molto nota nello stivale nazionale non deve impensierire nessuno, anzi forse dovrebbe rallegrarci viste le condizioni di trascuratezza in cui gravano le collane di poesia rimaste, quelle che hanno la cosiddetta heritage dalla loro parte (non gliel'ha ordinato il dottore di "tirare avanti", come l'impostazione di base che denunciano spesso lascia pensare). Affronto tangenzialmente simili discorsi perché a volte il problema della circolazione/distribuzione è un falso problema: Stanze di confine ad esempio si trova, si può comprare e ordinare in più modi ed è un oggetto-libro molto più bello di altri suoi simili che escono per certe collane che sopravvivono del riflesso del loro blasone, adoperano carte pessime e tengono altro il prezzo ("tanto il prezzo non conta in poesia", dicono i direttori, dimostrandosi così dei pessimi venditori poiché che il prezzo conta assieme ad altre variabili). 

La sorpresa di ogni ottava non è naturalmente solo un fattore di lingua. Di certo molto si alimenta a partire da quel dialetto sassolese che da decenni lo accompagna e pure nello schema rimico ABABABCC, un'incastonatura che a volte scocca come quel tremore procurato da un orologio a cucù non avvistato e che fruttuosamente tiene in scacco il lettore. La sua poesia regge e sorregge benissimo il lettore tanto in dialetto (per chi riesce ad avvicinarlo) quanto nelle varianti in italiano, tanto che procedendo nella partitura di quest'opera non di rado mi sono tornati in mente certi dibattiti, forse soltanto sopiti per ora, su poesia dialettale e autotraduzione, le punte di una discussione che partendo da Pasolini ha stimolato Gian Mario Villalta, Gianni D'Elia, Fabio Zinelli e un altro grande e affascinante neodialettale dell'area emiliano-romagnola, Giovanni Nadiani (Rentocchini fra l'altro aveva esordito all'inizio dei Novanta sulla rivista "Lengua" dei vari D'Elia, Migliori, Lolini, Roversi ecc.). Prendiamo ad esempio questa ottava, operando un piccolo carotaggio dal libro in questione:

51

In l’ànma di narcìs a gh’è al bèl gèst,
na mort come rinuncia e la spervèrsa
nostalgia ‘d sè riflèsa in al sô incèst:
l’ešélli a se sta sòuvra, al s’atravèrsa
e s’as trascura sèinsa dèrs al rèst,
patria dla nostra stèssa chèrna arvèrsa.
Méi i can chi péssn ai tròunch ed l’indistìnt
e i’s tósen da cunfìn. M’al sél l’è incìnt.

Nell’animo dei narcisi c’è il bel gesto,
una morte come rinuncia e la perversa
nostalgia di sé riflessa nell’incesto:
l’esilio ci sovrasta, ci attraversa
e ci trascura senza darci il resto,
patria della nostra carne rovesciata.
Meglio i cani che pisciano ai tronchi dell’indistinto
ponendosi a confine. Ma il cielo è incinto.


Stanze di confine raccoglie 80 ottave. (Sia detto per inciso della curiosa vicinanza del titolo a quello scelto da un'altra grande autrice dialettale del nostro tempo, Ida Vallerugo, che ha pubblicato Stanza di confine per Crocetti.) Rentocchini lavora a multipli non solo nei versi, ma persino nell'osservare e nel suo aderire alle superfici sguardate. Talvolta appare lontano da tutti i punti del vivente e allo stesso tempo come divorato da questi: che sia la sola e vera solitudine questa? Non lo so. So che leggendo queste ottave ci si libera catarticamente del futuro, e non perché la proiezione sia verso un passato (niente di più sbagliato sarebbe credere in questo), ma perché il futuro è assente in quanto falso, falsificato da qualsiasi nostra proiezione. Siamo un po' tutti ammalati di futuro, no? E se la vita è molto di più "al passato", come voleva Marguerite Yourcenar quando parlava dell'amore del passato e di come pensiamo a questo nel presente ("Quand on parle de l'amour du passé, il faut faire attention, c'est de l'amour de la vie qu'il s'agit ; la vie est beaucoup plus au passé qu'au présent. Le présent est un moment toujours court et cela même lorsque sa plénitude le fait paraître éternel"), le ottave di Rentocchini sbocciano da accumuli di sguardo che si colorano di inusitati e a volte persino gaiamente inconsulti riflessi. Sono strati multipli di pensiero, o di immagini ginniche rivisitate come questo camminare sulle mani che chiude l'ottava n. 42:

