Postfazione
di Alessandra Pigliaru
«Datemi retta, quel che vi dico | non potete capirlo di
schiena, devo | parlarvi nel petto, e allora | nel petto fiorirà la rosa». È
all’altezza del petto e quindi del respiro che Dora Pal parla. Da petto a
petto, significa che il tempo del fiorire è tornato a raccontare di sé e che
non gli si può voltare le spalle. Lo si farebbe con la storia e con una parola
che sistema gli elementi, dalle stagioni alle cose del mondo, in un ordine
comprensibile. Non stupisce che in quel petto alberghi una rosa perché i fiori,
l’erba, gli alberi con i rami che misurano il cielo fanno parte da sempre della
poetica di Ida Travi. E sono un omaggio alla poetica della magnificenza del
minuscolo che da Emily Dickinson ad Amelia Rosselli hanno rappresentato uno dei
modi di contrattare con la gratitudine per il circostante.
Questo ultimo lavoro che prende il nome della sua
protagonista, Dora Pal, chiude la quarta sequenza in versi dedicata ai Tolki,
abitanti della terra di Zard e scampati a qualche naufragio o evento
catastrofico non ben identificabile. Ancora adesso, siamo dinanzi a un piccolo
nucleo di uomini, donne e bambini. Non si tratta tuttavia di altri centri, lo
scenario che descrive Travi è stato composto in una å precisa che dal casolare
rosso delle origini arriva alla casetta degli attrezzi, alla struttura
diroccata e ora a una tettoia che sta davanti a una cucina; anche gli oggetti
da lavoro permangono, così come il tragitto della crescita dei vari bambini che
si incontrano, prima della nominazione e ora mentre spingono un carretto, fa
parte di un unico pensiero. È infatti l’occhio poetico che da Tà, passando per Il mio nome è Inna e Katrin,
ha deciso quale parte del creato illuminare. Come fosse una telecamera, lo
sguardo di Ida Travi è la porzione registica a cui l’autrice intende farci
accedere. Non un millimetro di più di quella inquadratura, anche se accanto si
sente il sospiro di Inna, l’incedere di Katrin, il prodigio del pettine, la
torsione dell’anello e il grembiule mutato in scialle. Sono soggettività in
movimento che premono, tutti e tutte, davanti alla porta di un futuro a venire
ma rimangono fuori dalla vista, sia del verso che della lettura. Meglio non
sovrapporsi, pur sapendosi prossimi. ogni cosa ha il suo tempo e ogni faccenda
il suo momento sotto il sole.
Il futuro, di cui i Tolki si sono fatti portatori, è adesso.
Dora Pal e la sua famiglia-tribù conoscono il significato di ciò che sarà da
venire e che, in verità, è già avvenuto: «E se non mi credete, a me che cosa
importa | cosa m’importa? Io sono Dora Pal, | sono Dora, io!». Dora Pal è la
terra, sia minuscola che maiuscola. Quella che viene calpestata, sia dal nostro
passo errante che dall’assalto famelico del profitto. È la terra in cui
gravitano viventi meno arroganti degli umani e da cui, ciò nonostante,
perseveriamo a non imparare quasi niente. È tuttavia anche la terra su cui ci
si inginocchia, che si tocca quando l’elemento del “basso continuo” non la
perde di vista. Serve ma al modo dell’inutilità irriducibile, viene compianta e
presto ricollocata nell’alveo di un augurio.
Dora Pal non possiede nessun vaso, non ha ricevuto nessuna
punizione divina per espiare colpe non sue bensì un tempo, forse, ha avuto il
nome rovesciato. Non è un caso che nell’etimo di “dora” stia il significato di
“dono”, e invece di “pan” (tutto) abbia preferito un suono più dolce, “pal”,
che non la renda rintracciabile. La Dora Pal di Ida Travi ha quindi poco da
spartire con la mitica Pandora anche se entrambe hanno potuto maneggiare la
speranza e la prima ha capito che l’unico modo di portarla nel mondo è saperla
predicare. Pandora risiede nel tragitto menzognero di una storia che
attribuisce responsabilità a chi non le ha avute. A questo proposito, il piano
di immanenza, Ur, che avevamo già conosciuto, ora si esplicita per ciò che è:
«Chi ha paura di Ur? || Nessuno ha paura di Ur? || Ur sta sopra ogni cosa ||
Vuole mangiarvi in testa || State attenti, state attenti!».
Il tono di Dora Pal è sapienziale, i “piccoli nomi” sono
allora il simbolo di zoe, il timbro
del nascituro non può determinare semplicemente il bios ma qualcosa di più: «Io chiamo i pulcini | e mi viene da
piangere || Ma perché, che male c’è | se mi viene così da piangere?». I mali
del mondo sono già tutti scappati di mano, è chiaro come non vi sia nessun
cruccio a farsi commuovere da chi è piccolo.
