7x7 è
una rubrica articolata in regolari uscite metrico-stilistiche nell'arco di
sette venerdì e dedicate ad un libro. Come non piangenti è il libro di
poesia di Cristina Alziati, pubblicato da Marcos y Marcos nel 2011 nella
collana Gli Alianti, per il quale è stata scelta l'immagine emblema del
Vergesslicher Engel di Paul Klee. Le analisi sono tratte da un più ampio studio
di Alessandra Conte, dedicato a Cnp nel 2014.
Come non piangenti è il titolo del libro di Cristina Alziati, ed è
anche la traduzione di un frammento derivato da un passo escatologico della
prima lettera di Paolo ai Corinzi. Se scopriamo che il passo stabilisce una
connessione con l'epitome poetica e autobiografica che è l'ultimo testo
dell'ultima raccolta testamentaria di Fortini, ciò ha valore di traccia
memoriale, e dà il la ad un'opera corale dalla natura profondamente dialettica
e intimamente dialogica. Il libro è tessuto fitto. Alcune voci sono dichiarate
come maestre e riferimenti - Cardenal, Hillesum, Luxemburg - ma tra i rami degli
alberi (non casuali, ancora), in controluce, ne sono presenti anche
altri, musicali e cinematografici, a intrecciare l'ordito testuale, oltre a
quelli più ampi di natura biblica e letteraria. Ne risulta un atteggiamento
interessante che circolarmente torna a un imperativo sotteso, scrivi. Ma
la scrittrice può definirsi per negazione, senza sedersi a tavolino con
progetti precisi, e si scopre che il valore della scrittura sta nell'ascoltare
il mondo, che è anche non scrivere.
Presto, dai vetri aperti stamattina
un baccano di uccelli s’è levato.
Folli,
che fate, ho domandato alle chiome
ossidate nel giardino, è novembre.
Sbrigatevi, andate. Lasciate ch’io
qui
resti ancora a chiamare per nome
ogni cosa,
il grido la piazza l’arrotino, a
ripetere
il fosforo, il fosforo, il cargo, è
mattina.
Il mendicante anche se giura
non verrà creduto. Lasciateci.
Che qui resti ancora a guardare, e
altri
attraverso il deserto dei rami
tralucano, alberi.
Una
mattina di novembre caratterizza la poesia d’esordio del libro, evocata con stamattina, in un hic et nunc
dichiarati, e che il soggetto lega al desiderio di poter restare ancora a ripetere, nonostante tutto, a ricordare gli avvenimenti del passato
riprendendo una narrazione: ripetere in quanto ricordare, ridiscendere nel
dolore. Il mese di novembre è evocato lapidario al termine del quarto verso,
chiuso con punto fermo, e porta con sé suggestioni autunnali – la fine, la
morte apparente della natura.
L’enunciazione
dell’esordio pone un dubbio: si tratta di un avverbio di tempo o di
un’interiezione? E’ comunque un deciso battere e levare, una premessa
successivamente precisata dal punto di vista spaziale: si tratta di un luogo chiuso
e delimitato – una stanza / corpo – che affaccia su di un altro luogo
tradizionalmente concluso, un giardino. L’apertura è dunque minima, ma basta
uno spiraglio per esserne feriti. I primi due versi infatti suonano come una
raffica – d’armi o di un improvviso vento – che porta alle orecchie l’irrompere
di uccelli cinguettanti o che, fortinianamente, si contendono («uccelli che al mattino tutto chiuso, tutto muto /
sull’altissima magnolia si contendono»)[1]:
pREsTo, dai vETRi apERTi sTamaTTina
un baCCano di uCCelli s’è levato.
