Ripescaggi #40
Secondo e ultimo ripescaggio di uno scritto inviato a Dori Agrosì per il suo bel sito "La nota del traduttore".
Un esercizio che faccio spesso è notare o leggere un libro uscito per qualche
editore straniero e immaginarmi quale casa editrice italiana abbia la “vocazione”
per tradurlo. So che è un esercizio che lascia il tempo che trova, e difatti quasi
mai le proposte di traduzione che invio agli editori vanno a buon fine. Più facile
che sia un editore a propormi un autore che nemmeno conoscevo prima. Così è successo
con Stewart O’Nan qualche anno fa, e ora anche con Frank Norris.
Quando Michele Toniolo mi parlò di Frank Norris, pensai per prima cosa che non
conoscevo l’autore. Questo non è necessariamente un problema quando si traduce
e credo che capiti spesso. Questo fatto era tuttavia strano, e non
certo perché io abbia una buona conoscenza delle letteratura mondiale, ma più
che altro perché Norris è un autore collocato in un periodo ben preciso della
storia letteraria americana, un frangente che tra l’altro amo molto e che riserva
sempre scoperte interessanti.
Norris nacque nel 1870 a Chicago e morì di peritonite a San Francisco a soli
32 anni. Non mancò di girare il mondo come corrispondente in Sudafrica, nel 1895-96,
e a Cuba, durante la guerra ispano-americana del 1898. Prima ancora, nel 1887,
era stato a Parigi a studiare pittura. Lì conobbe il faro delle opere di Zola,
una frequentazione di testi che, unita agli studi e alle esperienze di corrispondente,
dà probabilmente origine al distillato di scrittura che è questo A Deal in Wheat.
Il racconto è girato in cinque scene. Scrivo “girato” perché è talvolta sorprendente
questa anticipazione dell’occhio cinematografico che sembra “built-in” in certa
letteratura americana pre-cinema. Nella prima scena il protagonista (meglio dire
la persona su cui si abbattono le macchinazioni borsistiche di cui verremo a conoscenza)
lascia la fattoria per recarsi in città e apprendere che il grano ha raggiunto
prezzi insostenibilmente bassi. Il prezzo troppo basso comporta il fallimento,
il disfacimento della fattoria e la fine dell’attività di coltivatore di grano.
Nel secondo capitolo entrano in scena i ribassisti e i rialzisti, che con i loro
accordi determinano l’altalena assurda e ingiustificata dei prezzi del grano.
Nel terzo assistiamo ad un grandioso affresco borsistico dell’epoca, dove le folle
vocianti di allora si sovrappongono idealmente all’immagine degli operatori di
borsa che oggi abbiamo noi. Nel quarto appare l’altro grande elemento portante
di tutta la narrativa di Norris, la ferrovia, con il suo immenso e geografico
portato simbolico, e in questo specifico caso usata come mezzo al servizio dei giochi del ribassista.
Nell’ultima quinta stazione ritroviamo Sam Lewiston, il protagonista, che dopo
una poco felice parentesi nell’industria, si trova in coda a mendicare il pane,
proprio nella notte in cui, per un improvviso esagerato rialzo del prezzo del
grano, il pane non può più essere elargito ai mendicanti. Quella stessa sera però
la ruota della fortuna torna a girare a favore del protagonista, che trova un
nuovo “impiego” (stavolta nel settore dei servizi della nettezza urbana).
Se da un lato sembra fin troppo facile seguire il percorso del protagonista attraverso
i tre canonici settori di produzione (primario, secondario, terziario) e le ripercussioni
dei primi eccessi del capitalismo del Ventesimo secolo, dall’altro in Norris ritroviamo
una grazia tutta americana nel saper trasfigurare situazioni, persone, luoghi
e, in sostanza, lo stesso plot della vicenda. L’epopea della produzione del grano
e la ferrovia, i due assi portanti della sua scrittura e di una trilogia che non
è riuscito a completare, sono qui magnificamente compresenti. Certe scelte linguistiche
rimandano alla sua esperienza giornalistica e ad una profonda comprensione di
determinati contesti finanziari e speculativi.
Il racconto era già comparso nell’antologia Americana di Vittorini nella traduzione
di Piero Gadda Conti. Rispetto a quella versione ho sentito il vero e proprio
dovere di lasciare intatti i tecnicismi giuridici (secondo capitolo) e dell’opaco
gergo di borsa (terzo capitolo), cercando di preservare quello sguardo trasfigurante
al quale accennavo sopra, ravvisabile soprattutto nel capitolo iniziale e in quello
finale di questo racconto, opera imprescindibile di un autore che, piano piano,
in Italia stiamo riproponendo e riscoprendo. Oppure, più semplicemente, scoprendo.
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