Le edizioni ObarraO propongono un interessante libro del poeta francese Yves Bonnefoy intitolato Poesia e fotografia (pp. 112, euro 7, traduzione di Andrea Cocco). Sostanzialmente questo coincide con un movimento di pensiero in due atti, o per meglio dire due scritti, introdotti dal breve contributo di Antonio Prete. Il libro mette assieme la traduzione di Igitur et le photographe (contenuto in Sous l'horizon du langage) e Poésie et photographie. Oggi la fotografia è pervasiva e onnipresente, ma un esercizio che non guasta mai è provare ad avvicinarsi ai momenti in cui la fotografia s'affacciò sul quel panorama terrestre che ora pretende di mappare e irretire palmo a palmo, in uno scolo fognario-fotografico che s'aggiorna ad ogni secondo nella timeline del presente. Bonnefoy parte da due testi: nel primo scritto l'abbrivio è l'Igitur mallarmeano, nel secondo La notte di Maupassant, ritenuto racconto fotografico ante-litteram (ma tra le righe ritroviamo Goya, Poe e Degas e pure le riprese di Eugène Atget). Naturalmente quando un poeta come Bonnefoy affronta temi simili lo fa perché questi sono in qualche modo centrali nella sua scrittura ed è come se provasse a capire cos'è davvero nucleare in questi passi del suo pensiero sulla fotografia. La calata sul mondo della fotografia infatti mette a sistema un grumo di elementi che vanno a formare la cosiddetta sensibilità ed estetica moderna e la poesia non può che esserne pienamente investita.
Qualcuno però potrebbe chiedersi: ma come? Perché sostenere che la poesia, lingua suono e scrittura, non può che essere investita da una rivoluzione che riguarda il modo di catturare lucidamente in silenzio le immagini e i particolari del mondo? Perché questo legame tra albori della fotografia e poesia, la quale invece trova nella lingua e nel suono la sua ragione per stare al mondo? Perché la fotografia, che non è una lingua e forse non sarebbe opportuno nemmeno definirla un "linguaggio", impatta anche in ciò che si manifesta come un'intima necessità della lingua e del suono? Senza dimenticare l'irrinunciabilità di un discorso riguardante lo sguardo in poesia, Bonnefoy allora ricorda che "il fotografo è, a suo modo, l’annunciatore del Nulla, libera le cose lasciandole nude, spoglie, silenziose, e ci consegna un irrimediabile vuoto". Il grande tema dell'assenza è così introdotto assieme a quello del caso: fotografare diventa infatti un tentativo di catturare il caso. Si salderà allora, anche per questa via, il campo magnetico che la fotografia inizia ad esercitare sulla poesia e sulla letteratura in senso più ampio? Lasciamo la risposta a questa domanda a chi s'avventurerà a leggere questo breve e importante librino, che arriva a mettere in relazione il proliferare delle fotografie con la fine del mondo.
Walter Benjamin fu un'altra mente grandiosa che si interrogò viaggiando su simili binari. E a queste riflessioni mi pare di dover tornare ogni volta che realizziamo la devastazione fotografica in atto sul cosmo. Viaggiamo tutti con un apparecchio fotografico in tasca. Anche questa è una mutazione. Siamo ad un rapporto di 1 a 1 ormai. Quest'invasione (evasione?) fotografica è molto simile al contrario di un'apocalisse e di una rivelazione, ovvero è una velatura e copertura continua del campo del visibile, al di fuori di qualsiasi possibile tenuta della sacralità dello spazio. Mi pare che da Bonnefoy a noi il cardine su cui far girare nuovi pensieri sia proprio lo spazio, quello evocato dalla poesia e quello inquadrato dalla fotografia. Si fa largo un nuovo spazio desacralizzato che s'approssima a diventare la somma algebrica degli scatti con cui tentiamo di irretire il mondo annaspando in inquadrature. Dovremmo però preoccuparci di come sono fatte le maglie della nostra rete da pesca fotografica, ridisegnarle, prendere a prestito geometrie nuove e preoccuparci di chiamare pesci (quindi fotografie, fuor di metafora) solo ciò che s'impiglia in queste ridisegnate reti da pesca. Di libri come questo di Bonnefoy ce n'è un gran bisogno, ne attendiamo degli altri. L'autore non è nuovo a queste incursioni nell'arte e nel visivo, basti ricordare qui in chiusura i suoi contributi su Goya, Giacometti, Holland, Hopper, Miró, Ostovani e sulla centralità del disegno.
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