A dmandi ed fènd as pol rispènder sòul
con frèsi ed sfrus. Eh, piò as sfurdìga piò
l’elàstigh dla memoria al ciàpa al vòul
e as mètt in testa d’èser -guèrda un po’-
casadòur ed futùr. Ma nòt col sòul
l’è quèll ch’i stròlghen i òc in al falò
ch’as ród. L’òrba, padròuna dl’aria, l’an
gh’ha prèsia. E nuètr andèmm sul nostri man.

A domande di fondo si può rispondere solo
con frasi di frodo. Eh, più si fruga più
l’elastico della memoria prende il volo
e ci mette in testa di essere -guarda un po’-
cacciatori di futuro. Ma notte col sole
è ciò che intuiscono gli occhi dentro al falò
che ci rode. La tenebra, padrona dell’aria, non
ha fretta. E noi camminiamo sulle nostre mani.


Il sassolese sembra calcare soprattutto su un triangolo vocalico intermedio, dove - a me che non lo so e non lo parlo, ma che leggendolo un po' mi pare di sentirlo - si insiste su segmenti di "e" e "o", poi di "i" certamente, mentre la massima apertura e la massima chiusura di "a" e "u" non sono centrali nella fonazione. Il sassolese sembra anche calcare, nel senso di residuo bianco di un'acqua che scorreva dolce, nonostante una certa durezza fonetica, da Rentocchini addomesticata nelle rime, negli incisi, nel passo dei periodi e in ultima analisi nell'ottava stessa. Con questa lingua, che immagino assai diversa dal dialetto che ancora si parla in quell'area, Rentocchini compie degli affondi di pensiero piantando i piedi nella forma dell'ottava, bruciando di meditazioni sorprendenti che prendono l'ossigeno dalla superficie della materia che tratta, sia essa visiva, uditiva, tattile o persino invisibile e soltanto immaginata. Da più parti, riferite a lui, leggiamo formule come "uno dei più interessanti/importanti poeti dialettali" o "uno dei più interessanti/importanti poeti italiani tout court". Queste formule, spesso applicate anche ai giovani, mi stancano tantissimo. Le ottave di Rentocchini si possono solo leggere e meditare, ritoccare nel nostro pensiero, lasciarle precipitare nel vuoto provvisorio che creano talvolta sotto i piedi. La sua lingua-idioletto è una creatura che esplora, ed è come se la traduzione italiana delle sue poesie arrivasse da qualche parte solo perché prima c'è stata la lavorazione manuale del dialetto. E mi congedo con la terzultima ottava di Stanze di confine e con un video dove Rentocchini legge l'ottava n. 5 di questo libro: è bene ascoltare un'ottava e una traduzione.

Un: ogni presèint l’è spietê compiànt
dal tèimp; dû: al tèimp na scusa, un tragatèin
per šrasèr via al presèint; trî: incô n’impiànt
méss sò un po’ acsè; quàter: du figadèin,
tèimp e presèint, ch’i dvèinten man e guant
sòul l’ùltem dè; sinch: òurden e casèin
i’s scùsn un con ch’l’èter; sê: an è mai tèrd
o abàsta prèst in stê bicér ch’al pèrd.

Uno: ogni presente è spietata commemorazione
del tempo; due: il tempo una scusa, un trucchetto
per scacciare il presente; tre: l’oggi un impianto
montato malamente; quattro: due aggeggi,
tempo e presente, che divengono mano e guanto
solo l’ultimo giorno; cinque: precisione e confusione
si giustificano a vicenda; sei: non è mai tardi
o abbastanza presto in questo bicchiere che perde.


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