In
particolare, l’apertura, che sembra generare fastidio – richiamando un’altra
apertura, quella della «pelle in frantumi»
a p. 31 – è evidente nei suoni allitteranti /r/ /t/ /e/ che ricorrono
variamente combinati nell’immagine che si precisa nei vetri aperti, come vetri
vibranti per detonazione o già infranti. La sineddoche svela l’estrema
delicatezza e sensibilità del soggetto, esposto alle sensazioni auditive come una
pellicola fotografica alla luce che imprime. Gli uccelli sono genericamente
uccelli, produttori di baccano
evocato e gonfiato nelle geminate. L’asprezza sensoriale dell’esordio, causata
da una protezione che viene ad interrompersi, viene ammansita però da elementi
tratti dal registro aulico, come s’è
levato, o l’apostrofe allitterante alle chiome ossidate «Folli, / che fate»,
che operano uno scarto rispetto alla medietà del linguaggio. Il bisillabo Folli ricorre evidenziato dalla posizione a fine del secondo verso,
dopo un punto fermo e incorniciato da lieve pausa di virgola, come aggiunta
gnomica all’endecasillabo individuato dal segno d’interpunzione. L’apostrofe
introduce e compendia il tratto sentenzioso e “leggermente alto” (espressione
di Fabio Pusterla in quarta di copertina) che si riscontrerà poi nell’arco del
libro; segna lo scarto improvviso verso l’alto, attua la funzione conativa del
linguaggio e orienta il discorso sulla seconda persona, individuata nelle chiome ossidate. Esse richiamano «l’ossido
molle del fogliame» (p. 37, vv.15-16) – forse da impressioni insinuatesi da
Brecht, per contiguità tra l’elemento del rame e l’ossido («Di
prim’ora / gli abeti son di rame»)[2], e
per analogia figurale con segno negativo, svettante verso l’alto, da Fortini
(«L’ossido lede le antenne sui tetti»)[3] –
già cupe fronde in A compimento, il primo libro
dell’autrice. L’ossido indicherebbe, al di là dell’immediato rimando ai colori
e al deteriorarsi, relativi al tempo autunnale e alla sua valenza simbolica, l’«ossido
sulla luce»[4]
– l’ultima espressione che conclude A compimento
– il male nella storia[5].
Nell’arco dei primi due periodi traspare, anche attraverso la figura
dell’albero, la dichiarata influenza di Franco Fortini per toni e figure.
Il
seguito, al verso 5, prolunga il tono appena introdotto e ne intensifica
l’eleganza, producendo formalmente, e dal punto di vista retorico, un distacco
dalla porzione di testo precedente. Il procedimento è leggibile anche come un
cambio campo cinematografico rispetto alla dinamica esterno / interno (cioè
giardino / casa-corpo).
La
sequenza degli imperativi progressivamente cadenzati al v.5 («SbrigATEvi,
andATE. LasciATE») produce il distacco dagli ascoltatori e introduce con pathos
oratorio il tema della scrittura, inteso come restare «anCora a CHiamare per
nome ogni Cosa», ricorrente nel libro («Ciascuna delle cose che non viene
nominata / è per sempre perduta», p. 15, vv.1-2) e raccordato al tempo e ad uno
spazio lontano, collegato però all’hic et nunc, proprio a questa mattina, dove in elencazione asindetica
si susseguono «il grido la piazza l’arrotino», parte del tutto, l’ogni cosa
da nominare – e quindi da ricordare – echi distanti dal giardino del qui ed
ora, “cose di paese”, a cui si aggiunge la serie con ripetizione «il fosforo,
il fosforo, il cargo», dove il lessico della guerra tecnologica indica “cose
dell’altro mondo”, che traspaiono e si ripropongono come scie luminose nella
tagliente luce crepuscolare dell’autunno. La mattina è il momento in cui tutto ricomincia, assieme ad ogni
guerra, personale e della storia. L’iterazione, da figura di parola, si plasma
come frammento di notizia giornalistica e di cronaca, citazione e traccia di
memoria, prima spia della fisionomia del tessuto del libro, vivo
nell’inserzione di voci e citazioni, e rivelatore di una natura profondamente
dialettica e dialogica. Il tono ottativo tra i versi 5-6 e al verso 11 («ch’io
qui / resti»; «Che qui resti») si coniuga all’augurio sintatticamente e
lessicalmente elaborato – attraverso la
figura dell’iperbato e del latinismo – di poter restare a guardare, e che siano
altri gli alberi a trasparire nella luminosità, ossia l’alterità, ciò che deve
essere costruito come bene e che è inscritto nel male[6]:
«e altri / attraverso il deserto dei rami / tralucano alberi».
[1] FRANCO FORTINI, Se volessi un’altra volta…, cit., p. 9.
[2] BERTOLD
BRECHT, Abeti, in Poesie e canzoni, a cura di Ruth Leiser
e Franco Fortini. Prefazione di Franco Fortini, Torino, Einaudi, 1962.
[3] FRANCO
FORTINI, Ancora la posizione, in Questo muro, Milano, Mondadori («Lo
Specchio») 1973.
[4] CRISTINA
ALZIATI, In ciascuno dei giorni, in A compimento, San Cesario di Lecce,
Manni, 2005.
[5] Incontro
Testo, “Incontrotesto – Incontro con Cristina Alziati”, cit., p. 12.
[6] Ibidem.
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