Capelli d’argento, Dora Pal compare torreggiante sopra il
«sacco-altare» di farina, elemento cruciale nella poetica di Ida Travi che, se
non torna neppure una volta in Katrin,
risente di numerose iterazioni ne Il mio
nome è Inna. Ma anche ne L’aspetto
orale della poesia, come nell’ultimo Poetica
del basso continuo. «Dovresti saperlo: la farina | non è come la neve, va
nel forno || Tu prendi la farina – così – | ci metti l’acqua e poi… nel forno!
|| Tu non conosci la storia, Vre || Dell’acqua, del mulino non sai niente | non
t’hanno insegnato niente, niente». Una «conoscenzafarina», l’ha chiamata la
stessa poeta. La mano di chi scrive è la mano che «si è ritratta dalla farina così come dal
sangue». C’è dell’altro, più profondo della semplicità: in chiusura di questo
straordinario lavoro sulle personagge e sui personaggi, unico nel panorama
italiano se pensiamo che Travi è riuscita a farne una genealogia critica e
simbolica, si avverte lo stringere dell’essenziale; di qualcosa che è di là da
lievitare. In Dora Pal farina e
polvere sono infatti aspetti della medesima trasformazione. Se la prima è la
possibilità di impastare la parola, riparandola al caldo di un forno – a
differenza della neve che sarà pur candida ma non sa moltiplicarsi –, la
seconda è il monito di una parola che, se non curata, può morire ma per altre
ragioni. La polvere in questo senso è sia ontologica che terrestre. ontologica
perché chiarisce la natura del pulviscolo che si solleva mentre Dora, Vre, Zet
e Kiv si incrociano, non proviene dalla terra ma dalla friabilità di una
consistenza relazionale fra loro che esiste da sempre. Allo stesso modo la
polvere è terrestre perché le relazioni – quando sono incarnate – hanno il
passo della stratificazione storica. La polvere del cimitero, allora, delle
tombe di chi ha preceduto una progenie ancora tutta da definire, è il deposito
del tempo che non riesce a rigenerarsi.
È che gli enti convocati da Travi sono il contrappunto degli
eventi, di quello “scalpitare” che nei lavori precedenti mancava e che qui
invece è introdotto dal fischio (del vento come del merlo nero) quando dichiara
tempesta: «Eravamo alla stessa altezza la foglia ed io | e sotto il fondamento
cantava la tempesta». Del resto è proprio da quella tempesta che si
scompigliano le ipostasi, che si sa avvertire il tremore di ciò che sarà.
«oltre la porta bianca, oltre | il cespuglio nero… | fino alla coda del cane |
fino alla macchina da cucire | Il bambino era per terra | ti ricordi? il
rocchetto era per terra | ti ricordi? E le mani per terra | anche loro, anche
loro… || L’anima degli animali | entra e esce con le sue ali, Zet | lo dice la
parola stessa». Ulteriori riferimenti psicoanalitici di rocchetti, fili e
bambini che si attrezzano a far scomparire le madri qui non hanno udienza. Più
del rocchetto, ci insegna Ida Travi, è importante il filo. E se esso è ciò che
consente al bambino di tirare il carretto, viene ricordato a quel bambino che
sta crescendo che un giorno dovrà renderlo. Ancora di più, nel caso di Dora
Pal, la corda che tiene al ventre, è il legame. Se allora il rocchetto giunge a
essere sostituito dal carretto, significa che il “gioco” di Kiv, prima o poi,
non potrà che essere quello di guardare dentro a ciò che trascina: «Tu parla
come fanno le radici | lo sai come fanno le radici? || Salgono su dalla terra
come se fossero morte | e poi all’improvviso ti danno il fiore, il fiore».
La terra ha la benedizione nell’occhio chiuso del bambino,
quell’arco mosso di parole corte, come i Tolki insegnano a ripetere, sono pescate
chissà da quale cassetto della memoria onirica. La terra sia benedetta, ci
ammonisce Dora Pal, nello scricchiolio dei nomi impronunciabili: «Date retta a
quel che dice la vecchia || Se dico –
porta il sasso, porta il sasso | se dico – porta il fuoco, porta il
fuoco || Dovete farlo e basta, una non diventa così | per niente, una lo sa se
è giusto || E non state qui a discutere, nessuno | può parlare per un altro: è
la legge». L’unico tribunale plausibile è quello che segue la legge del cuore,
senza criterio: «– essere del mondo cosa vuoi? – || Volevo essere nel petto di
qualcuno | volevo sventolare nel petto di qualcuno».
La rivolta possibile appare essere in questo modo quella di
sentire, di esercitarsi finalmente a sentire e non solo a pensare, cercando di
sanare la scissione immedicabile su cui il canone occidentale ha immaginato
fondarsi. Ecco perché i cavalli, uno bianco e uno nero di riferimento
platonico, vengono salutati da Ida Travi non nel conflitto di uno sull’altro ma
nella assoluta convivenza di entrambi. La terra si regge nelle mani di queste
due istanze o forse l’anima è già in salvo? «Come battere un pugno sul tavolo |
e alzarsi di colpo gridando: amore!». Tuttavia, è l’anima o il corpo? «Voi,
piccole forme d’insetto, voi | esseri vulnerabili nelle chiome». Gli esseri del
mondo di cosa si circondano se non di amore? Di cosa reclamano necessità se non
di attenzione? Dora Pal è la prima antenata, la regina della parola impastata
di lavoro, è la signora che tutto fa muovere, che nella grandezza immensa del
cielo intuisce l’importanza del catino. Ma è anche colei che al vuoto della
fede (intesa come anello e allusione al vincolo coniugale) oppone la
circolarità della parola, del verso che ha detto quanto sia complesso mettere
al mondo immagini, linguaggi, parole e opere. E che pur tuttavia si prepara a
una nuova gestazione. Non nell’ottica dell’eterno ritorno dell’identico ma
seguendo il solco secondo cui nessun essere è del mondo se non nasce già e
sempre in relazione. Il commiato dai Tolki non è mai stato più doloroso, eppure
ci auguriamo che restando nei pressi di una parola così autentica ne sentiremo
ancora parlare.
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