sabato 25 febbraio 2012

"La bella vista" di Umberto Fiori

Ripescaggi #11

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Dell'importanza della poesia di Umberto Fiori si scrive, ma forse mai abbastanza. Anche il suo lavoro critico andrebbe ripreso in mano. Qui ripesco una recensione uscita - mi pare di ricordare - sulla rivista "Atelier" poco dopo l'apparizione de La bella vista (Marcos Y Marcos, 2002, pp. 116, euro 11,60)
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La “bella vista”, che dà il titolo al poemetto della prima sezione e all’intero libro di Umberto Fiori, è un luogo ben tratteggiato nella nota in chiusura. A pensarci bene, la vista è anche il senso più sconvolto e sconvolgente nelle poesie di Fiori, sin dagli inizi con Case e Esempi. Pare del tutto naturale che il poeta faccia oggi occupare alla vista un posto privilegiato, in un titolo che suona come una rottura rispetto alle titolazioni secche delle altre raccolte poetiche (Case, Esempi, Chiarimenti, Tutti).

Né visivo né visionario (giusto per strozzare sul nascere certe diatribe già in voga a inizio Novecento, ad esempio, per Dino Campana), Fiori è il poeta che più di altri, in questi ultimi vent’anni, ha saputo mostrare come gli occhi, il ‘semplice’ vedere, possano rigenerarsi e rinascere a nuova vita. Con costanza severa e nessuna forzatura, la poesia di Fiori è riuscita ad inventarsi una comunità di lettori. Detto con un’espressione da rotocalco, Fiori è riuscito a farci vedere le cose (le case, soprattutto!) della nostra vita quotidiana sotto un’ottica nuova. Ha scelto la poesia per comunicare con parole elementari una personale conquista dello sguardo.

Il libro in questione sembra collocarsi ad una svolta. Smorzati gli accenti su certi temi, su certe ossessioni (almeno sulla carta, dato che dobbiamo credere che le ossessioni vere non ci abbandonino mai del tutto), Fiori ci indica a che livello di metabolizzazione sono arrivate le sue occhiate alla realtà, il suo verso detto con semplicità e la riflessione etica che, anche in questo libro, si appoggia su una metafisica del vedere: «Da allora, bella vista, più del tuo / saluto, più del tuo / cielo perfetto, / nella vita che cosa / ho mai saputo?»

Partendo dalla “Bellavista”, luogo reale e mitico al tempo stesso, Fiori rivede e riscrive una propria memoria spogliandosi di tutte le incrostazioni più terribili dello sguardo: «Tu mi hai insegnato tutto. / Insegnami a morire, bella vista. / A scomparire, / come tu sei scomparsa. // Fa’ che non sappia più cos’è / chiamarsi: / essere Piera, Gustavo, / nave, mare, muretto. // Insegnami a mancare, / a tornare invisibile, com’era / l’occhio in cui ti ammiravi.» L’enumerazione, prerogativa della poesia di Fiori sin dagli esordi, è qui giocata in senso negativo a dimostrare la sua insostituibilità all’interno del verso.

A La bella vista segue la sezione Idoli, da leggere a sigillo del poemetto: ‘idoli’ nel senso di immagini, oggetti o scene elevati a divinità provvisorie, portatrici di comprensione improvvisa, come in Ostacoli, sbarramenti: «[…] Platani, tetti, ragionamenti, / musi, facce, facciate / che state là / e mi tenete escluso, / io vi tengo per veri. // Stretti vi tengo. Io spero / soltanto in voi, / ostacoli, sbarramenti. // Un giorno, quando tutto si aprirà, / scenderemo abbracciati.» Una chiusa così può ricordare l’ultimo Montale, poeta ligure come Fiori e citato in epigrafe.

Statue, la terza sezione, così com’è stata pensata e scritta, abbozza una sintesi dell’opera, mettendo in scena quelle aporie contro le quali si scontra inevitabilmente un ragionamento poetico sull’essere, l’esserci, il vedere e il sentire quand’è radicale e pervasivo: «[…] Ma la statua / diritta sul piedistallo, / la barba ferma / nella gorgiera di bronzo, / il gioco che fa col mondo / chi lo capisce?». Protagonista della scena dovrebbe essere la statua. Invece il soggetto del periodo cambia, è posticipato nell’ultimo verso: è l’uomo protagonista, con la sua fatica a capire il gioco delle statue, oggetti, allegorie di uno iato tra quello che vive e quello che dura e lascia una traccia nel/del tempo. Le poesie Desiderio, Altro desiderio e Spesa vivono delle suddette aporie, rilasciando sulle pagine figure ossimoriche in una sorta di adynaton diffuso: «non diventare più», «assomigliarmi», «un passo immobile», «il sorriso di pietra». In Spesa il poeta ammette di riuscire ad amare solamente la «forma chiusa, piena, finita» delle persone che vede rientrare a casa la sera, «il contegno di marmo, liberato dal tempo, dallo spreco». Salvo poi concludere: «Insegnami, tu che lo sai, l’altro bene / che si dovrebbe volere.» Una chiave per rileggere tutta la sezione (e l’opera poetica di Fiori nella sua interezza) ci viene della poesia Totem: «Sgorga e scorre la vita, / ma sta / rigida come un tronco secco, / l’origine.»

Il libro si chiude con Due allegorie che ribadiscono una spiccata preferenza (amore?) per le forme chiuse, cristallizzate, massimamente riconoscibili. Al circo e Scivolo sono sempre scene di vita, cose viste in una giornata qualsiasi, pronte a concretizzarsi in un concetto che qui sembra essere quello della sacralità dell’infanzia, con accenti che potrebbero mettere d’accordo Giacomo Leopardi e Giorgio Gaber.

Fiori non è un nuovo crepuscolare e la sua poesia non può rimanere, metaforicamente, un parlare al muro (titolo di un suo libro del 1996, contenente sedici poesie e otto tavole di Marco Petrus). La poesia di questo cinquantaquattrenne continua a presentarsi a noi come un esercizio, nel senso più ricco del termine: non si popola di belle parole, situazioni curiose, sentimenti improbabili. Piuttosto prepara, allena a vivere nelle cose. Talvolta avvicinare un pittore a un poeta può rivelarsi interessante e utile. Ecco: leggere La bella vista con in mente certi quadri di Giorgio De Chirico può divenire un esercizio significativo. E viceversa.

2 commenti:

  1. Grande, grande Fiori. Che piacere ritrovarlo qui su questo blog che seguo con piacere da qualche mese. Mario

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  2. Grazie Mario, per il commento e per seguire il blog. Alberto

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