Gabriele Dadati, piacentino nato nel 1982, non ha bisogno di essere definito, con strilli da quarta di copertina, uno dei più interessanti autori espressi dalla narrativa italiana degli ultimi anni. Lo è e Piccolo testamento (Laurana, pp. 128, euro 12) merita davvero di essere letto. Scrive questo chi inizialmente aveva storto il naso di fronte all'ennesimo libro dove si legge di uno scrittore, questa volta giovane, questa volta ritratto a letto con una ragazza, Camilla, che definisce la sua puttana, uno scrittore che ha avuto una storia importante con Marta, uno scrittore che tuttavia, questa volta, è pronto a restituirci una vivida e dolorosissima relazione intellettuale sulla quale viene impostato il ritmo in levare dell'opera.
Il libro di Dadati, pur entrando quindi nell'ormai sovrabbondante insieme di libri dove si parla di scrittori e scrittura (qui sembra davvero di leggere tra le righe la routine e i retroscena di tanti giovani scrittori e dell'editoria nostrana), pur sfiorando quell'autoreferenzialità che è tipica della televisione (ma anche di ogni media, quelli nuovi compresi), rappresenta anche il libro che avrei voluto leggere da tempo e che finalmente ho trovato.
Un lungo racconto tirato, una notte priva di sonno in cui il nostro protagonista senza nome ricorda il suo rapporto con Vittorio, un vero maestro, precocemente scomparso a causa di un cancro al cervello. Oggi è difficile, è persino out parlare di rapporto maestro-allievo, tanto più nell'epoca delle marchette intellettuali. Eppure io credo che nuovi libri che affrontino questo tema con altrettanta limpidezza e onestà siano necessari perché, parafrasando e capovolgendo Wittgenstein, su questa fondamentale relazione dell'umano non possiamo tacere. Se poi sono libri come questo, in grado di raccontare la sfibrata vita di oggi, la sua sconclusionatezza, le sue numerose forme di dissipazione di energia, risorse, desideri e, naturalmente, di testamenti allora i motivi per rallegrarsi raddoppiano. Ci sono cose che riguardano i meccanismi della trasmissione che non possono non riportare alla ribalta discussioni anche accese sul rapporto maestro-allievo.
E poi c'è il piccolo testamento del titolo. Ovviamente il pensiero non può non andare a Montale e a quella splendida poesia così intitolata. In effetti nel finale Dadati gioca con Montale, chiamandolo in causa a più riprese, accordandogli preferenze ma anche distanze. Sempre nel finale, c'è un passaggio molto bello in cui il protagonista ripercorre "le righe" delle persone della propria vita, un paragrafo che desidero riportare per intero:
"Così io sto, poco oltre l'incrocio delle righe, nella zona in cui ormai si sono interrotte. La riga che era Vittorio, e che s'è interrotta. La riga che era Marta, e che ho aiutato a interrompersi. La riga che era la mia famiglia d'origine, e che ho voluto interrompere per oltrepassarla. Solo quest'ultima è un'interruzione che appartiene a una natura delle cose che si immagina benigna. Ma in ogni caso oltre l'incrocio di queste tre righe io sto, in uno spazio di vuoto pneumatico che mi definisce."
Per il maestro Vittorio, per la memoria che ne trattiene il nostro protagonista senza nome, vanno bene i versi finali della poesia di Montale:
Ognuno riconosce i suoi: l'orgoglio
non era fuga, l'umiltà non era
vile, il tenue bagliore strofinato
laggiù non era quello di un fiammifero.
Nessun commento:
Posta un commento